Trump sbaraglia la concorrenza nel suo partito e già in estate appare sempre più come il probabile vincitore delle presidenziali di novembre. Così, mentre Biden si affretta a far passare in Congresso gli ultimi pacchetti di aiuti militari all’Ucraina, Donald alza il tono dello scontro. Zelensky, consapevole di non poter fare a meno dell’appoggio americano, chiede di poterlo incontrare. Trump gli dà appuntamento nella Trump Tower di New York a fine settembre, a poco più di un mese dal voto, ma nei giorni precedenti lo attacca nei comizi accusandolo, tra l’altro, di tifare per la sua avversaria, Kamala Harris. E alla vigilia dell’incontro sferra la mazzata più pesante: «Zelensky è il più grande venditore della storia: ogni volta che viene qui, se ne va con 60 miliardi di dollari».
In realtà se ne va con armi del valore di miliardi di dollari prodotte da imprese americane prevalentemente situate in Stati che votano repubblicano: migliaia di posti di lavoro ben pagati offerti da queste imprese belliche. Ma a Trump interessa solo mettere con le spalle al muro Zelensky. Poi, il giorno dopo, incontrandolo, dirà che è un onore essere con lui. Inizio della doccia scozzese delle scorse settimane con un crescendo di insulti e giudizi sferzanti (molti) alternati con qualche riconoscimento (pochi). Fino allo scontro verbale di ieri col presidente ucraino, che pure aveva inghiottito di tutto, compresa l’accusa di essere un dittatore, praticamente cacciato dalla Casa Bianca.