Tolleranza zero!!!

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ancora rumeni...

La vicenda in una tabaccheria di Magnago, nel milanese
Rapina e stupro nel bar, quattro arresti
In manette alcuni cittadini romeni, tra cui un minorenne, per la violenza sessuale nei confronti della titolare di un negozio

MILANO - I carabinieri del reparto territoriale di Monza hanno identificato e arrestato i presunti autori della rapina con violenza sessuale di gruppo avvenuta lo scorso 6 marzo in un bar di Magnago in provincia di Milano. Lo si legge in una nota dello stesso reparto territoriale di Monza secondo la quale - al termine di una attività di indagine supportata dagli accertamenti di laboratorio condotti dal Reparto Investigazioni Scientifiche di Parma - hanno arrestato quattro cittadini romeni tra cui un minorenne.

LA VICENDA - Secondo gli investigatori, questi, dopo essere entrati nel bar-tabaccheria 'Lino' di Magnago per eseguire una rapina, si erano scagliati contro le due titolari del negozio, madre e figlia di 70 e 45 anni. Avevano picchiato, legato e imbavagliato la prima e poi, in due, violentato la seconda che aveva tentato di proteggere la madre.

GLI ARRESTI - Gli arrestati, individuati anche grazie allo «straordinario contributo delle vittime» sono Gheorghe Dumbrava, 21 anni, Ion Stoianovic, 30 anni, Valentin Diman, 20 anni, e un diciassettenne.
I quattro sono tutti accusati di violenza sessuale di gruppo, di rapina e lesioni personali. Farebbero parte di più 'batterie' di romeni «che operano nell'hinterland milanese - hanno spiegato i carabinieri - divedendosi le zone da depredare con una continua serie di furti e rapine, in particolar modo in locali pubblici e appartamenti». Le indagini, coordinate dal pm Giuseppe D'Amico sono partite dall'analisi di un centinaio di romeni sospettati di compiere furti e rapine tra la provincia di Milano, la Brianza e i Laghi. «Di questo centinaio - ha spiegato un ufficiale - abbiamo circoscritto la nostra attività su una trentina di soggetti, che si scambiano e si spostano continuamente utilizzando lo stesso modus operandi e che sono presenti sul territorio già da tempo».
22 maggio 2007
 
che bel natale:-)))

La strage di Natale
Sono partiti da Istanbul, dall'India, da Antakia (un porto turco), da Colombo, da Karachi e poi da Atene. Provenienze diverse per un'unica destinazione: il porto del Cairo. Lunghi viaggi di fortuna, sistemazioni precarie e disumane, dopo anni di lavoro per racimolare il denaro da consegnare ai trafficanti.

Circa 400 persone, dopo aver versato ciascuno almeno un migliaio di dollari, sono state imbarcate sulla "Friendship", che ha atteso in porto 12 giorni, per partire a pieno carico. Una attesa vana che si conclude col primo trasferimento: bisogna trasbordare sulla "Yohan", un cargo da 1500 tonnellate che batte bandiera honduregna.

Stavolta si parte: circa 470 persone rinchiuse in una stiva (due ore d'aria al massimo), a tirare avanti per venti giorni con un litro d'acqua quotidiano ed un pezzo di pane.

Qualche giorno prima di Natale, la "Yohan" entra in un porto siciliano: potrebbe essere la volta buona per lo sbarco, ma il guardacoste intercetta la nave e la costringe alla fuga. A questo punto occorre aspettare un battello maltese per il trasferimento a terra.

Il battello arriva la notte di Natale, si chiama F174 ed è fatto di tavole di legno tenute da corde perché non si sfasci. I passeggeri dello "Yohan" sono esasperati e non danno ascolto a chi consiglia loro uno sbarco scaglionato: salgono in massa sul battello maltese, che è lungo 18 metri e già trasporta una cinquantina di persone.

Quando l'F174 si allontana ha circa 400 persone a bordo ed un foro a prua, frutto di un urto con la "Yohan". Si tenta di raggiungere la costa siciliana, distante 30 km. Il battello imbarca acqua, e non bastano gli sforzi dei passeggeri per ricacciarla in mare con i secchi. Mentre la nave più piccola inizia ad immergersi di prua, giunge la "Yohan", chiamata per prestare soccorso. Le due imbarcazioni finiscono per scontrarsi, il battello si spacca in tre ed affonda. Una ventina di persone si salvano sui mezzi di soccorso lanciati dalla "Yohan", per gli altri c'è la morte.

La nave riparte per la Grecia, rischia un nuovo naufragio, scarica i sopravvissuti e gli altri passeggeri. I trafficanti minacciano tutti di non parlare dell'accaduto. Qualcuno fugge e racconta alla polizia greca, altri vengono arrestati ed ugualmente raccontano. La "Yohan" viene bloccata il 28 febbraio dopo aver sbarcato 150 asiatici a sud di Reggio Calabria. I beni dei naufraghi rimasti sulla nave, una serie di testimonianze convergenti ed alcuni cadaveri ritrovati giorni dopo in mare hanno contribuito a dimostrare ciò che è accaduto.

Le autorità italiane avevano a lungo espresso dubbi sull'accaduto. La stampa inglese ha dimostrato più interesse alla vicenda di quella italiana. L'ambasciata del Pakistan ha trasmesso la lista degli scomparsi alla Farnesina, senza ricevere risposta.

Ci sono volute le inchieste di pochi giornalisti, le indagini della polizia greca, della Procura di Reggio Calabria e di alcuni parenti delle vittime (tra cui Zabihullah Basha) per affermare una verità spaventosa: quella notte 289 tra indiani, cingalesi e pakistani morirono annegati al largo di capo Passero.
 
ecco il modo per fermarli...affondiamoliiiiiiiiiiiii

Era il 28 marzo 1997, quando la nave italiana Sibilla fece affondare la Kater I Rades, carica di albanesi. Morirono almeno 108 persone, che ora rischiano di non avere neppure giustizia

Questo testo. Sono morti, gli albanesi, perché le autorità italiane avevano deciso, nel 1997, di schierare la flotta per fermare le loro carrette. La loro morte rischia di diventare uno dei tanti gialli all’italiana. Il pm di Brindisi incaricato delle indagini nell’aprile del 1998 ha chiesto l’archiviazione: un’archiviazione dovuta all’impossibilità di indagare, tra depistaggi e rimpalli di vario genere.

Sono salpati alle tre del pomeriggio del 28 marzo 1997, dal porto di Valona, intere famiglie con molte donne e molti bambini, a bordo della Kater I Rades, una motovedetta militare in disuso, costruita 35 anni prima per un equipaggio di nove marinai. Proprio quella mattina, alla televisione italiana, qualcuno di loro ha sentito un rappresentante dell’Acnur dichiarare incostituzionale il blocco navale deciso dall’Italia e nella fretta di partire l’ha interpretato come un via libera. Da una settimana l’Italia ha infatti schierato la flotta nel Canale d’Otranto per fermare le carrette albanesi in fuga dal loro Paese precipitato nella guerra civile. Il crack delle piramidi finanziarie ha bruciato due miliardi di dollari in pochi mesi, lasciando sul lastrico migliaia di albanesi che avevano venduto la terra e il bestiame con il miraggio di interessi del 300 per cento. La popolazione è in rivolta, comitati di insorti, vere e proprie bande armate, hanno assunto il controllo delle città, ovunque si è diffuso un clima di terrore.
La Kater I Rades («Battello in rada») è carica fino all’orlo, i passeggeri sono oltre centoquaranta al momento dell'imbarco, invidiati dalla folla rimasta sul molo a imprecare all’occasione perduta. A bordo, sull’onda dell’euforia, qualcuno sparge la voce che basta avere una bandiera bianca perché le navi italiane ti scortino fino al porto di Brindisi, e di bandiere bianche ne vengono issate due, una a poppa e una a prua. La motovedetta ha da poco doppiato il capo dell’isola Karaburun, quando si vede avvicinare dalla fregata italiana Zeffiro, appostata dietro all’isola di Saseno. La nave gira attorno alla Kater e dagli altoparlanti intima ai passeggeri di tornare indietro, benché stiano navigando ancora in acque albanesi. La Kater non si ferma, avanza verso le coste pugliesi mentre la nave Zeffiro continua a girarle intorno, come uno squalo, fino a quando, intorno alle 17.30, si ferma, al traverso, a poppa della Kater, lasciando il passo a un’altra nave, più piccola e più adatta a manovre di intercettazione. È la Sibilla e si avvicina a giri sempre più stretti, tanto che i passeggeri della Kater vedono distintamente degli uomini in tuta mimetica sul ponte. Uno di essi punta contro di loro una mitragliatrice leggera, mentre un marinaio li fotografa. In aria, intanto, volteggia a bassa quota su di loro un elicottero della Marina, un pilota li filma dall’alto, poi un faro li punta e subito dopo le luci della nave italiana, altissima e vicina, illuminano a giorno il ponte della Kater.

BOATO TREMENDO. Alle 18.45 l’elicottero se ne va, i passeggeri vedono lontano, nel buio, le luci della Zeffiro. La Sibilla sembra invece scomparsa, quando all’improvviso la vedono avanzare verso di loro, a tutta velocità e a luci spente. Qualcuno pensa che sia il rimorchiatore, grida e salta di gioia. L’illusione dura poco, una voce nel megafono ripete le parole già sentite dalla nave Zefiro. «Tornate indietro». «Sterza, ci vengono addosso» grida a un tratto qualcuno sul ponte, mentre a dritta, sul fianco, vicino alla poppa, la prua della nave Sibilla colpisce la Kater facendola ruotare su se stessa. All’urto segue uno scossone, molti corpi sbalzano fuori, altri scivolano in acqua come bambole di pezza. La nave sale, sempre più in alto, poi precipita con un boato tremendo e dal cielo piovono sbarre di ferro, lamiere, vetri, pezzi di legno. Krenan Xhavara, uno dei 34 superstiti, ricorda l’interminabile volo nel buio, poi il violento impatto con l’acqua gelida, la sensazione di muovere le gambe senza riuscire a risalire, il sapore acido dell’acqua intrisa di nafta. La Kater I Rades viene colpita di nuovo più avanti, e questa volta si capovolge, altri passeggeri cadono in acqua, la Sibilla fa marcia indietro e si allontana, alcuni che non sanno nuotare salgono sulla nave rovesciata, in coperta donne e bambini stanno morendo affogati come topi in trappola.
Ore 19.03. La Kater affonda, un gruppo di validi nuotatori, tutti di Valona, nuota al buio, per venti minuti, verso la Sibilla. Dalla nave viene calata una scialuppa che raccoglie quattro cadaveri e qualche superstite, gli altri vengono fatti salire a bordo di una seconda scialuppa che pende dalla murata della Sibilla, non è stata calata in mare in loro soccorso. Una volta raggiunto il porto di Brindisi, carabinieri e polizia caricano i sopravvissuti, a forza, su autobus, lontani dai giornalisti in attesa di parlare con loro sul molo. «“A posto, a posto”, dicevano» racconta ancora Krenar Xhavara, «“potete andare”. Eravamo diventati testimoni pericolosi dei quali bisognava disfarsi, hanno offerto a tutti di andare in altre città italiane, lontani da qui e solo quattordici di noi sono rimasti a Brindisi».
A sei anni di distanza da quel maledetto venerdì santo, in cui morirono almeno 108 persone, in gran parte donne e bambini, benché le stime ufficiali, fondate sui corpi recuperati ne contino solo 81, la Kater I Rades rischia di naufragare una seconda volta in un processo infinito, tra lentezze procedurali, omertà, depistaggi, eccezioni tecniche, errori di comparizione, manipolazioni dei testimoni in cambio di permessi di soggiorno, complicità delle stesse autorità albanesi pronte a non dichiarare la morte presunta di alcuni annegati. O, al contrario, improvvise accelerazioni, come quella che ha visto uscire di scena, solo un anno dopo il naufragio, due presunti maggiori responsabili della sciagura, l’ammiraglio Alfeo Battelli e l’ammiraglio Umberto Guarino, lasciando sul banco degli imputati solo i comandanti della Sibilla e della Kater, Fabrizio Laudadio e Namik Xhaferi.
Nell’aprile del 1998, al termine di un indagine puntigliosa e sofferta, Leonardo Leone de Castris, sostituto procuratore incaricato dal Tribunale di Brindisi delle indagini preliminari a carico dei due ammiragli, chiede, e ottiene, l’archiviazione delle accuse, «nella convinzione», così scrive, «di aver ricercato la verità in ordine alle cause di questa tristissima vicenda, in ogni angolo e in ogni documento esaminato e in ogni testimonianza vagliata, non rimane che arrestarsi, così come il ruolo impone, davanti a un’arida valutazione di inidoneità degli elementi raccolti all’esercizio dell’azione penale».
Nella richiesta di archiviazione Leonardo Leone de Castris dichiara esplicitamente di non essere stato messo in condizione «di valutare l’incidenza degli ordini impartiti ai comandanti delle due navi impegnate (Sibilla e Zeffiro) dai comandi a terra (...)». Parla di manomissione di prove fotografiche (mancano delle fotografie dal rullino…) e del fatto che «il filmato girato a bordo della fregata Zeffiro si interrompe inspiegabilmente, con ciò destando non pochi sospetti, proprio nel momento in cui è inquadrata la prua della nave Sibilla che si avvicina minacciosamente alla nave albanese».

FREQUENZA CRIPTATA. Scrive inoltre che le registrazioni radio tra navi e tra navi e comandi di terra tra le 17 e le 19 del 28 marzo 1997, l’ora dell’affondamento del Kater I Rades, «sono scarsamente intelleggibili o si riferiscono a momenti temporalmente diversi da quello utile». E che non sarebbero state rese disponibili le comunicazioni su frequenza criptata usata negli ultimi momenti prima del naufragio.
«È un atto d’accusa gravissimo», commenta Stefano Palmisano, avvocato di parte civile nel processo (il suo viso insanguinato comparve sulla prima pagina di Liberazione, dopo Genova). «Il pm Leone De Castris fa capire chiaramente che la responsabilità del crimine non può essere ascritta solo a Laudadio e a Xhaferi e accusa un’istituzione dello Stato come la Marina Militare di avere impedito a un’altra istituzione dello Stato, la magistratura inquirente di Brindisi, di arrivare alla verità».
Per capire la gravità di simili affermazioni dobbiamo tornare al pomeriggio del 28 marzo 1997, quando alle 17.15 la nave Zeffiro della Marina Militare italiana, avvistata la Kater, ne informa subito l’ammiraglio Alfeo Battelli, all’epoca comandante del Maridipart di Taranto (il centro che coordina le attività di pattugliamento in Adriatico) e l’ammiraglio Umberto Guarnieri, capo di Stato maggiore della Marina e comandante in capo del Cicnav, la sala operazioni nazionale di Roma. Dopo diversi tentativi da parte della nave Zefiro di intimare il dietrofront, il comando delle operazioni passa alla corvetta Sibilla.
La ricostruzione degli scambi di informazioni tra i comandi a terra, cioè tra gli ammiragli e i comandanti della Sibilla e della fregata Zeffiro, si deve al capitano Angelo Luca Fusco, in servizio quel pomeriggio del 28 marzo 1997, all’ufficio operativo di Maridipart di Taranto e incaricato di tenere i contatti tra le navi in mare nell’area di giurisdizione e i comandi centrali e territoriali, fra cui le prefetture e le capitanerie di porto. Fu lui a trasmettere le disposizioni degli ammiragli ai comandanti della Zeffiro e della Sibilla, ordini precisi di eseguire un’azione decisa per fermare la Kater a ogni costo, tanto che la nave Zeffiro riferisce di avere iniziato «un’operazione di harrassment sul bersaglio albanese» a supporto della quale l’ammiraglio Battelli invia anche la Sibilla. Il termine, nel gergo delle Rules of engagement del codice di guerra Nato, definisce una violenta azione di disturbo, una pratica marinaresca utilizzata in epoca di guerra fredda tra navi di pari stazza, che, in questo caso, è una evidente violazione della Convenzione internazionale del 10.12.1982 che impedisce il blocco navale e il fermo di un’imbarcazione civile in acque internazionali, oltre che dei diritti sanciti dall’Art. 13 della Dichiarazione sui Diritti dell’Uomo del 10.12.1948. Pochi minuti dopo, ecco la comunicazione fatale: l’ordine alla Zeffiro di un’azione più decisa, «anche fino a toccare il bersaglio» che sarà la corvetta Sibilla a eseguire. «In un criminale gioco a battaglia navale, qualche ammiraglio nella sala operativa di Roma, al comando dell’ammiraglio Guarnieri, o di Maridipart, al comando dell’ammiraglio Battelli, pur sapendo che sulla nave c’erano donne e bambini, impartì direttamente o indirettamente quegli ordini con foga bellicosa, guerresca», commenta Stefano Palmisano, «pari alla frustrazione e alla rabbia covata per l’irrisione della stampa, che in quei giorni l’accusava, nonostante il blocco navale, di non essere capace di fermare le carrette albanesi nel Canale». Nella sua deposizione il capitano Fusco riferisce anche di una riunione, tenutasi il 3 aprile successivo alla strage, nell’ufficio dell’ammiraglio Battelli, alla quale parteciparono tutti i militari che nel pomeriggio del 28 marzo si trovavano nella sala comando per concordare il comportamento da tenere nei confronti del magistrato che avrebbe indagato.
Perché allora di fronte a una simile testimonianza la richiesta di archiviazione? «Perché secondo il pm mancava la prova ultima della connessione tra il Cicnav e la Sibilla, non c’è materia sufficiente per sostenere l’accusa in giudizio a carico di Guarnieri», spiega ancora Palmisano. «È una valutazione da cui dissento radicalmente non solo perché l’archiviazione a carico di Guarnieri e Battelli toglie gran parte del significato morale e politico al processo, ma perché il dibattimento doveva servire a fare verità e giustizia su questo ennesimo crimine di Stato».

STRAGE DI STATO. All’indomani della tragedia della Kater, l’ammiraglio Alfeo Battelli dà mandato alla Marina Militare di svolgere un’inchiesta sommaria per accertare le cause del sinistro marittimo. Prendendo l’incarico alla lettera, senza consultare un solo superstite, l’ammiraglio Coviello conclude che il contatto tra la Sibilla e la Kater ha avuto funzione di concausa dell’affondamento, mentre la vera causa deve essere individuata nel repentino «spostamento dei pesi» che erano a bordo della nave, cioè dei passeggeri albanesi. «Qualcosa di analogo alla tesi del cedimento strutturale tirata fuori dal portavoce dell’Aeronautica, nei giorni dopo la strage di Ustica», suggerisce Palmisano. «Il Dc 9 dell’Itavia sarebbe caduto perché originariamente trasportava pesce, il pesce contiene il sale, il sale corrode i metalli…».
Anche il muro di omertà immediatamente levatosi sulla strage del venerdì santo dalla Marina ricorda quello alzato dall’Aeronautica dopo la strage di Ustica per impedire che si facesse verità e giustizia su quanto accaduto.
Lo stesso ministero della Difesa si allinea e in un comunicato dà la sua versione dei fatti: la Marina aveva avvistato il battello già all’uscita dal porto di Valona, gli era stato intimato l’alt ma la motovedetta aveva proseguito ed era così entrata in azione la Sibilla che, dopo un inseguimento, aveva costretto gli albanesi a una serie di manovre spericolate causa della collisione e dell’affondamento della Kater.
Versione che coincide perfettamente con quella del comandante Laudadio, il quale afferma di essersi portato due volte a distanza di megafono a dritta della Kater, per intimare il dietrofront, avvicinandosi a una distanza compresa fra i dieci e i 25 metri. L’incidente si sarebbe verificato nel secondo tentativo a causa della spericolata manovra della motovedetta albanese che virando a destra si infilò sotto la prua della corvetta italiana. Peccato che entrambe le versioni contrastino radicalmente con quella dei superstiti.
I primi a parlare di strage di Stato sono i fondatori dell’Osservatorio Italia-Albania di Brindisi. «Dicemmo subito che l’affondamento della Kater I Rades fu il risultato di un atto premeditato di pirateria in acque internazionali, derivante dall’ordine di Roma di fermare la nave a ogni costo», dice Roberto Aprile, operaio dell’ex Enel di Brindisi, oggi Edipower privatizzata, «e da allora abbiamo continuato a dirlo, chiedendo che la Commissione Stragi aprisse quell’inchiesta che allora fu risparmiata al governo Prodi».
Con Tonino Camuso, tecnico elettronico all’aeroporto di Brindisi, e un gruppo di albanesi sopravvissuti, Bobo Aprile non ha mai smesso di denunciare i silenzi, le falsità, i misteri accumulatisi dal giorno dell’affondamento della Kater. Come si può accreditare la versione che vede una navicella lenta e stracarica compiere manovre spericolate e gettarsi contro una nave quattro volte più lunga e tre volte più larga, che pesa 1.200 tonnellate contro le sue 35? Perché la nave Sibilla è rientrata al porto di Brindisi 24 ore dopo l’incidente? Come ha potuto l’ammiraglio Mariani, numero uno della Marina, dichiarare su Repubblica, all’indomani della strage, che i dispersi non potevano essere più di due o tre, quando i superstiti dicevano di aver visto scomparire in mare intere famiglie?
Ammiragli, comandanti, ministri tacciono, non smentiscono e non spiegano. L’ordine irresponsabile dato dai comandi militari alle navi Sibilla e Zeffiro non fa che del resto applicare l’infausta convenzione politica stipulata il 25 marzo 1997 tra governo albanese e governo italiano, per autorizzare quest’ultimo, in cambio degli aiuti promessi, a usare violenza nei riguardi dei profughi. Sarebbe dovuta entrare in vigore il 3 aprile, ma lo zelo l’ha anticipata. L’affondamento della Kater, del resto, appare come la tragica catarsi di un crescendo di pericolosi arrembaggi in alto mare verificatisi nei giorni precedenti per respingere le carrette albanesi.
Incalzato dai suoi alleati dell’Unione Europea che minacciano di escludere l’Italia dal Trattato di Schengen, di fronte all’esodo degli albanesi in fuga dalla guerra civile, il governo Prodi ha scelto la linea del respingimento, con l’aiuto di una campagna di stampa che fomenta l’odio contro gli albanesi, «avanzi di galera», «criminali evasi» e che culmina proprio il 27 marzo, con l’incitazione di Irene Pivetti sul Corriere della Sera a ributtarli in mare (dovrà aspettare ventiquattr’ore per essere accontentata).

IL RECUPERO. Sul molo di Brindisi nessuno rese omaggio alle vittime: non il presidente del Consiglio Prodi, non il ministro della Difesa Andreatta, non Giorgio Napolitano, non Massimo D’Alema, eletto nella vicina Gallipoli.
L’unico ad arrivare, in elicottero dalla Sardegna, e a versare celebri lacrime, fu Silvio Berlusconi. Decisionale come sempre, in un colloquio di venti minuti a porte chiuse in faccia ai giornalisti, propose ai superstiti di ospitarli tutti a casa sua. «Nessuno di noi accettò», ricorda Krenan Xhavara, loro portavoce. “Metti i soldi per ritrovare i cadaveri”, gli abbiamo detto, che era l’unica cosa che ci interessava in quel momento. “È troppo profondo” ha risposto lui». Sembra però che, incaponitosi, Silvio sia riuscito a portarsi via da un gruppo di profughi precedenti una famiglia che ha finto di sistemare in una casa della Regione a Canneto Pavese per poi abbandonarla a se stessa. Un vizio se è vero, come sembra, che anche uno dei due piloti albanesi disertori, atterrati una ventina di giorni prima, il 6 marzo, con il loro Mig nell’aereoporto militare di Galatina, sia finito a guidare l’elicottero di Berlusconi!
Grazie alla battaglia dei superstiti e dell’Osservatorio Italia-Albania, finalmente, nell’ottobre del 1997, il pm De Castris ha dato mandato alla nave Performer, specializzata in recupero di relitti, di portare a galla la nave albanese, che giaceva a 800 metri di profondità. Quando, al termine di complesse operazioni durate giorni, il Kater riaffiora, la scena è agghiacciante: decine di corpi saponificati di donne e bambini aggrovigliati in un mortale abbraccio, 58 in tutto. Dopo il recupero delle salme, venne la penosa opera del loro riconoscimento. Una fila di panni e oggetti stesi e i parenti chiamati uno a uno a riconoscerli. L’orologio della moglie di Krenar Xhavara segnava l’ora del naufragio: le 19.03.
È un primo momento di verità: i segni dei due colpi mortali sulla fiancata della nave, come denunciato dai superstiti, appaiono chiari. La stessa perizia tecnico-scientifica dello scafo, affidata dal Tribunale all’ingegnere Dell’Anna, conferma lo scontro tra le navi attribuendone però la causa «all’interazione idrodinamica tra navi», in altre parole a quel fenomeno di attrazione che si produrrebbe in certe circostanze di mare e di vento, tra una nave di grandi dimensioni e una nave molto più piccola e che determinerebbe la conseguente ingovernabilità di quest’ultima.
Il punto chiave è che la distanza tra le due navi era irregolare. Intanto lo Stato avanza come parte civile una richiesta di risarcimento per i danni subiti alla prua della Sibilla. Nessuna autorità si recò nemmeno a Valona, per la sepoltura e il funerale di Stato delle vittime, in quella porzione recintata di cimitero che da allora si chiama «Otranto».
Nessuno, del resto, al governo, si è fatto carico della presenza dei parenti delle vittime nelle udienze. I primi anni molti hanno cercato di esserci, poi, le spese mai rimborsate, le file e le difficoltà per ottenere ogni volta il visto d’ingresso in Italia, la lunghezza del processo, li hanno scoraggiati e ormai sono pochissimi a partecipare. Delle uniche due donne superstiti, Luana Talleda e Ismete Demira, una è stata la sola a riconoscere il comandante della nave albanese, in cambio di un permesso di soggiorno. Tra gli scampati c’è anche un bambino di dieci anni, sgusciato fuori dall’oblò di una cabina, Elvis Yusufi. Sistemato in un istituto per minori di Lecce, è tornato in Albania dal padre per una visita, e non ha più avuto il permesso di soggiorno per rientrare.
«A me non mi hanno mai chiamato alle udienze, sono troppo scomodo», dice Krenar Xhavara, il più tenace nel tener viva la memoria della tragedia in cui ha perso la moglie e la figlia di sei mesi, mentre il fratello Veron, la moglie e i tre figli. I due fratelli giocavano entrambi nella squadra di calcio di Valona, il Flammurtari, ma da quando sono in Italia hanno cambiato mestiere e città infinite volte e dello status di rifugiato promesso a caldo non hanno più sentito parlare. I colpi di scena non sono finiti. Il 13 gennaio 2000 muoiono in un incidente stradale Giuseppe Baffa e il suo collaboratore Perrotta, sulla strada da Cosenza a Brindisi dove si sarebbe dovuta tenere un’udienza del processo per la Kater. Pioggia e alta velocità hanno fatto sbandare la Nissan che ha sfondato il guard rail precipitando per trenta metri. Calabrese «arbresh», cioè di origine albanese, Baffa era l’avvocato di parte civile di un’ottantina dei trecento parenti delle vittime della Kater. Più volte, riferì il giorno dopo la sua morte il quotidiano Il Giorno, aveva espresso l’idea che nella vicenda vi fossero dei lati oscuri e aveva manifestato ai giornalisti il timore per la sua incolumità.
Alla morte di Baffa, sembra si siano fatti vivi molti avvocati in vista del miraggio del risarcimento miliardario. È stato coinvolto l’avvocato Giuliano Pisapia, perché imprimesse una stretta negli estenuanti tempi del processo.
«Ma anche lui ci ha lasciato in mezzo a una strada», dice Krenar Xhavara «È venuto una volta sola al processo. Si era offerto anche l’avvocato Taormina di difenderci…».
Il 27 febbraio scorso, nell’ultima udienza, sono stati esaminati i testi e i consulenti della difesa del comandante Fabrizio Laudadio, una lista sterminata di uomini degli equipaggi della Zeffiro e della Sibilla, e altrettante deposizioni canovaccio.
Alla richiesta di un indennizzo immediato ai parenti delle vittime il governo italiano ha risposto con lo stanziamento di dieci miliardi di vecchie lire per le centinaia di parti lese.
Il macabro listino prezzi prevede dai 2 mila ai 4.500 euro per la perdita di un nipote ai 35 mila per la moglie o un figlio, a completa e definitiva soluzione delle liti e di ogni pretesa da parte dei beneficiari.
«Non sono più i soldi che cambiano la nostra vita, ma è una questione di dignità della persona», dice Krenar Xhavara che non è il solo ad averli rifiutati «Alle vittime del Cermis lo Stato italiano ha dato due milioni di dollari a testa, vuol dire che un austriaco o un tedesco vale più di un albanese?».

certo che un tedesco vale + di un albanese...ma che domanda è???
e li abbiamo pure rimborsati ma porca put.......
 
:-)

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:P :P :P :P :P :P :P :P :P :P :P :P :P :P
 
mitico Himmler...

Gli Zingari sono un gruppo etnico di origine indiana. Essi chiamano se stessi Sinti in Germania, Lalleri in Austria e Roma nell’Europa sud-orientale.

Gli Zingari, come gli Ebrei, furono perseguitati e sterminati dai Nazisti sulla base della razza. Tra 220.000 e 500.000 Zingari vennero uccisi in Europa durante la seconda guerra mondiale, soprattutto ad Auschwitz, Chelmno, nei campi di sterminio dell’ Aktion Reinhard, dagli Einsatzgruppen, e in altri campi di concentramento o di lavoro forzato.

I Sinti, il gruppo insediato principalmente nell’Europa nord-occidentale con la loro specifica cultura, sono stati residenti in Germania per circa 600 anni.
Fin dal 21 Settembre 1939 Reinhardt Heydrich, capo dell’ RSHA (Ufficio Centrale di Sicurezza del Reich), in conformità con l’ideologia razzista nazista, decise di deportare gli Zingari nel Generalgouvernement della Polonia occupata.
L’ordine di Himmler del 27 Aprile 1940, secondo cui 2.500 Zingari della Germania dovevano essere deportati a Belzec, Krychow e Siedlce nella Polonia occupata, fu messo in atto in Maggio. I treni della deportazione partirono da Amburgo, Colonia, e Hohenasperg vicino Stoccarda. :lol: :lol: :lol:
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Re: mitico Himmler...

ciut ha scritto:
Gli Zingari sono un gruppo etnico di origine indiana. Essi chiamano se stessi Sinti in Germania, Lalleri in Austria e Roma nell’Europa sud-orientale.

Gli Zingari, come gli Ebrei, furono perseguitati e sterminati dai Nazisti sulla base della razza. Tra 220.000 e 500.000 Zingari vennero uccisi in Europa durante la seconda guerra mondiale, soprattutto ad Auschwitz, Chelmno, nei campi di sterminio dell’ Aktion Reinhard, dagli Einsatzgruppen, e in altri campi di concentramento o di lavoro forzato.

I Sinti, il gruppo insediato principalmente nell’Europa nord-occidentale con la loro specifica cultura, sono stati residenti in Germania per circa 600 anni.
Fin dal 21 Settembre 1939 Reinhardt Heydrich, capo dell’ RSHA (Ufficio Centrale di Sicurezza del Reich), in conformità con l’ideologia razzista nazista, decise di deportare gli Zingari nel Generalgouvernement della Polonia occupata.
L’ordine di Himmler del 27 Aprile 1940, secondo cui 2.500 Zingari della Germania dovevano essere deportati a Belzec, Krychow e Siedlce nella Polonia occupata, fu messo in atto in Maggio. I treni della deportazione partirono da Amburgo, Colonia, e Hohenasperg vicino Stoccarda. :lol: :lol: :lol: Immagine sostituita con URL per un solo Quote: http://www.investireoggi.it/phpBB2/immagini/1179843813romanybelzec.jpg[/b]

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