Tuor - Ora il dollaro a rischio crisi

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Forumer storico
La Fed salva Bear Stearns
Ora il dollaro a rischio crisi
Alfonso Tuor

Stiamo assistendo ad un salto di qualità della crisi finanziaria che dallo scorso mese di agosto scuote il mondo. Ieri è stato consumato il primo salvataggio di una banca americana da parte dello Stato per evitare che il suo fallimento provocasse una crisi dell’intero sistema finanziario dalle conseguenze imprevedibili. Infatti, la banca di investimento Bear Stearns è stata formalmente acquistata da JP Morgan a prezzi stracciati (ossia per 236 milioni di dollari rispetto ad una capitalizzazione dell’istituto che qualche tempo fa aveva raggiunto i 20 miliardi di dollari), ma l’acquisizione è stata resa possibile da una linea di finanziamento straordinaria di 30 miliardi di dollari erogata dalla banca centrale statunitense. In pratica, la Federal Reserve si è assunta l’onere di coprire le perdite dei titoli più a rischio detenuti da Bear Stearns. Quindi, sebbene si sia usata la foglia di fico dell’acquisto da parte di JP Morgan, abbiamo assistito al primo salvataggio statale di una grande banca americana (ricordiamo che questa crisi ha già portato alla nazionalizzazione della britannica Northern Rock).
La Federal Reserve ha fatto anche di più per allentare la tensione: ha infatti ridotto a sorpresa di un quarto di punto il tasso di sconto e domani ridurrà ulteriormente i tassi di interesse guida, che alcuni ritengono verranno addirittura tagliati di un punto percentuale, portandoli al 2%.
Tutto ciò non è finora servito a nulla. Anzi, queste mosse sono state lette dai mercati come una conferma che la situazione del sistema bancario americano è peggiore di quanto si pensasse e che la Bear Stearns non è l’unico istituto americano che si trova prossimo al collasso. E infatti sui mercati si moltiplicano le scommesse sul nome della prossima vittima della crisi. Eppure il salvataggio della Bear Stearns avrebbe potuto essere letto in chiave positiva: ossia la conferma che la Federal Reserve interverrà per salvare anche altri istituti bancari che si dovessero trovatre sull’orlo del collasso e in questo modo evitare una crisi sistemica. Perché questa chiave di lettura «rassicurante» non è stata fatta propria dai mercati?
La risposta è che probabilmente siamo prossimi ad un altro pericoloso salto di qualità, che si potrebbe esprimere in una crisi di fiducia nei confronti del dollaro e degli Stati Uniti. I segnali precursori sono già visibili. In primo luogo, ogni crisi valutaria è scatenata dalla fuga di capitali. Il Wall Street Journal di ieri riferiva che un numero crescente di americani sta vendendo dollari per comprare euro, yen giapponesi, franchi svizzeri oltre che a cercare rifugio nell’oro o nelle materie prime. In secondo luogo, nessun fondo sovrano arabo o asiatico da alcune settimane si sta offrendo di iniettare ulteriori soldi per aumentare la dotazione di capitale delle banche statunitensi, nonostante un eplicito invito del ministro del Tesoro, Paul Paulson. La paura di una crisi del dollaro è sicuramente una ragione. Un altro motivo sono le dimensioni spaventose dell’esposizione di queste banche. Ad esempio Bear Stearns ha in bilancio 395 miliardi di dollari di titoli legati al mercato immobiliare americano, in assicurazione sui titoli obbligazionari e così via, per cui le perdite prevedibili sono enormi, se non vi dovesse essere un allentamento della tensione sui mercati. Un altro motivo è che la crisi finanziaria si sta rapidamente estendendo e non tocca più solo i titoli con cui è stato finanziato il mercato immobiliare americano, ma anche il mercato delle obbligazioni emesse dai Comuni e dagli enti pubblici fino a toccare i debiti delle società.
Ma non è ancora tutto. La crisi dei Credit Default Swap, ossia le assicurazioni sui crediti (un mercato in cui Bear Stearns era tra i principali attori) avvicina i focolai dell’incendio agli enormi mercati dei prodotti strutturati e dei derivati. A questi giganteschi potenziali «buchi» nel sistema finanziario si aggiunge la realtà del forte indebitamento delle famiglie americane e del debito estero degli Stati Uniti nei confronti del resto del mondo. Basti ricordare che il debito ipotecario delle famiglie americane è salito dai 6.400 miliardi di dollari del 1999 ai 13.800 miliardi dell’anno scorso. La caduta dei prezzi degli oggetti immobiliari mette in dubbio la solidità dei titoli emessi sul mercato con cui sono state finanziate questa montagna di ipoteche. Ma il debito delle famiglie americane non è solo ipotecario. Ad esso bisogna aggiungere tutta una gamma di prestiti concessi dal sistema finanziario, che vanno dalle carte di credito ai prestiti per l’acquisto dell’auto, fino ai prestiti di studio. Ora dato che gli Stati Uniti sono il paese che ha prodotto questa montagna di debiti, non si capisce come si possa avere fiducia in una moneta gravata da tali fardelli, tanto più ora la Federal Reserve è costretta a stampare moneta per tappare le falle che si aprono nel sistema finanziario. Vi sono quindi tutti i presupposti perché il prossimo «botto» di questa crisi sia un’ulteriore perdita di fiducia nel dollaro.

CdT
18/03/2008 00:23
 

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