Tuor - Le banche ignorano la lezione

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Forumer storico
Le banche ignorano la lezione
Un anno fa il fallimento della Lehman Brothers
di ALFONSO TUOR
16 set 2009

È trascorso un anno dal fallimento della Lehman Brothers, ma ancora non vi è una spiegazione ufficiale dei motivi che spinsero l’amministrazione Bush e la Federal Reserve a permettere il crac della quarta banca d’investimento americana. Eppure per molti era già evidente che la crisi dei mutui subprime scoppiata nell’estate del 2007 non era un temporale passeggero. Nel corso di quell’anno tutti gli indicatori finanziari ed economici segnalavano inequivocabilmente un continuo deterioramento delle condizioni del mercato immobiliare statunitense, una caduta del valore dei titoli in cui erano stati impacchettati quei mutui e una crescita della sfiducia nei confronti della stabilità del sistema bancario. Del resto già nell’aprile 2008 si era dovuto salvare con il decisivo contributo della Federal Reserve un’altra banca d’investimento, la Bear Stearns, e pochi giorni prima del fallimento della Lehman Brothers si erano completamente nazionalizzate le due agenzie parastatali, Fannie Mae e Freddie Mac. Inoltre nei mesi precedenti e fino all’agosto del 2008 il sistema bancario internazionale aveva già dovuto denunciare 500 miliardi di dollari di svalutazioni di titoli tossici. Quindi sia al segretario al Tesoro Henry Paulson sia al presidente della Fed Ben Bernanke non poteva sfuggire il pericolo rappresentato dal fallimento di una grande banca internazionale, che avrebbe infranto la convinzione, largamente diffusa, che non si sarebbe mai lasciata fallire una grande banca, poiché una bancarotta avrebbe provocato, come in effetti è avvenuto, l’immediata chiusura del mercato dei capitali e soprattutto dei canali finanziari attraverso cui si finanziano le stesse banche.
Allora scrivemmo che quella scelta si sarebbe rivelata un grave errore, poiché provocava un forte peggioramento ed un’impressionante accelerazione di una crisi il cui decorso non sarebbe stato comunque arrestato dal salvataggio della Lehman. Scrivemmo anche che quella scelta era forse stata imposta per zittire i liberisti che sostenevano che il mercato sarebbe stato in grado di assorbire il fallimento di una grande banca.
Queste tesi sono state recentemente riprese da Kenneth Rogoff, ex capo economista del Fondo Monetario Internazionale e ora professore all’Università di Harvard. Kenneth Rogoff sostiene sulla base di un’ampia ricerca che la scelta delle autorità americane di lasciar fallire la Lehman fu consapevole. Infatti, come è sempre accaduto in ogni crisi finanziaria occorre un evento di grande dimensione, come il fallimento di una grande banca, per smuovere il mondo politico a sbloccare le enormi quantità di denaro pubblico necessarie per evitare una crisi dell’intero sistema bancario. In altre parole, il collasso della Lehman è stato necessario per spalancare le porte agli interventi pubblici successivi: dal salvataggio del colosso assicurativo AIG al TARP, ossia lo stanziamento di 700 miliardi di dollari a favore delle banche approvato dal Congresso.
Questa spiegazione appare convincente, ma si deve constatare che il costo del salvataggio del sistema bancario è risultato enorme. Secondo il settimanale The Economist, la bolletta che riguarda solo i prestiti delle banche centrali e le garanzie concesse dagli Stati ammonta a 2.700 miliardi di dollari. A ciò bisogna aggiungere i vari programmi di sostegno dei mercati finanziari (il solo TALF della Fed ammonta a 1.400 miliardi di dollari) e soprattutto bisogna aggiungere i costi della più grave recessione di questo dopoguerra. Queste cifre sono comunque solo provvisorie, poiché l’apparente miglioramento delle condizioni di salute delle banche è in gran parte solo frutto del cambiamento delle regole contabili e soprattutto perché la crisi è lungi dall’essere prossima alla conclusione.
Accettando la tesi che la Lehman Brothers sia stata la vittima sacrificale per provocare quello choc politico indispensabile per spendere migliaia di miliardi per salvare il sistema bancario, è pure indubbio che il peggio della crisi finanziaria sia stato superato soltanto lo scorso mese di marzo grazie al salvataggio di Citigroup e soprattutto grazie all’esplicita dichiarazione del vertice del G20 a Londra che non si sarebbe più lasciato fallire alcun istituto bancario di grandi dimensioni. Quindi, oggi le banche sono implicitamente (e alcune anche esplicitamente) garantite dagli Stati. Appare quindi difficilmente accettabile che queste stesse banche abbiano ricominciato ad agire come prima e forse peggio di prima. I dati statistici dimostrano che non hanno usato la liquidità fornita dalle banche centrali per concedere crediti alle imprese, mentre i loro ultimi risultati trimestrali mettono in evidenza che gli utili realizzati sono frutto di quel genere di operazioni che hanno provocato la crisi. Giustamente lunedì scorso il presidente Barack Obama ha detto testualmente: «Qualcuno nell’industria finanziaria sta interpretando male questo momento. Anziché imparare le lezioni, hanno scelto di ignorarle. Non lo fanno solo a proprio rischio e pericolo, ma mettendo a repentaglio l’intera nazione. Per questo voglio che sentano le mie parole: non torneremo ai comportamenti scriteriati e agli eccessi fuori controllo, troppi dei quali motivati unicamente dalla bramosia dei bonus gonfiati.» Vi è sperare che il presidente americano abbia la forza di far seguire alle parole fatti concreti, ossia regole chiare e severe per un settore finanziario che, incurante di tutto e di tutti, pensa di poter ricominciare ad operare come prima.
 
Quindi, oggi le banche sono implicitamente (e alcune anche esplicitamente) garantite dagli Stati. Appare quindi difficilmente accettabile che queste stesse banche abbiano ricominciato ad agire come prima e forse peggio di prima. I dati statistici dimostrano che non hanno usato la liquidità fornita dalle banche centrali per concedere crediti alle imprese, mentre i loro ultimi risultati trimestrali mettono in evidenza che gli utili realizzati sono frutto di quel genere di operazioni che hanno provocato la crisi.

Vi è sperare che il presidente americano abbia la forza di far seguire alle parole fatti concreti, ossia regole chiare e severe per un settore finanziario

:up:
 
Quindi, oggi le banche sono implicitamente (e alcune anche esplicitamente) garantite dagli Stati. Appare quindi difficilmente accettabile che queste stesse banche abbiano ricominciato ad agire come prima e forse peggio di prima. I dati statistici dimostrano che non hanno usato la liquidità fornita dalle banche centrali per concedere crediti alle imprese, mentre i loro ultimi risultati trimestrali mettono in evidenza che gli utili realizzati sono frutto di quel genere di operazioni che hanno provocato la crisi.

Vi è sperare che il presidente americano abbia la forza di far seguire alle parole fatti concreti, ossia regole chiare e severe per un settore finanziario

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magari :up: TUOR doveva scrivere : - Le banche vogliono ignorare la lezione...
 
Andrea Mazzalai scrive:

Come ha rilevato Nelson [lo storico Scott Reynolds Nelson], la crisi del 1873 originò come quella di oggi dai problemi del settore immobiliare in Europa centrale e in Francia e si trasferì poi rapidamente al settore finanziario, propagandosi alla Gran Bretagna e agli Stati Uniti con un crollo generalizzato delle borse. Osserva Nelson che intorno al 1870 negli stati dell'Europa continentale prese avvio un boom incontrollato del settore delle costruzioni municipali e residenziali, specialmente nelle capitali di Vienna, Parigi e Berlino, favorito anche da una eccessiva fioritura di istituzioni finanziarie specializzate nell'erogazione di mutui immobiliari concessi con sempre maggiore facilità e senza adeguate garanzie.
La crisi bancaria si propagò rapidamente anche agli Stati Uniti colpendo in modo particolare il settore delle ferrovie, che già da qualche tempo era in difficoltà poiché non riusciva più a finanziarsi attraverso l'emissione di obbligazioni, ma doveva ricorrere in misura crescente ai prestiti a breve dalle banche. Il 18 settembre del 1873 la Jay Cooke & Company, uno dei maggiori istituti del mondo bancario americano pesantemente coinvolto nei collocamenti obbligazionari della compagnia ferroviaria Northern Pacific Railway, dichiarò bancarotta. Come la Lehman Brothers anche la Jay Cooke era un istituto sistemico e gli effetti furono disastrosi sull'intero sistema finanziario americano e internazionale.
I prezzi a Wall Street precipitarono, scoppiò il panico e invano il governo statunitense annunciò che avrebbe comprato parecchi milioni di dollari di obbligazioni cercando di iniettare liquidità e fiducia nel sistema. Il presidente degli Stati Uniti Ulisse Grant, consultandosi con i più autorevoli uomini d'affari dell'epoca come Cornelius Vanderbilt e Henry Clews, cercò senza riuscire di arginare la catastrofe. Sull'arco della crisi decine di membri dello Stock Exchange e migliaia di compagnie mercantili fallirono. Fu ripristinato il gold standard nel tentativo di stabilizzare la moneta e di frenare l'inflazione e la speculazione.
Le conseguenze della crisi finanziaria del 1873 sull'economia reale furono molto forti, specialmente nel settore industriale e ferroviario. L'indice della produzione manifatturiera americana ricostruito da Edwin Frickey registra una caduta progressiva dal 1873 al 1876 analogamente a un indicatore "reale" particolarmente sensibile come le consegne di ghisa ( si veda il primo grafico qui a fianco). I tratti di nuove ferrovie realizzati, dopo aver toccato un massimo di 7.439 miglia nel 1872, precipitarono a 1.606 miglia nel 1875. Secondo la cronologia del Nber il ciclo negativo dell'economia statunitense perdurò dall'ottobre del 1873 al marzo del 1879, per un totale di 65 mesi: la depressione più lunga della storia americana assieme a quella del '29.

La vittoria militare sulla Francia nel 1871 e i relativi incassi per le riparazioni di guerra generarono in Germania un'euforia di investimenti in ferrovie, fabbriche, scali portuali e navi che si aggiunsero agli investimenti nel settore delle costruzioni. Quando la borsa di Vienna crollò nel maggio 1873, generando un panico diffuso, le banche inglesi ritirarono rapidamente i loro capitali dal continente e il costo del credito interbancario in Europa andò alle stelle, proprio come è avvenuto nell'odierna crisi.
La disoccupazione si impennò rapidamente toccando nella sola città di New York il 25%. Gli scioperi e le manifestazioni crebbero per numero e intensità assumendo dimensioni senza precedenti, come in occasione della protesta del gennaio del 1874 al Tompkins Square Park in cui migliaia di disoccupati furono violentemente dispersi dalla polizia. Nelson sottolinea come gli operatori più colpiti furono le piccole e medie imprese, proprio come sta avvenendo oggi, a causa del credit crunch che anche allora fu fortissimo.

Ma la crisi produsse anche una generazione di vincenti, cioè le compagnie, non solo finanziarie, che disponevano di liquidità e che poterono consolidarsi e crescere comprando a prezzi di saldo altre società concorrenti. Andrew Carnegie, Cyrus McCormick e John D. Rockfeller ebbero abbastanza capitali per finanziare la loro crescita tumultuosa. Fu proprio in quell'epoca che i grandi gruppi industriali e finanziari d'America cominciarono ad assumere dimensioni tali da necessitare poi di essere contrastati e limitati dalle successive legislazioni antitrust.


Oggi avviene la stessa cosa, la recente merger-mania, la mania di nuove fusioni è uno dei sintomi, senza dimenticare quel "too big to fail" che sta sequestrando la democrazia e l'economia, istituti finanziari troppo grandi per fallire, che secondo la mia modesta opinione dovrebbero essere nazionalizzati in prima battuta e poi successivamente smantellati, eliminando il rischio sistemico.

L'era aperta dalla crisi del 1873, secondo Nelson, portò anche altre conseguenze, tra cui un aumento del protezionismo commerciale a livello internazionale, una diffusa insofferenza per i lavoratori immigrati che minacciavano i posti di lavoro delle popolazioni autoctone e anche il diffondersi di teorie "cospirative" nell'Europa centrale come quella secondo la quale la crisi finanziaria era stata provocata dagli ebrei e dalle banche straniere.

Gli anni della lunga depressione del 1873 segnarono anche il passaggio del testimone della leadership economica del mondo dall'Europa agli Stati Uniti con l'emblematico sorpasso del Pil statunitense, nonostante la recessione in corso, ai danni di quello inglese.

Si chiede poi Nelson: forse la crisi globale odierna sarà presto seguita da un nuovo cambio di leadership, quello tra l'indebolita economia americana che, come una "cicala", ha vissuto troppo a lungo al di sopra dei propri mezzi senza più produrre beni reali e senza risparmiare, e l'emergente potenza della Cina? [Io non credo nella Cina]

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Come sempre nella storia, capacità finanziaria e perspicacia politica sono inversamente proporzionali. La salvezza a lunga scadenza non è mai stata apprezzata dagli uomini d'affari se essa comporta adesso una perturbazione nel normale andamento della vita e nel proprio utile. Cosi si auspicherà l'inazione al presente anche se essa significa gravi guai nel futuro. Questa è la minaccia per il capitalismo (...) E' ciò che, agli uomini che sanno che le cose vanno molto male, fa dire che la situazione è fondamentalmente sana! JK GALBRAITH
 
Andrea Mazzalai scrive:

Come ha rilevato Nelson [lo storico Scott Reynolds Nelson], la crisi del 1873 originò come quella di oggi dai problemi del settore immobiliare in Europa centrale e in Francia e si trasferì poi rapidamente al settore finanziario, ..........................................................andamento della vita e nel proprio utile. Cosi si auspicherà l'inazione al presente anche se essa significa gravi guai nel futuro. Questa è la minaccia per il capitalismo (...) E' ciò che, agli uomini che sanno che le cose vanno molto male, fa dire che la situazione è fondamentalmente sana! JK GALBRAITH

ottima SHARNIN, grazie :up::up::up:
 

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