debito Maggio 27, 2020 posted by
Costantino Rover
I traditori: Romano Prodi – 1ma parte
Credevate che Romano Prodi fosse soltanto quello che ha svenduto l’Italia e firmato per incatenarci all’Europa della concorrenza spietata tra presunti partner, laddove la solidarietà è solo di facciata?
Allora non perdetevi il terzo appuntamento della serie, I traditori dell’Italia.
Si comincia dalle
consulenze pagategli dall’IRI (mentre è presidente dell’ente stesso) e si arriva fino alle
ricerche di mercato fatte da neolaureati che copia-incollano dalle enciclopedie e dalle tesi di laurea, fino alle commesse milionarie, pagate con soldi pubblici, per investigare sul tasso di natalità degli asini somali o la velocità di spostamento di capre, pecore e cammelli (sul serio, non è inventato) nel deserto per salvarlo dalla bancarotta.
Con l’aiuto degli appunti di Paride Lupo, che ringraziamo di cuore per il supporto, iniziamo il viaggio per esplorare il Prodi che ci piace ricordare di più: quello che è sparito dai media e che in pochi si ricordano.
Dopo i mitici
Mario Monti e
Giorgio Napolitano, che ti invitiamo a rileggere, perché ne abbiamo aggiornato i ritratti con succosi e importanti dettagli, eccoci a colui che meglio di chiunque altro ha saputo svendere l’Italia a privati e stranieri.
L’esperto in svendite, Romano Prodi
Prodi nel ritratto di Costantino Rover © per economia spiegata facile
Romano Prodi è celeberrimo per le famose privatizzazioni svolte in Italia a partire dagli anni Novanta.
Di queste ha sempre saputo fare sfoggio, per agevolare la propria carriera e la propria immagine, come fossero stati dei fiori all’occhiello, tanto nelle trasmissioni televisive, che sui giornali e nei consessi politici, financo nel ruolo di consulente di importanti fondi di investimento stranieri, come la giapponese Nomura.
Ma Prodi non è soltanto il simbolo, nella veste di Pinocchio, di quella che era stata (s)venduta agli italiani come la trovata geniale per arricchire l’Italia e consentirle di abbassare il debito pubblico.
È anche quello che
assieme a Massimo D’Alema firmò il Trattato di Lisbona durante una pomposa cerimonia. Stavolta però nelle vesti del gatto e la volpe che dissotterrano altri zecchini d’oro da consegnare agli italiani.
Come stia andando in Europa per l’Italia, politicamente ed economicamente, è sotto gli occhi di tutti.
La storia di Romano Prodi
Iniziamo a raccontare la storia di Romano Prodi partendo dall’incrocio che vede dividersi le strade di Giorgio Napolitano e del Partito Comunista Italiano.
Siamo tra la fine degli anni 80 e gli inizi del decennio successivo quando, i comunisti chiudono di fatto bottega e vengono sostituiti dal nuovo progetto politico che si chiamerà
Partito Democratico della Sinistra (PDS).
È il 3 febbraio
1991 e al termine del 20° congresso del PCI, a grande maggioranza dei delegati presenti, il partito cambia nome.
Ma il nome non è l’unica cosa a cambiare a sinistra.
Il cambiamento principale sarà anche la propria disposizione sugli assi cartesiani della geopolitica europea e internazionale.
Infatti essa passa dall’allineamento ad est, al riposizionamento sulle posizioni filo atlantiste.
E non è un caso.
Il crollo del muro di Berlino avvenuto appena due anni prima, ha messo fine alla guerra fredda, così la sinistra trova più conveniente salire sul carro del vincitore.
Gli USA?
Non del tutto.
Forse è più corretto dire che la sinistra si è già sintonizzata sulle istanze mondialiste del mercato globale.
Segno che i suoi leaders avevano deciso che era giunto il tempo di creare un terzo polo universale che sarebbe dovuto essere l’Europa Unita.
Ma prima che per un’unità politica, l’interesse era verso una comunità commerciale, se non mercantile.
Il pensiero unico neo-liberista
Congetture? Populismo? Nazionalfascismo?
No, è dimostrato dai salti mortali che da questo momento fino al fatidico 1998, l’Italia dovrà fare per entrare in Europa.
Si inizia quindi a costruire un
pensiero unico e trasversale tra le forze di tutto l’arco istituzionale italiano con poche e comunque sporadiche eccezioni.
Chissà quante volte l’avrai sentito nominare il cosiddetto,
pensiero unico liberista, senza forse afferrarne bene il significato.
Uno dei principi cardini di questa filosofia, che specie nell’ultimo trentennio è diventata più una fede, l’intervento dello Stato nell’economia deve essere il meno presente possibile.
Le compartecipate statali erano viste come un cancro per il Paese e foriere di corruzione, nepotismo e malaffare tra politica e finanza.
Con il processo di
Mani pulite emerge tutto il marcio che fino a quel momento serpeggiava nelle barzellette e nei monologhi di qualche cominco, con
Beppe Grillo in testa, che qui nominiamo perché uno degli artefici di una campagna denigratoria, basata su principi sacrosanti, ma condotta per costruire un nemico comune del popolo italiano, preso tra i soggetti più facili da colpire, buttando via il bambino assieme all’acqua sporca.
Per capirlo meglio ne riparleremo quando questa rubrica si occuperà di lui.
Beppe Grillo e i Socialisti - 1986 - Per questo fu cacciato
Le privatizzazioni degli asset pubblici
Il clima in cui avvennero le privatizzazioni si evince dal seguente trafiletto di
Repubblica:
“Rifondare una pubblica amministrazione snella, meno costosa, ‘ amica’ ‘ dell’utente, richiede una micro-chirurgia di precisione fatta di tagli e innovazioni coraggiose, contro cui si mobiliterebbero corporazioni potenti e agguerrite. Una rivoluzione difficile da conciliare con i proclami di Nerio Nesi (Rifondazione comunista): “Qui d’ora in avanti non si privatizza più nulla”.“
Estromissione dello Stato dagli affari che dovrebbero competere soltanto ai capitani d’impresa (quelli capaci… sic!) e all’alta finanza, significa appunto: privatizzazioni.
Le privatizzazioni in Italia sono un vecchio mantra.
Da una parte dovrebbero alleggerire lo Stato dal fardello del nepotismo, della corruzione e della spesa assistenziale, perché si dà come assodato che la creazione di posti di lavoro pubblico debba per forza creare sacche di assistenzialismo.
Come se il settore privato fosse estraneo alla corruzione come anche il nepotismo.
Dall’altro lato, dovrebbero efficientare le grandi aziende strategiche e ridurre la spesa pubblica e il debito.
Insomma invece che una maggiore regolamentazione ed un più ampio controllo sull’operosità all’interno delle strutture, si pretende che vendere gli asset pubblici restituirà servizi migliori ed un impiego più oculato ed efficiente delle maestranze.
E mentre oggi – nel 2020 – le grandi potenze
riportano le produzioni strategiche entro i confini e le proteggono con piani, almeno di medio termine, di nazionalizzazione, in Italia si continua a beatificare chi ha smantellato i gioielli di famiglia negli anni Novanta.
Tralasciando l’ovvio discorso sull’aumento delle tariffe degli asset privatizzati come benzina, luce, gas e autostrade (l’unico o quasi settore che ha beneficiato della concorrenza dei prezzi è stato quello del traffico telefonico); perché di fatto in alcuni casi abbiamo visto sostituire il monopolio pubblico con quello di monopoli privati (mai intaccati dalla concorrenza straniera) e aumentare la dipendenza dalle materie prime straniere.
Un importane motivo che ha forzato la privatizzazione dei grandi asset pubblici è stato il bisogno di ridurre il rapporto debito pubblico/PIL, atto considerato necessario per l’ingresso
dell’Italia nell’Euro.
Quali erano gli asset che si volevano privatizzare?
L’azienda di Stato che destava maggiori preoccupazioni, sia in Italia che in Europa, era l’IRI. Il commissario europeo Van Miert, nel 1993 aveva sollecitato al nostro ministro degli Esteri, Andreatta un intervento che ponesse argine allo spreco di denaro pubblico.
L’istituto per la Ricostruzione Industriale era passato dallo status di gioiello a quello di macigno sui conti pubblici, negli anni Settanta, a vero e proprio scarico di soldi pubblici negli anni Ottanta.
In realtà l’Istituto per la Ricostruzione Industriale vantava un passato come una delle più grandi aziende mondiali. Constava in
mille aziende con
500 mila dipendenti.
Giunse nel 1993 al settimo posto mondiale per fatturato, ma produceva perdite per oltre 5 mila miliardi.
L’IRI
L’Istituto per la Ricostruzione Industriale era stato fondato in epoca fascista con l’obiettivo di salvare il sistema bancario nazionale ed aveva un mandato temporaneo.
L’IRI entrò nell’azionariato, prima ed acquisì poi, tre banche: Banca Commerciale Italiana, Credito Italiano e Banco di Roma, giunte al fallimento a seguito della grande crisi del 1929, oltre che diventare proprietario di oltre il 20% dell’intero capitale azionario privato italiano, assorbendo aziende tipo
Ansaldo,
Terni,
SIP (poi
Telecom…),
SME,
Navigazione Generale Italiana,
Lloyd Triestino di Navigazione,
Cantieri Riuniti dell’Adriatico,
Ilva, Alfa Romeo.
Fondata da
Alberto Beneduce su mandato di Benito Mussolini, questi aveva ricevuto il compito di realizzare un’Istituto che fosse provvisorio, ma poi Benduce riuscì ad imporre la sua visione e trasformò l’IRI in un ente permanente che contribuirà in modo decisivo alla
ricostruzione post bellica fino ed oltre il boom italiano, tanto che:
“Negli anni sessanta, mentre l’economia italiana cresceva ad alti ritmi, l’IRI era tra i protagonisti del “miracolo” italiano. Altri paesi europei, in particolare i governi laburisti inglesi, guardavano alla “formula IRI” come ad un esempio positivo di intervento dello Stato dell’economia, migliore della semplice “nazionalizzazione” perché permetteva una cooperazione tra capitale pubblico e capitale privato.
In molte aziende del gruppo il capitale era misto, in parte pubblico, in parte privato. Molte aziende del gruppo IRI rimasero quotate in borsa e le obbligazioni emesse dall’Istituto per finanziare le proprie imprese erano sottoscritte in massa dai risparmiatori.”
fonte, Wikipedia
Un estratto del profilo di Alberto Beneduce, dal libro di economia spiegata facile
Le cause della svendita
Di questa faccenda ne parliamo nel
libro di economia spiegata facile, all’interno del capitolo riservato ai “pensatori”.
Si tratta di un capitolo che contiene le storie dei maggiori economisti, ma anche di altre personalità molto interessanti, in una versione estremamente condensata, che ti farà scoprire un mondo veramente avvincente.
I pensatori nel libro di economia spiegata facile.