Tbond Bund (VM69) 2014: 2014 il ritorno di Smaug

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gooooood uikkkèn bbbanda !!

grazie al cielo tutto sta lentamente tornando normale
tra l'altro, torna pure la pioggia... cosa si vòle dippiù ? :rolleyes:
 
endorsment di Libero a Renzi, con autogòl politico

ora sì che akkiapperà voti a dx

showimage.aspx
 
L’Europa accelera il passo Germania (+0,4%) e Francia (+0,3%) meglio delle attese alla fine del 2013





secondo cigno ....
 
Che cosa spiega il crollo della nostra economia in questi sei anni? Parlare di austerità sposta semplicemente il problema. Perché c’è stato bisogno di austerità in Italia e non in Germania?
Non molto tempo fa era la Germania a essere considerato il "malato d’Europa" (così l’Economist la definì nel 1999). Ma poi quel Paese seppe avviare un processo di riforme, specie nel mercato del lavoro, che rese l’economia più flessibile. E sindacati lungimiranti accettarono sacrifici in termini di salari e di condizioni di lavoro (basti pensare alle spregiudicate minacce di molte imprese metalmeccaniche di spostare fabbriche nella Repubblica Ceca in assenza di concessioni). Ci fu anche un elemento di fortuna (della Germania) e di 1997-2007 Andamento del Pil (in volume). 1997= 100 2007-2013 Andamento del Pil (in volume). 2007=100 sfortuna (dell’Italia). La Grande recessione fece piovere "sui giusti e sugli ingiusti" ma non interruppe la crescita dei Paesi emergenti, che sempre più - ormai coprono oltre la metà del Pil mondiale - facevano da locomotiva e da "ultima spiaggia" per l’export dei Paesi emersi. E l’import degli emergenti aveva bisogno di quei beni capitali in cui eccelle la Germania, mentre l’export faceva concorrenza ai nostri prodotti. Quell’adattamento alle nuove condizioni della crescita mondiale, che alla Germania veniva naturale, è stato ed è faticoso per noi, anche se la creatività dei nostri esportatori continua a vedere molte storie di successo.





Ma la ragione principale è un’altra. Quando l’economia è in ginocchio, come successe a tutti nel 2009, per rimetterla in carreggiata conta soprattutto l’apporto del settore pubblico. E qui conta l’efficienza della Pubblica amministrazione, la rapidità nel rimettere in gioco progetti e stimoli. Una burocrazia che sa solo negare e ritardare, un’organizzazione dello Stato che con le "competenze concorrenti" - portato sciagurato di un federalismo male inteso - si fa nemica dell’intrapresa, ha mantenuto in ginocchio l’economia italiana molto dopo che altre si erano risollevate. Ecco qui una "palude" che vale la pena bonificare.













ma noooo

svalutiamo e tutto va apposto !!!
 
FONDAMENTALI Si dice che le trimestrali Usa siano migliori delle attese Ma si dimentica che le stime per il 2013 e il 2014 erano qualche mese fa ben più alte
Se ne son viste di cose curiose sui mercati, e anche divertenti, nel corso della settimana. Le più spassose le hanno prodotte i pessimisti, i ribassisti, anzi i catastrofisti, che, fino a mercoledì, hanno fatto girare tra le sale operative di mezzo mondo un grafico con la curva del Dow Jones tra il 1927-29 e, sotto, quella del medesimo indice nel 2012-14: con la seconda che seguirebbe in maniera impressionante l’andamento della prima nella lunga fase di quasi ininterrotta ascesa e la ricalcherebbe in modo inquietante anche nella correzione di quest’ultimo mese. La conclusione del sagace analista tecnico (tale Tom DeMark) che ha scoperto la sconvolgente similitudine è che Wall Street è prossima a un collasso analogo a quello dell’ottobre ’29, quando il Dow s’era quasi dimezzato in pochi mesi. A parte la quisquilia d’aver utilizzato scale completamente diverse per dimostrare la tesi, l’apocalittico analista dev’esser rimasto molto male nel vedere che Wall Street è risalita allegramente in settimana e l’indice S&P (che nel ’29 ancora non c’era) è pressoché risalito ai massimi storici (manca un misero 0,7%).
Fallite le teorie deterministiche di certi ribassisti, hanno invece trionfato quelle autoreferenziali degli ottimisti ( bullish): il cui numero s’è ingrossato enormemente in settimana in parallelo ai rialzi di borsa. Il bullish sentiment, ossia il buon umore degli investitori rialzisti, ha contagiato il 40,1% degli operatori americani, contro il 27,9% della settimana precedente. Cosa abbia determinato tutto questo è difficile capirlo. La lettura che ne danno gli interessati è che siano state, martedì, le carezzevoli parole di Janet Yellen, neo presidente della Fed, a scatenare un clima di quasi euforia. La Fed è amica dei mercati hanno sostenuto, cercando di sorvolare sulla questione del tapering, ossia della graduale riduzione del quantitative easing anche per il prossimo mese: mentre il mercato s’attendeva invece una frenata per via dei "brutti" dati macro, come pretendevano gli operatori. In realtà Wall Street s’era mostrata rampante già da qualche seduta prima del lungo eloquio (e del tutto privo di novità) del presidente della Fed alla Camera dei deputati, senza che alcun fattore macroeconomico o qualche altra particolare notizia avesse influenzato i mercati.
Insomma gli operatori hanno deciso di comprare, perché bisognava comprare, e per farlo si sono affidati agli algoritmi dei computer cercando sempre la correlazione migliore. O, meglio, la più conveniente all’uopo di far salire Wall Street: perché dopo essersi affidati a quella collaudata tra future S&P500 e cambio yen-dollaro, sono passati ad altre attività finanziarie, allorché la valuta giapponese ha smesso di scendere. Per un giorno hanno provato a correlarsi con l’andamento (prezzi) del Treasury decennale, che andava su, interrompendo una divergenza che durava da settimane. Poi, nelle ultime due sedute, hanno scoperto l’oro, cosicché, ad ogni movimento al rialzo del metallo corrispondeva una salita del future: o viceversa, perché non s’è capito bene chi sia stato dei due a guidare le danze.
L’importante era che Wall Street salisse, in un modo o nell’altro: sia quando i presunti brutti dati macro (vendite al dettaglio) avrebbero potuto sostenere le attese di uno stop al tapering; sia quando, come ieri pomeriggio, l’aumentata fiducia dei consumatori Usa avrebbe deposto per una più robusta ripresa economica.
In questo istruttivo gioco dei mercati, manca qualsiasi considerazione fondamentale



:mumble::mumble:
 
Ultima modifica:
"Avete fatto macelleria sociale"

È la conclusione del Parlamento europeo sulla troika Eurogruppo, Bce e Fmi
dot.png
BRUXELLES - È un durissimo atto d'accusa a "Eurogruppo, Bce e Fmi" che hanno "violato leggi e trattati" e provocato negli ultimi quattro anni "una catastrofe sociale e politica" senza precedenti in Europa nella gestione della crisi. È il rapporto del Parlamento europeo sull'attività della troika, approvato ieri a larghissima maggioranza (27 sì, 7 no dei conservatori e di qualche liberale, 2 no della Sinistra Unita) dalla Commissione Lavoro e affari sociali.
"Hanno lavorato come macellai, non come chirurghi" ha detto il relatore, il socialista spagnolo Alejandro Cercas. Presentando il testo (che sarà portato al voto in plenaria a marzo) ha proposto di "triplicare i fondi per la Garanzia giovani, da 6 a 18 miliardi", definendo "urgentissimo" un piano per il lavoro che sia finanziato "con lo 0,5% del Pil, quando per il salvataggio delle banche è stato usato il 7%".




CdT.ch - Mondo - "Avete fatto macelleria sociale"
 
"Avete fatto macelleria sociale"

È la conclusione del Parlamento europeo sulla troika Eurogruppo, Bce e Fmi
dot.png
BRUXELLES - È un durissimo atto d'accusa a "Eurogruppo, Bce e Fmi" che hanno "violato leggi e trattati" e provocato negli ultimi quattro anni "una catastrofe sociale e politica" senza precedenti in Europa nella gestione della crisi. È il rapporto del Parlamento europeo sull'attività della troika, approvato ieri a larghissima maggioranza (27 sì, 7 no dei conservatori e di qualche liberale, 2 no della Sinistra Unita) dalla Commissione Lavoro e affari sociali.
"Hanno lavorato come macellai, non come chirurghi" ha detto il relatore, il socialista spagnolo Alejandro Cercas. Presentando il testo (che sarà portato al voto in plenaria a marzo) ha proposto di "triplicare i fondi per la Garanzia giovani, da 6 a 18 miliardi", definendo "urgentissimo" un piano per il lavoro che sia finanziato "con lo 0,5% del Pil, quando per il salvataggio delle banche è stato usato il 7%".




CdT.ch - Mondo - "Avete fatto macelleria sociale"

Certo.. intanto il bello è che L'IMF ora fa uscire paper che dicono che non c'è relazione tra debito e crescita (o almeno non è diretta ma è più legata alla sua traiettoria) mentre per il periodo tra il 2008/2012 hanno fatto uscire i famosi paper di Rogoff che sostenevano che c'era relazione: naturalmente ci può essere relazione o non ci può essere in base alle situazioni dei mercati ed alla percezioni degli stessi da parte degli operatori ma fior di economisti hanno giocato al piccolo chimico...

http://www.imf.org/external/pubs/ft/wp/2014/wp1434.pdf
 
:up::up:




la cui base poi ....


Il debito pubblico deprime la crescita? Il clamoroso errore di Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff | Keynes blog




Le basi teoriche di questa argomentazione, tuttavia, sono difficili da identificare e isolare con chiarezza (tra queste non va inclusa la ripetuta predica riguardante il “peso sulle future generazioni”, la quale ignora che le nuove generazioni erediteranno la ricchezza delle vecchie e pure, quindi, credito sul debito pubblico, per cui la questione è mal posta). Certamente maggior eco ha avuto lo studio di due autorevoli economisti dell’Università di Harvard e del Maryland, Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff, pubblicato nel 2010 sulla prestigiosissima American Economic Review, il quale ha stabilito il problema in termini empirici. E’ possibile scaricare un Working Paper preliminare all’indirizzo http://www.nber.org/papers/w15639.pdf
Analizzando una nuova base di dati che mette a confronto le finanze pubbliche e i risultati macroeconomici di un campione molto ampio di paesi a partire dal dopoguerra e oltre, ma non sempre disponibili per ogni paese e per ogni anno, lo studio dei due economisti mostra come esista una “discontinuità” dell’effetto del debito pubblico sulla crescita. In particolare, se parrebbero non esserci differenze sostanziali per valori sufficientemente moderati del rapporto debito/PIL, un valore di tale rapporto che sia superiore al 90% è associato nei dati a tassi di crescita economica significativamente più bassi, e in media nulli o negativi.
È importante sottolineare come tale risultato non corrisponda a un rapporto causale del debito sulla crescita, ma di correlazione: il meccanismo potrebbe benissimo essere inverso, ad esempio la bassa crescita può comportare alti rapporti tra debito e PIL se i governi fossero incapaci di governare il deficit in assenza o scarsità di crescita. Lo studio non può offrire una risposta a tale questione, e ciò è tenuto ben presente dagli autori.
L’importanza di questo studio tra gli economisti accademici non è stata dovuta tanto alla risolutezza delle conclusioni raggiunte, quanto alla novità scientifica rappresentata dall’affrontare il problema su basi empiriche e con una più ricca base di dati. Tuttavia, pare che politici e responsabili di politica economica abbiano tratto da questo studio di ricerca economica, per quanto innovativo, indiscutibili verità ontologiche destinate a magnificare le loro sagge e lungimiranti scelte o proposte di politica economica. Olli Rehn, commissario UE per l’Economia, ha per esempio affermato:
«È ampiamente riconosciuto, sulla base di seria ricerca scientifica, che quando i livelli del debito pubblico salgono oltre il 90% tendono a presentare una dinamica economica negativa, la quale si trasforma in bassa crescita per molti anni.»
Affermazioni simili sono state fatte da personalità quali Paul Ryan e Tim Geithner negli Stati Uniti e Lord Lamont of Lerwick nel Regno Unito. Purtroppo per molti, tuttavia, tali risultati così ampiamente citati e influenti nel dibattito pubblico, se probabilmente non sono mai stati troppo solidi, ora appaiono del tutto dubbi e traballanti.
Martedì scorso un working paper a cura di Thomas Herndon, Michael Ash e Robert Pollin dell’Università del Massachusetts, Amherst [link] ha dimostrato come i risultati originali della ricerca di Reinhart e Rogoff siano basati su problemi metodologici, manipolazioni dei dati ed errori di calcolo che paiono in alcuni casi grossolani e, in un certo senso, “originali”. Eliminandoli dall’analisi, il tasso di crescita medio dei paesi ad alto debito balza dal –0.1% al +2.2%, una differenza molto grande. I problemi principali individuati sono tre:
l’esclusione selettiva di alcune osservazioni nei dati;
uno schema di bilanciamento dei dati non convenzionale;
un errore di codice nel foglio di calcolo originale utilizzato per selezionare i dati.
Cercherò di riassumerli brevemente.
In primo luogo, sono escluse osservazioni specifiche di paesi (peraltro tutti anglosassoni: Canada, Australia e Nuova Zelanda) in un periodo storico, quello dell’immediato dopoguerra, in cui questi paesi sono stati caratterizzati sia da alto debito pubblico, oltre la fatidica soglia del 90%, che da una buona crescita media dell’economia. Reinhart e Rogoff utilizzano solamente, e senza alcuna ragione troppo chiara, l’ultima osservazione del periodo storico in questione per la Nuova Zelanda. In quest’ultimo paese in particolare – il cui tasso di crescita dell’economia era molto volatile nel dopoguerra, ma in media buono, del 2.58% – l’esclusione ha un grande impatto sulla media del tasso di crescita, che cade così di circa dieci punti al -7.6%: un’enormità!
Questa “scelta discrezionale” non avrebbe avuto probabilmente una grande importanza se non fosse stata amplificata da un secondo problema nell’analisi, uno schema non convenzionale di bilanciamento delle osservazioni. Negli studi empirici in economia è normale utilizzare tecniche volte ad attribuire maggiore o minore importanza ad alcune osservazioni. Solitamente, queste tecniche sono mirate ad ottenere obiettivi specifici: ad esempio, se si vuole calcolare l’effetto di una determinata variabile o politica sul reddito medio nella popolazione, ma si hanno a disposizione solo dati per gruppi di individui (ad esempio, paesi) tali dati sono pesati per la popolazione.
Tuttavia, lo schema di bilanciamento scelto da Reinhart e Rogoff non pare avere motivazioni e basi chiare, ma certo ha un grande effetto sui risultati finali. Sostanzialmente, tutte le osservazioni per ogni singolo paese vengono divise in gruppi rispetto al rapporto debito/PIL (ad esempio, tutte le osservazioni per gli anni in cui il rapporto è più basso, oppure più alto, del 90%), e viene calcolata la media del tasso di crescita di ogni paese separatamente in ogni gruppo. Alla fine, si calcola la media delle medie tra tutti i paesi all’interno di ogni singola categoria di debito/PIL.
Questo significa che nel calcolo finale, le 19 osservazioni relative alla crescita media del 2.4% del Regno Unito nel periodo di alto debito pubblico hanno la stessa importanza del –7.6% della Nuova Zelanda, come detto basato su un solo anno e dovuto a un’esclusione apparentemente arbitraria di singole osservazioni. Gli autori della critica sono consapevoli che probabilmente, per una serie di ragioni tecniche, un qualche tipo di schema di bilanciamento potrebbe essere preferibile a una media pura sulle singole osservazioni, ma è quantomeno inusuale che Reinhart e Rogoff nel loro lavoro originale non discutano o giustifichino la scelta del loro schema di bilanciamento, che ha un impatto enorme sui loro risultati.
Infine, l’intero lavoro è viziato da un errore di codice sul foglio di calcolo utilizzato per selezionare i dati, il quale esclude la buona media del tasso di crescita del Belgio che è a lungo stato contraddistinto da un alto debito pubblico. La seguente immagine è abbastanza esplicativa.

Si può notare come questo errore, che da solo abbassa la media del tasso di crescita dei paesi ad alto debito dello 0.3%, escluderebbe anche Canada e Australia se le osservazioni per questi paesi fossero state appropriatamente incluse nell’analisi. È altresì evidente che il grosso del risultato pare guidato dalla singola osservazione sulla performance economica del tutto anomala della Nuova Zelanda – un paese relativamente piccolo e isolato – in un singolo anno, il 1949.
Il tutto appare, agli occhi di qualsiasi ricercatore di economia, terribilmente approssimativo.
Altrettanto approssimativa non è invece parsa la sicumera con cui politici più o meno eletti, come il già citato Olli Rehn, hanno esibito lo studio di Reinhart e Rogoff come indiscutibile base scientifica per le politiche di austerità. Sotto l’insegna di questo tipo di motivazioni, in Italia sono state tagliate o dilazionate pensioni di individui oramai avanti negli anni e con poche prospettive sul mercato del lavoro, ed è stata ferocemente tassata la proprietà della prima casa in maniera alquanto indiscriminata. Le conseguenze di queste scelte sono evidenti: un aggravarsi della recessione, un aumento della disoccupazione e un peggioramento ulteriore del rapporto debito/PIL – a suggerire di nuovo, non sarà che se un rapporto di causalità esiste, questo sia al contrario?
La domanda che alcuni economisti maliziosamente si fanno ora è: quanta disoccupazione è stata “causata” da errori aritmetici e di utilizzo del foglio di calcolo? Quanti posti di lavoro persi?
Probabilmente nessuno: è arduo immaginare che un singolo articolo scientifico, per quanto rilevante, abbia da solo reso possibile determinate scelte di politica economica. Ma certamente ne è stato un supporto propagandistico rilevante, in una fase critica per le democrazie occidentali in cui un maggiore pluralismo nell’informazione economica e nel dibattito di politica economica sarebbe certamente più auspicabile.
Addendum: Reinhart e Rogoff hanno prontamente risposto alle critiche, ammettendo larga parte degli errori, ma difendendo la propria analisi con argomentazioni delle quali le più rilevanti sono, primo, che se è vero che i loro risultati non sono veri rispetto alla crescita economica media, valgono sotto alcune condizioni per la crescita economica mediana e, secondo, che in ogni caso la loro analisi contenuta in ricerche successive come nel libro This time is different, che analizza episodi storici di crisi finanziaria e default del debito pubblico, non ne risulterebbe invalidata.
Ancora più rapida è stata però la duplice-triplice replica di Krugman che dal suo blog si dichiara non convinto, per usare un eufemismo, che la difesa di R-R (come li chiama), sia efficace. Un punto è certo: la soglia critica del 90% del rapporto debito/PIL, così vicina ai livelli di molti paesi occidentali coinvolti nella crisi e nelle politiche di austerità, non pare avere alcun particolare significato economico o statistico, e che la discussione accademica e pubblica dovrebbe piuttosto concentrarsi maggiormente sul rapporto di causalità inversa, cioè la scarsa crescita che gonfia il debito relativo. L’importante è che il dibattito sia aperto: per lo meno, ora lo è certamente più di prima.
Link utili:
L’articolo di R&R: http://www.nber.org/papers/w15639.pdf
Alcune citazioni dell’articolo (versione del CEPR): Growth in a Time of Debt
Il paper di Thomas Herndon, Michael Ash e Robert Pollin dell’Università del Massachusetts, Amherst
http://www.peri.umass.edu/fileadmin/pdf/working_papers/working_papers_301-350/WP322.pdf
Un articolo dettagliato dal sito Next New Deal della Fondazione Roosevelt
Researchers Finally Replicated Reinhart-Rogoff, and There Are Serious Problems. | Next New Deal
Articoli sul tema di Paul Krugman:
http://krugman.blogs.nytimes.com/2013/02/27/another-attack-of-the-90-percent-zombie/
http://krugman.blogs.nytimes.com/2013/04/09/deficit-derangement-syndrome/
http://krugman.blogs.nytimes.com/2013/04/16/holy-coding-error-batman/
http://krugman.blogs.nytimes.com/2013/04/16/reinhart-rogoff-continued/
http://krugman.blogs.nytimes.com/2013/04/17/further-further-thoughts-on-death-by-excel/
http://krugman.blogs.nytimes.com/20...its-too/?gwh=E955C4D85DC090055882D29B7A0D37C1
Dal blog Free Exchange dell’Economist:
Debt and growth: Revisiting Reinhart-Rogoff | The Economist
Una delle prime critiche al paper di R&R:
Does Excessive Sovereign Debt Really Hurt Growth? A Critique of This Time Is Different, by Reinhart and Rogoff (qui in italiano: Un debito sovrano eccessivo compromette davvero la crescita? » )
 

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