Sharnin 2
Forumer storico
UBS, esempio di stentata ricapitalizzazione
Alfonso Tuor
La fase di bonaccia della cosiddetta crisi dei mutui subprime che si protrae da poco più di due mesi sembra prossima alla fine. La situazione sta di nuovo peggiorando sia a livello di sistema bancario sia a livello economico. È quindi prevedibile che nelle prossime settimane la tensione ritorni a crescere in modo sensibile.
L’allentamento della tensione sui mercati finanziari, come tutti ricorderanno, era stata determinata dal salvataggio statale della banca di investimento americana Bear & Stearns. Con quella operazione la Federal Reserve statunitense aveva confermato che le banche centrali non avrebbero permesso il fallimento di qualsiasi istituto bancario per evitare una crisi dell’intero sistema finanziario internazionale. Questa decisione ha completato una serie di operazioni tese a contenere la crisi: dalla riduzione dei tassi americani al 2% alle continue iniziezioni di miliardi e miliardi operate dalle principali banche centrali, fino alla sottoscrizione dei titoli legati al mercato immobiliare da parte di enti federali statunitensi. Tutto ciò ha dato un sospiro di sollievo e ha permesso di guadagnare tempo, ma non ha risolto i problemi che stanno ritornando al pettine. Infatti la liquidità fornita dalle banche centrali al sistema bancario poteva permettere di continuare ad operare, ma non poteva appianare le perdite di centinaia di miliardi che sono ancora nascoste nelle pieghe dei bilanci dei diversi istituti bancari.
Per cominciare ad affrontare questa «operazione di pulizia», occorreva ed occorre una massiccia ricapitalizzazione delle singole banche. Ed è quanto alcuni istituti, tra cui UBS, Royal Bank of Scotland, ecc. stanno facendo in questi giorni. Ma, sorpresa delle sorprese, il mercato sta reagendo molto male, nonostante queste operazioni siano state preparate con grandi e ripetuti proclami che asserivano che la crisi era ormai superata. L’aumento di capitale di 23,6 miliardi di dollari della Royal Bank of Scotland ha rischiato di fallire e solo con un colpo di reni dell’ultima ora sembra possa concludersi felicemente. La ricapitalizzazione dell’inglese Bradford & Bingley, attiva nel mercato ipotecario, continua solo grazie al fatto che con un passo del tutto inusuale è stato ridotto il prezzo delle nuove azioni. Anche l’aumento di capitale di più di 15 miliardi di franchi di UBS sarà portato a termine, ma nessuno oserà dire che questa operazione è stata un successo o una testimonianza di fiducia nei confronti della maggiore banca svizzera. Infatti UBS, come le altre banche, offriva le sue nuove azioni a sconto (a 21 franchi) rispetto al prezzo di mercato, per far sì che l’operazione potesse essere completata con successo e per compensare almeno parzialmente i vecchi azionisti che subiscono una diluzione di capitale. E in effetti al momento della presentazione delle condizioni dell’aumento di capitale il valore delle azioni UBS era attorno a 30 franchi, ma nel corso di questa operazione ha stabilito un nuovo minimo a 23,5 franchi, per poi risalire sopra i 26 franchi. Questo rialzo non deve trarre in inganno. Infatti «mani forti» stanno intervenendo per sostenere il corso di queste azioni ed evitare un clamoroso fallimento di queste ricapitalizzazioni. La conferma di questa affermazione la si avrà osservando l’andamento di queste azioni dopo la conclusione di queste operazioni (nel caso di UBS la conclusione è per lunedì prossimo).
Il motivo di questo insuccesso è ovvio. Tutti sanno che questi aumenti di capitale servono per coprire altre perdite, che l’ammontare definitivo di queste perdite può essere ancora molto consistente e che la capacità di generare utili di queste banche non ritornerà ai livelli precedenti lo scoppio di questa crisi. Prendendo ad esempio il caso di UBS, le posizioni a rischio (come ha calcolato il bisettimanale Finanz und Wirtschaft) ammontano ancora a 80 miliardi di franchi, nonostante i 37 miliardi già denunciati e nonostante le operazioni cosmetiche per il bilancio, come la vendita di 22 miliardi di titoli a BlackRock avvenuta grazie ad una linea di credito di oltre 12 miliardi fornita dalla stessa UBS al fondo di investimento americano e grazie alla garanzia che se il valore di questi titoli scenderà oltre un certo livello la maggiore banca svizzera coprirà la differenza.
I motivi dell’esito deludente della ricapitalizzazione di UBS sono chiari: nessuno si fida e ci si aspetta che vi siano ancora spiacevoli sorprese di grandi dimensioni, tutti sanno che non vi è ancora trasparenza e tutti capiscono che il Consiglio di Amministrazione e il management di UBS non hanno alcuna chiara strategia per uscire da questa crisi e per riportare la banca lungo un sentiero di crescita. Di transenna, se veramente gli azionisti comandassero in queste società ad azionariato diffuso, ci sarebbe da chiedere il conto a management e a Consiglio di Amministrazione, che finora hanno accumulato 37 miliardi di perdite e hanno portato il valore dei titoli da 80 franchi per azione a meno di 30 franchi. Ma come tutti sanno, gli azionisti non contano. Quindi tutti noi, che siamo sicuramente azionisti di UBS almeno indirettamente attraverso le nostre casse pensioni, dobbiamo accollarci le perdite dovute a questi signori, che non sentono nemmeno il dovere di dimettersi.
Le difficoltà di ricapitalizzazione del sistema bancario pongono un nuovo problema sistemico, che si può riassumere in questi termini: le banche non falliranno perché le salveranno le banche centrali, ma d’altra parte non riescono a smaltire le perdite che ancora nascondono nei loro bilanci, poiché il mercato è riluttante a sottoscrivere queste operazioni o è disposto a sottoscriverle solo a prezzi stracciati. L’ammontare delle perdite nascoste è impressionante. Ad esempio, Merrill Lynch, Goldman Sachs, Morgan Stanley e Citigroup hanno inserito a bilancio (sotto la voce «livello 3») al prezzo di acquisto 419 miliardi di dollari di titoli che oggi sono senza prezzo o di dubbio valore. La stessa Citigroup calcola che prima o poi dovranno ritornare nei bilanci bancari 5’000 miliardi di titoli, che sono ora parcheggiati nei «Veicoli speciali di investimento», ossia in fondi fuori bilancio costituiti dalle banche. E la lista potrebbe continuare. Anche perché verrà allungata nei prossimi giorni dalle nuove gravi difficoltà dei due grandi riassicuratori di obbligazioni (Ambac e MBIA) e dai successivi sconvolgimenti nel mondo dei prodotti strutturati e degli Hedge Funds. Quindi, la crisi del sistema bancario sembra prossima ad un periodo di nuove e forti turbolenze.
E ciò avviene proprio nel momento in cui si sta acuendo la crisi del mercato immobiliare americano e nel momento in cui si fa concreto lo spettro dell’inflazione. Il crescere delle aspettative inflazionistiche è destinato a spingere ulteriormente al rialzo il costo del denaro e a mettere la Federal Reserve con le spalle al muro. Infatti, essa da un canto deve continuare a dare soldi e a seguire una politica monetaria espansiva per sostenere il sistema bancario, ma dall’altro rischia di vedere vanificato gran parte del suo lavoro dall’aumento dei tassi provocato dalla paura del ritorno dell’inflazione. Insomma, i nodi stanno tornando al pettine e fanno prevedere che ci aspetta un’estate molto calda.
05/06/2008
Nota della redazione:
sul tema della ricapitalizzazione potete leggere l'articolo di gipa Le banche ancora in difficoltà?
Alfonso Tuor
La fase di bonaccia della cosiddetta crisi dei mutui subprime che si protrae da poco più di due mesi sembra prossima alla fine. La situazione sta di nuovo peggiorando sia a livello di sistema bancario sia a livello economico. È quindi prevedibile che nelle prossime settimane la tensione ritorni a crescere in modo sensibile.
L’allentamento della tensione sui mercati finanziari, come tutti ricorderanno, era stata determinata dal salvataggio statale della banca di investimento americana Bear & Stearns. Con quella operazione la Federal Reserve statunitense aveva confermato che le banche centrali non avrebbero permesso il fallimento di qualsiasi istituto bancario per evitare una crisi dell’intero sistema finanziario internazionale. Questa decisione ha completato una serie di operazioni tese a contenere la crisi: dalla riduzione dei tassi americani al 2% alle continue iniziezioni di miliardi e miliardi operate dalle principali banche centrali, fino alla sottoscrizione dei titoli legati al mercato immobiliare da parte di enti federali statunitensi. Tutto ciò ha dato un sospiro di sollievo e ha permesso di guadagnare tempo, ma non ha risolto i problemi che stanno ritornando al pettine. Infatti la liquidità fornita dalle banche centrali al sistema bancario poteva permettere di continuare ad operare, ma non poteva appianare le perdite di centinaia di miliardi che sono ancora nascoste nelle pieghe dei bilanci dei diversi istituti bancari.
Per cominciare ad affrontare questa «operazione di pulizia», occorreva ed occorre una massiccia ricapitalizzazione delle singole banche. Ed è quanto alcuni istituti, tra cui UBS, Royal Bank of Scotland, ecc. stanno facendo in questi giorni. Ma, sorpresa delle sorprese, il mercato sta reagendo molto male, nonostante queste operazioni siano state preparate con grandi e ripetuti proclami che asserivano che la crisi era ormai superata. L’aumento di capitale di 23,6 miliardi di dollari della Royal Bank of Scotland ha rischiato di fallire e solo con un colpo di reni dell’ultima ora sembra possa concludersi felicemente. La ricapitalizzazione dell’inglese Bradford & Bingley, attiva nel mercato ipotecario, continua solo grazie al fatto che con un passo del tutto inusuale è stato ridotto il prezzo delle nuove azioni. Anche l’aumento di capitale di più di 15 miliardi di franchi di UBS sarà portato a termine, ma nessuno oserà dire che questa operazione è stata un successo o una testimonianza di fiducia nei confronti della maggiore banca svizzera. Infatti UBS, come le altre banche, offriva le sue nuove azioni a sconto (a 21 franchi) rispetto al prezzo di mercato, per far sì che l’operazione potesse essere completata con successo e per compensare almeno parzialmente i vecchi azionisti che subiscono una diluzione di capitale. E in effetti al momento della presentazione delle condizioni dell’aumento di capitale il valore delle azioni UBS era attorno a 30 franchi, ma nel corso di questa operazione ha stabilito un nuovo minimo a 23,5 franchi, per poi risalire sopra i 26 franchi. Questo rialzo non deve trarre in inganno. Infatti «mani forti» stanno intervenendo per sostenere il corso di queste azioni ed evitare un clamoroso fallimento di queste ricapitalizzazioni. La conferma di questa affermazione la si avrà osservando l’andamento di queste azioni dopo la conclusione di queste operazioni (nel caso di UBS la conclusione è per lunedì prossimo).
Il motivo di questo insuccesso è ovvio. Tutti sanno che questi aumenti di capitale servono per coprire altre perdite, che l’ammontare definitivo di queste perdite può essere ancora molto consistente e che la capacità di generare utili di queste banche non ritornerà ai livelli precedenti lo scoppio di questa crisi. Prendendo ad esempio il caso di UBS, le posizioni a rischio (come ha calcolato il bisettimanale Finanz und Wirtschaft) ammontano ancora a 80 miliardi di franchi, nonostante i 37 miliardi già denunciati e nonostante le operazioni cosmetiche per il bilancio, come la vendita di 22 miliardi di titoli a BlackRock avvenuta grazie ad una linea di credito di oltre 12 miliardi fornita dalla stessa UBS al fondo di investimento americano e grazie alla garanzia che se il valore di questi titoli scenderà oltre un certo livello la maggiore banca svizzera coprirà la differenza.
I motivi dell’esito deludente della ricapitalizzazione di UBS sono chiari: nessuno si fida e ci si aspetta che vi siano ancora spiacevoli sorprese di grandi dimensioni, tutti sanno che non vi è ancora trasparenza e tutti capiscono che il Consiglio di Amministrazione e il management di UBS non hanno alcuna chiara strategia per uscire da questa crisi e per riportare la banca lungo un sentiero di crescita. Di transenna, se veramente gli azionisti comandassero in queste società ad azionariato diffuso, ci sarebbe da chiedere il conto a management e a Consiglio di Amministrazione, che finora hanno accumulato 37 miliardi di perdite e hanno portato il valore dei titoli da 80 franchi per azione a meno di 30 franchi. Ma come tutti sanno, gli azionisti non contano. Quindi tutti noi, che siamo sicuramente azionisti di UBS almeno indirettamente attraverso le nostre casse pensioni, dobbiamo accollarci le perdite dovute a questi signori, che non sentono nemmeno il dovere di dimettersi.
Le difficoltà di ricapitalizzazione del sistema bancario pongono un nuovo problema sistemico, che si può riassumere in questi termini: le banche non falliranno perché le salveranno le banche centrali, ma d’altra parte non riescono a smaltire le perdite che ancora nascondono nei loro bilanci, poiché il mercato è riluttante a sottoscrivere queste operazioni o è disposto a sottoscriverle solo a prezzi stracciati. L’ammontare delle perdite nascoste è impressionante. Ad esempio, Merrill Lynch, Goldman Sachs, Morgan Stanley e Citigroup hanno inserito a bilancio (sotto la voce «livello 3») al prezzo di acquisto 419 miliardi di dollari di titoli che oggi sono senza prezzo o di dubbio valore. La stessa Citigroup calcola che prima o poi dovranno ritornare nei bilanci bancari 5’000 miliardi di titoli, che sono ora parcheggiati nei «Veicoli speciali di investimento», ossia in fondi fuori bilancio costituiti dalle banche. E la lista potrebbe continuare. Anche perché verrà allungata nei prossimi giorni dalle nuove gravi difficoltà dei due grandi riassicuratori di obbligazioni (Ambac e MBIA) e dai successivi sconvolgimenti nel mondo dei prodotti strutturati e degli Hedge Funds. Quindi, la crisi del sistema bancario sembra prossima ad un periodo di nuove e forti turbolenze.
E ciò avviene proprio nel momento in cui si sta acuendo la crisi del mercato immobiliare americano e nel momento in cui si fa concreto lo spettro dell’inflazione. Il crescere delle aspettative inflazionistiche è destinato a spingere ulteriormente al rialzo il costo del denaro e a mettere la Federal Reserve con le spalle al muro. Infatti, essa da un canto deve continuare a dare soldi e a seguire una politica monetaria espansiva per sostenere il sistema bancario, ma dall’altro rischia di vedere vanificato gran parte del suo lavoro dall’aumento dei tassi provocato dalla paura del ritorno dell’inflazione. Insomma, i nodi stanno tornando al pettine e fanno prevedere che ci aspetta un’estate molto calda.
05/06/2008
Nota della redazione:
sul tema della ricapitalizzazione potete leggere l'articolo di gipa Le banche ancora in difficoltà?
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