Sharnin 2
Forumer storico
Sommersi dai debiti degli Stati
E intanto non si vede l'avvio di una ripresa durevole
2 feb 2010
di ALFONSO TUOR
Sta finendo di incantare l’opinione pubblica il gioco delle tre carte utilizzato dai Governi dei Paesi occidentali per superare la crisi finanziaria. Infatti il trasferimento agli Stati dei debiti del sistema finanziario, da un canto, la forte riduzione del gettito fiscale, i piani di rilancio economico e l’aumento dei costi sociali, dall’altro, stanno cominciando ad emergere nella loro drammatica dimensione. Ancora più tragico è il dato di fatto che questa esplosione dei deficit e dei debiti pubblici non ha prodotto né il risanamento del sistema finanziario, che si calcola abbia bisogno di almeno 1’000 miliardi di dollari per ottemperare ai requisiti minimi di capitale e per assorbire le perdite nascoste nelle pieghe dei bilanci, né soprattutto l’uscita dalla crisi e l’avvio di una ripresa durevole.
La pesante eredità della crisi emerge chiaramente nel bilancio statunitense presentato ieri dall’amministrazione Obama. Il disavanzo dei conti dello Stato federale raggiungerà quest’anno i 1’600 miliardi di dollari e corrisponderà al 10,6% del PIL statunitense. L’anno scorso, ossia nel 2009, sempre negli Stati Uniti il disavanzo federale ha raggiunto i 1’400 miliardi di dollari. Si tratta di livelli di deficit mai registrati dai tempi della seconda guerra mondiale. In Europa la situazione non è migliore: il deficit pubblico della Gran Bretagna è addirittura superiore a quello statunitense; quello francese sfiora il 10% del PIL, quello tedesco il 5%, quello italiano il 6%, per non parlare dei cosiddetti Pigs di Eurolandia (Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna) dove siamo già ad un passo da una vera e propria crisi fiscale.
Non sorprende che sia l’amministrazione democratica americana sia molti Governi europei stiano affrettandosi a comunicare piani di risanamento finanziario. Barack Obama ha infatti annunciato che vuole ridurre il deficit federale al 4% del PIL statunitense entro il 2013, ossia entro la fine del suo mandato. Anche i Governi europei stanno facendo altrettanto: ad esempio, il Governo francese ha preparato a sua volta un piano di risanamento, mentre i cosiddetti Pigs hanno annunciato lacrime e sangue, o meglio quella che Giulio Tremonti chiama «la macelleria sociale». La Spagna alzerà l’età di pensionamento, l’Irlanda ha tagliato i salari dei dipendenti pubblici, la Grecia sta continuando a presentare piani per riconquistare la fiducia dei mercati.
Dunque è legittimo domandarsi quanto siano credibili questi intenti. L’unica certezza è che la crisi fiscale degli Stati occidentali verrà pagata dagli strati più deboli della popolazione, come già sta avvenendo con il drammatico aumento della disoccupazione, mentre coloro che hanno causato questo disastro continueranno a percepire bonus milionari, come si appresta a fare Goldman Sachs che distribuirà 16 miliardi di dollari di premi per i risultati conseguiti l’anno scorso dalla banca americana. Invece vi è da dubitare che i propositi dei Governi producano risultati significativi sui conti pubblici.
Le ragioni sono evidenti. Il gettito fiscale non è destinato ad aumentare, poiché l’economia non si sta riprendendo, ma sta semplicemente stabilizzandosi a bassi livelli. Non bisogna farsi trarre in inganno dai dati che escono. Ad esempio, la crescita del 5,7% del PIL USA nel quarto trimestre dell’anno scorso è un caso emblematico. Infatti, se si esclude la variazione delle scorte, che sono calate ancora ma a un ritmo più lento, la crescita si riduce al 2,3% annualizzato. Ciò vuol dire, se si usano i criteri statistici europei, che la crescita negli ultimi tre mesi dell’anno scorso è stata di poco inferiore allo 0,6%. Non c’è dunque nulla da festeggiare (come ha giustamente fatto Wall Street che ha chiuso venerdì scorso in ribasso) e non c’è nulla che possa far pensare ad una ripresa forte e duratura.
Se il gettito fiscale non è destinato ad aumentare di molto, è invece certo che il costo del finanziamento di questi debiti pubblici, che nel caso di Stati Uniti e Gran Bretagna si stanno rapidamente avvicinando al 100% del PIL, può solo aumentare dai livelli attuali che sono eccezionalmente bassi. Se ci sarà effettivamente una ripresa il costo del denaro salirà; se invece non ci sarà, i rendimenti dei titoli attraverso i quali gli Stati si finanziano aumenteranno, poiché diventerà evidente che la posizione finanziaria di molti Stati è insostenibile. Finora ciò non è avvenuto, poiché sia la Federal Reserve sia la Banca d’Inghilterra hanno acquistato enormi quantità di titoli pubblici stampando moneta. È facile prevedere che sia gli Stati Uniti sia la Gran Bretagna proseguiranno su questa strada fino a quando l’enorme quantità di moneta creata non metterà a rischio la stabilità delle loro valute. In Eurolandia la situazione è diversa, poiché i singoli Paesi hanno delegato la politica monetaria alla Banca centrale europea, che per il momento non ha intenzione di correre in soccorso degli Stati membri. È quindi probabile che in Europa e soprattutto nei Paesi più deboli vi sia una pesante stretta finanziaria che inciderà negativamente sulle speranze di ripresa economica dell’intero Continente.
La realtà è dunque ben più cruda di quanto ci vogliano far credere. Smaltire debiti pubblici di questa entità è un’opera immane che richiede molto tempo. Nessuno può ragionevolmente ipotizzare che si prospettino due decenni di grande boom economico, come quelli che seguirono dopo la fine della seconda guerra mondiale. Inoltre a differenza di allora non si manifesta un consenso politico sufficiente per adottare misure eccezionali senza che esplodano gravi tensioni sociali. E’ quindi molto probabile che nei prossimi anni i Governi ricorrano ad una specie di «bancarotta fraudolenta» che è quella di usare l’inflazione per decurtare lo stock di debito accumulato. Ma questa non è musica di oggi, poiché la gravità della crisi è tale che, nonostante l’enorme quantità di moneta stampata dalle banche centrali, il rischio più immediato resta quello della deflazione.
E intanto non si vede l'avvio di una ripresa durevole
2 feb 2010
di ALFONSO TUOR
Sta finendo di incantare l’opinione pubblica il gioco delle tre carte utilizzato dai Governi dei Paesi occidentali per superare la crisi finanziaria. Infatti il trasferimento agli Stati dei debiti del sistema finanziario, da un canto, la forte riduzione del gettito fiscale, i piani di rilancio economico e l’aumento dei costi sociali, dall’altro, stanno cominciando ad emergere nella loro drammatica dimensione. Ancora più tragico è il dato di fatto che questa esplosione dei deficit e dei debiti pubblici non ha prodotto né il risanamento del sistema finanziario, che si calcola abbia bisogno di almeno 1’000 miliardi di dollari per ottemperare ai requisiti minimi di capitale e per assorbire le perdite nascoste nelle pieghe dei bilanci, né soprattutto l’uscita dalla crisi e l’avvio di una ripresa durevole.
La pesante eredità della crisi emerge chiaramente nel bilancio statunitense presentato ieri dall’amministrazione Obama. Il disavanzo dei conti dello Stato federale raggiungerà quest’anno i 1’600 miliardi di dollari e corrisponderà al 10,6% del PIL statunitense. L’anno scorso, ossia nel 2009, sempre negli Stati Uniti il disavanzo federale ha raggiunto i 1’400 miliardi di dollari. Si tratta di livelli di deficit mai registrati dai tempi della seconda guerra mondiale. In Europa la situazione non è migliore: il deficit pubblico della Gran Bretagna è addirittura superiore a quello statunitense; quello francese sfiora il 10% del PIL, quello tedesco il 5%, quello italiano il 6%, per non parlare dei cosiddetti Pigs di Eurolandia (Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna) dove siamo già ad un passo da una vera e propria crisi fiscale.
Non sorprende che sia l’amministrazione democratica americana sia molti Governi europei stiano affrettandosi a comunicare piani di risanamento finanziario. Barack Obama ha infatti annunciato che vuole ridurre il deficit federale al 4% del PIL statunitense entro il 2013, ossia entro la fine del suo mandato. Anche i Governi europei stanno facendo altrettanto: ad esempio, il Governo francese ha preparato a sua volta un piano di risanamento, mentre i cosiddetti Pigs hanno annunciato lacrime e sangue, o meglio quella che Giulio Tremonti chiama «la macelleria sociale». La Spagna alzerà l’età di pensionamento, l’Irlanda ha tagliato i salari dei dipendenti pubblici, la Grecia sta continuando a presentare piani per riconquistare la fiducia dei mercati.
Dunque è legittimo domandarsi quanto siano credibili questi intenti. L’unica certezza è che la crisi fiscale degli Stati occidentali verrà pagata dagli strati più deboli della popolazione, come già sta avvenendo con il drammatico aumento della disoccupazione, mentre coloro che hanno causato questo disastro continueranno a percepire bonus milionari, come si appresta a fare Goldman Sachs che distribuirà 16 miliardi di dollari di premi per i risultati conseguiti l’anno scorso dalla banca americana. Invece vi è da dubitare che i propositi dei Governi producano risultati significativi sui conti pubblici.
Le ragioni sono evidenti. Il gettito fiscale non è destinato ad aumentare, poiché l’economia non si sta riprendendo, ma sta semplicemente stabilizzandosi a bassi livelli. Non bisogna farsi trarre in inganno dai dati che escono. Ad esempio, la crescita del 5,7% del PIL USA nel quarto trimestre dell’anno scorso è un caso emblematico. Infatti, se si esclude la variazione delle scorte, che sono calate ancora ma a un ritmo più lento, la crescita si riduce al 2,3% annualizzato. Ciò vuol dire, se si usano i criteri statistici europei, che la crescita negli ultimi tre mesi dell’anno scorso è stata di poco inferiore allo 0,6%. Non c’è dunque nulla da festeggiare (come ha giustamente fatto Wall Street che ha chiuso venerdì scorso in ribasso) e non c’è nulla che possa far pensare ad una ripresa forte e duratura.
Se il gettito fiscale non è destinato ad aumentare di molto, è invece certo che il costo del finanziamento di questi debiti pubblici, che nel caso di Stati Uniti e Gran Bretagna si stanno rapidamente avvicinando al 100% del PIL, può solo aumentare dai livelli attuali che sono eccezionalmente bassi. Se ci sarà effettivamente una ripresa il costo del denaro salirà; se invece non ci sarà, i rendimenti dei titoli attraverso i quali gli Stati si finanziano aumenteranno, poiché diventerà evidente che la posizione finanziaria di molti Stati è insostenibile. Finora ciò non è avvenuto, poiché sia la Federal Reserve sia la Banca d’Inghilterra hanno acquistato enormi quantità di titoli pubblici stampando moneta. È facile prevedere che sia gli Stati Uniti sia la Gran Bretagna proseguiranno su questa strada fino a quando l’enorme quantità di moneta creata non metterà a rischio la stabilità delle loro valute. In Eurolandia la situazione è diversa, poiché i singoli Paesi hanno delegato la politica monetaria alla Banca centrale europea, che per il momento non ha intenzione di correre in soccorso degli Stati membri. È quindi probabile che in Europa e soprattutto nei Paesi più deboli vi sia una pesante stretta finanziaria che inciderà negativamente sulle speranze di ripresa economica dell’intero Continente.
La realtà è dunque ben più cruda di quanto ci vogliano far credere. Smaltire debiti pubblici di questa entità è un’opera immane che richiede molto tempo. Nessuno può ragionevolmente ipotizzare che si prospettino due decenni di grande boom economico, come quelli che seguirono dopo la fine della seconda guerra mondiale. Inoltre a differenza di allora non si manifesta un consenso politico sufficiente per adottare misure eccezionali senza che esplodano gravi tensioni sociali. E’ quindi molto probabile che nei prossimi anni i Governi ricorrano ad una specie di «bancarotta fraudolenta» che è quella di usare l’inflazione per decurtare lo stock di debito accumulato. Ma questa non è musica di oggi, poiché la gravità della crisi è tale che, nonostante l’enorme quantità di moneta stampata dalle banche centrali, il rischio più immediato resta quello della deflazione.