Sharnin 2
Forumer storico
Il problema, banche a corto di capitale
Alfonso Tuor
Sta rapidamente svanendo la speranza di un ritorno di fiamma dei mercati finanziari, nonostante alcuni si fossero affrettati a preannunciare la fine della crisi e quindi anche del calo degli indici azionari. Anzi, il tentativo di rimbalzo delle Borse sembra essersi già esaurito, mentre sul mercato interbancario, il vero centro della crisi, la tensione cresce con l’avvicinarsi della scadenza del primo trimestre, ossia con l’approssimarsi della data che obbliga le grandi banche a presentare i risultati, in cui dovranno annunciare nuove perdite miliardarie.
I ripetuti interventi delle banche centrali, ed in particolare della Federal Reserve, hanno permesso di evitare il peggio, come il vero e proprio fallimento di una grande banca di investimento, quale l’americana Bear Stearns, ma non hanno finora prodotto grandi e soprattutto duraturi risultati.
Altrettanto vale per l’economia reale statunitense. La crisi immobiliare si fa sempre più grave con prezzi delle case che sono scesi mediamente del 10,7% rispetto ad un anno fa, con un crollo della fiducia dei consumatori che preannuncia una contrazione dei consumi e con un calo degli ordini dei beni durevoli che indica un diminuzione degli investimenti. Insomma non sembrano esserci più dubbi che l’economia statunitense è in recessione e che si sta accelerando il processo di contrazione economica. Non sorprende quindi che negli Stati Uniti vengano avanzate proposte di un maggiore intervento dello Stato Federale per uscire da una crisi che tutti considerano la peggiore del dopoguerra. Ma, e non deve stupire più di quel tanto, le proposte che vanno per la maggiore mirano sostanzialmente ad un salvataggio diretto o indiretto di Wall Street.
Insomma, i contribuenti americani saranno chiamati alla cassa per ricapitalizzare il settore bancario statunitense (il processo è già iniziato con il salvataggio della Bear Stearns) e probabilmente qualcosa di simile potrebbe succedere anche per salvare alcune banche europee.
E infatti il ribasso dei tassi di interesse e le iniezioni miliardarie di liquidità operate dalle banche centrali non hanno risolto il nodo di questa crisi bancaria, ossia il problema della solvibilità delle banche. Le banche sono oggi a corto di capitale e quindi devono ricapitalizzarsi. I soldi finora versati dai fondi statali asiatici ed arabi, che finora ammontano complessivamente a 75 miliardi di dollari, non bastano a coprire le perdite già annunciate che dall’autunno scorso si aggirano attorno ai 175 miliardi di dollari e soprattutto a quelle che dovranno essere ancora iscritte a bilancio. Questa carenza di capitale può apparire sorprendente dopo gli anni di «vacche grasse» per l’intero settore bancario. In realtà non lo è affatto. La maggior parte delle banche è giunta all’appuntamento con questa crisi con una dotazione di capitale che era stata volutamente ridotta negli ultimi anni per mostrare alla Borsa un maggiore rendimento dei mezzi propri. In parole povere, le riserve contro un’eventuale crisi non solo sono state decurtate, ma quelle restanti sono state in molti casi investite in strumenti finanziari ad alto rischio, come i titoli legati al mercato immobiliare americano, per ottenere una più alta redditività. Contrariamente a quanto molti credono, solo una piccola parte del capitale delle banche è detenuto in liquidità oppure in immobili. La maggior parte è invece investita in strumenti ad alto rischio, per cui alcuni sostengono che soprattutto le grandi banche internazionali sono in realtà dei veri e propri Hedge Funds.
Riprendendo il filo del problema della carenza di capitale, la dotazione di capitale appena sufficiente delle banche ha dovuto far fronte non solo alle perdite di 175 miliardi di dollari finora denunciate, ma al ritorno nei bilanci di alcuni gruppi bancari di miliardi e miliardi di dollari di titoli oggi a rischio, che erano stati parcheggiati in veicoli speciali di investimento (Siv) o che erano stati acquistati dagli Hedge Funds grazie alle linee di credito concesse dalle stesse banche. Quindi le banche con dotazioni di capitale, che spesso avevano volutamente ridotto negli ultimi anni, si ritrovano a fare i conti non solo con le grandi rettifiche di valore, ma anche con bilanci che continuano ad ingrossarsi di crediti e di titoli ad alto rischio che richiederebbero un aumento delle riserve a titolo prudenziale. Non sorprende dunque che sul mercato interbancario i tassi continuino ad essere «anormalmente» elevati e che le stesse banche facciano incetta di liquidità e continuino a non essere disposte a prestarsi reciprocamente i soldi. Non sorprende nemmeno che i risultati, apparentemente rassicuranti, presentati nei giorni scorsi da alcune grandi banche di investimento americane non abbiano minimamente allentato la tensione (infatti è incerta la trasparenza e quindi la veridicità di certi bilanci). Deve invece preoccupare che anche i fondi statali asiatici ed arabi abbiano perso la voglia di partecipare a queste operazioni di ricapitalizzazione dopo l’entusiasmo iniziale.
Che fare? Vi è una via, che è quella che sembra voler imboccare UBS. I dirigenti della maggior banca del nostro paese, che già si è dovuta ricapitalizzare grazie ai 13 miliardi di franchi iniettati da Singapore e da un investitore arabo, sembrano ora intenzionati a mettere all’ordine del giorno della prossima Assemblea degli azionisti, e quindi a sostenere, la richiesta della cassa pensione Profond di procedere ad un aumento di capitale di 10 miliardi di franchi. Ciò vorrebbe dire un’altra diluzione di valore per gli azionisti, che hanno già visto scendere il titolo sotto i 30 franchi. In realtà è un passo obbligato, vista l’entità dell’esposizione di UBS in titoli a rischio. Alcuni analisti ritengono addirittura che anche questa ricapitalizzazione si rivelerà insufficiente. Questa via appare però più impervia per altre banche, come quelle americane, che stanno facendo pressioni per un grande piano di salvataggio dello Stato Federale, che dovrebbe consistere nell’acquisto o nella garanzia da parte dello Stato dei titoli con cui è stato finanziato il mercato immobiliare. In pratica, invocano il vecchio principio della privatizzazione degli utili e della socializzazione delle perdite, come avvenuto con il salvataggio di Bear Stearns. Qualunque sia la strada che si imboccherà, è comunque certo che la ricapitalizzazione del sistema bancario è un passaggio indispensabile, ma molto probabilmente ancora insufficiente, per superare questa crisi, che è la più grave di questo dopoguerra.
26/03/2008 18:50
Alfonso Tuor
Sta rapidamente svanendo la speranza di un ritorno di fiamma dei mercati finanziari, nonostante alcuni si fossero affrettati a preannunciare la fine della crisi e quindi anche del calo degli indici azionari. Anzi, il tentativo di rimbalzo delle Borse sembra essersi già esaurito, mentre sul mercato interbancario, il vero centro della crisi, la tensione cresce con l’avvicinarsi della scadenza del primo trimestre, ossia con l’approssimarsi della data che obbliga le grandi banche a presentare i risultati, in cui dovranno annunciare nuove perdite miliardarie.
I ripetuti interventi delle banche centrali, ed in particolare della Federal Reserve, hanno permesso di evitare il peggio, come il vero e proprio fallimento di una grande banca di investimento, quale l’americana Bear Stearns, ma non hanno finora prodotto grandi e soprattutto duraturi risultati.
Altrettanto vale per l’economia reale statunitense. La crisi immobiliare si fa sempre più grave con prezzi delle case che sono scesi mediamente del 10,7% rispetto ad un anno fa, con un crollo della fiducia dei consumatori che preannuncia una contrazione dei consumi e con un calo degli ordini dei beni durevoli che indica un diminuzione degli investimenti. Insomma non sembrano esserci più dubbi che l’economia statunitense è in recessione e che si sta accelerando il processo di contrazione economica. Non sorprende quindi che negli Stati Uniti vengano avanzate proposte di un maggiore intervento dello Stato Federale per uscire da una crisi che tutti considerano la peggiore del dopoguerra. Ma, e non deve stupire più di quel tanto, le proposte che vanno per la maggiore mirano sostanzialmente ad un salvataggio diretto o indiretto di Wall Street.
Insomma, i contribuenti americani saranno chiamati alla cassa per ricapitalizzare il settore bancario statunitense (il processo è già iniziato con il salvataggio della Bear Stearns) e probabilmente qualcosa di simile potrebbe succedere anche per salvare alcune banche europee.
E infatti il ribasso dei tassi di interesse e le iniezioni miliardarie di liquidità operate dalle banche centrali non hanno risolto il nodo di questa crisi bancaria, ossia il problema della solvibilità delle banche. Le banche sono oggi a corto di capitale e quindi devono ricapitalizzarsi. I soldi finora versati dai fondi statali asiatici ed arabi, che finora ammontano complessivamente a 75 miliardi di dollari, non bastano a coprire le perdite già annunciate che dall’autunno scorso si aggirano attorno ai 175 miliardi di dollari e soprattutto a quelle che dovranno essere ancora iscritte a bilancio. Questa carenza di capitale può apparire sorprendente dopo gli anni di «vacche grasse» per l’intero settore bancario. In realtà non lo è affatto. La maggior parte delle banche è giunta all’appuntamento con questa crisi con una dotazione di capitale che era stata volutamente ridotta negli ultimi anni per mostrare alla Borsa un maggiore rendimento dei mezzi propri. In parole povere, le riserve contro un’eventuale crisi non solo sono state decurtate, ma quelle restanti sono state in molti casi investite in strumenti finanziari ad alto rischio, come i titoli legati al mercato immobiliare americano, per ottenere una più alta redditività. Contrariamente a quanto molti credono, solo una piccola parte del capitale delle banche è detenuto in liquidità oppure in immobili. La maggior parte è invece investita in strumenti ad alto rischio, per cui alcuni sostengono che soprattutto le grandi banche internazionali sono in realtà dei veri e propri Hedge Funds.
Riprendendo il filo del problema della carenza di capitale, la dotazione di capitale appena sufficiente delle banche ha dovuto far fronte non solo alle perdite di 175 miliardi di dollari finora denunciate, ma al ritorno nei bilanci di alcuni gruppi bancari di miliardi e miliardi di dollari di titoli oggi a rischio, che erano stati parcheggiati in veicoli speciali di investimento (Siv) o che erano stati acquistati dagli Hedge Funds grazie alle linee di credito concesse dalle stesse banche. Quindi le banche con dotazioni di capitale, che spesso avevano volutamente ridotto negli ultimi anni, si ritrovano a fare i conti non solo con le grandi rettifiche di valore, ma anche con bilanci che continuano ad ingrossarsi di crediti e di titoli ad alto rischio che richiederebbero un aumento delle riserve a titolo prudenziale. Non sorprende dunque che sul mercato interbancario i tassi continuino ad essere «anormalmente» elevati e che le stesse banche facciano incetta di liquidità e continuino a non essere disposte a prestarsi reciprocamente i soldi. Non sorprende nemmeno che i risultati, apparentemente rassicuranti, presentati nei giorni scorsi da alcune grandi banche di investimento americane non abbiano minimamente allentato la tensione (infatti è incerta la trasparenza e quindi la veridicità di certi bilanci). Deve invece preoccupare che anche i fondi statali asiatici ed arabi abbiano perso la voglia di partecipare a queste operazioni di ricapitalizzazione dopo l’entusiasmo iniziale.
Che fare? Vi è una via, che è quella che sembra voler imboccare UBS. I dirigenti della maggior banca del nostro paese, che già si è dovuta ricapitalizzare grazie ai 13 miliardi di franchi iniettati da Singapore e da un investitore arabo, sembrano ora intenzionati a mettere all’ordine del giorno della prossima Assemblea degli azionisti, e quindi a sostenere, la richiesta della cassa pensione Profond di procedere ad un aumento di capitale di 10 miliardi di franchi. Ciò vorrebbe dire un’altra diluzione di valore per gli azionisti, che hanno già visto scendere il titolo sotto i 30 franchi. In realtà è un passo obbligato, vista l’entità dell’esposizione di UBS in titoli a rischio. Alcuni analisti ritengono addirittura che anche questa ricapitalizzazione si rivelerà insufficiente. Questa via appare però più impervia per altre banche, come quelle americane, che stanno facendo pressioni per un grande piano di salvataggio dello Stato Federale, che dovrebbe consistere nell’acquisto o nella garanzia da parte dello Stato dei titoli con cui è stato finanziato il mercato immobiliare. In pratica, invocano il vecchio principio della privatizzazione degli utili e della socializzazione delle perdite, come avvenuto con il salvataggio di Bear Stearns. Qualunque sia la strada che si imboccherà, è comunque certo che la ricapitalizzazione del sistema bancario è un passaggio indispensabile, ma molto probabilmente ancora insufficiente, per superare questa crisi, che è la più grave di questo dopoguerra.
26/03/2008 18:50