Visto che hai il ditino cancarato cerco io per te e posto la prima cosa che trovo:
Elettroshock
E' la più controversa delle terapie psichiatriche e torna ciclicamente ad occupare le prime pagine dei giornali, suscitando ogni volta polemiche roventi. Stiamo parlando dell'elettroshock, o, per usare il gergo medico, la terapia elettroconvulsivante. Proprio nei giorni in cui in Italia la circolare del ministro della Sanità Rosy Bindi, a favore di questa pratica, sta suscitando tante polemiche, nel mondo sia politivo che scientifico.
Per il profano che non si accontenta di suggestioni emotive, è difficile districarsi tra le diverse posizioni e sfuggire alle evocazioni di tanto cinema e tanta letteratura. Lasciamo dunque da parte per un momento il ricordo delle immagini di "Qualcuno volò sul nido del cuculo", (che sarebbe un po' come tentare di formarsi un'opinione sulla chirurgia del trapianto di organi sulla base dei film di Frankestein), e vediamo anzitutto in cosa consiste oggi l'elettroshock. Il fondamento medico della terapia sta nella constatazione, che risale ai tempi di Ippocrate, che una convulsione di tipo epilettico ha effetti positivi sulla depressione.
Nel corso dei secoli, le convulsioni sono state provocate con vari metodi, spesso estremamente violenti e pericolosi, fino a quando, nel 1938, due medici italiani, Ugo Cerletti e Lucio Bini, non ebbero l'idea di ricorrere all'elettricità. Come molte altre terapie psichiatriche, nella fase iniziale l'elettroshock è stato usato in maniera grossolana, francamente pericolosa e talora utilizzata più per controllare i pazienti scomodi che per ragioni effettivamente terapeutiche. Ma dai tempi di Cerletti e Bini, la metodologia dell'ECT (per usare l'acronimo inglese di "electroconvulsant therapy") si è evoluta e perfezionata ed oggi la pratica psichiatrica effettua quella che viene chiamata "terapia elettroconvulsivante unilaterale", così detta perché coinvolge solamente uno degli emisferi cerebrali.
Niente sedie elettriche, legacci di cuoio e dosi elevate di elettricità somministrate quasi a casaccio. Oggi l'intervento viene eseguito con macchine computerizzate e programmate a seconda del paziente, in anestesia generale e con l'obbligatoria presenza di uno psichiatra e di un anestesista. Ed altrettanto obbligatorio, almeno in teoria, è il consenso del paziente o di chi ne fa le veci, che a termini di legge deve essere pienamente informato sul funzionamento della terapia e sui suoi effetti collaterali.
Al paziente vengono applicate due piastrine metalliche all'esterno dell'emisfero non dominante del cervello (il destro, nella maggior parte dei casi), attraverso cui viene fatta passare una corrente dell'intensità di circa 0.9 Ampere (tanto per intenderci, per accendere una lampadina servono 2 Ampere). L'energia è di circa 24 joules e il voltaggio utilizzato (si tratta di corrente continua, come quella delle batterie) è di circa 100-110. La scossa dura circa 0.14 secondi, e la convulsione che ne segue va da 10 a 40 secondi. La seduta viene ripetuta due o tre volte a settimana per circa un mese, a seconda dei casi.
Ma cosa fa la scossa elettrica? In pratica, riattiva di colpo i neurotrasmettitori, rialzando in particolare la noradrenalina, che nei depressi sarebbe estremamente carente. Equivale, insomma, ad una dose elevatissima di antidepressivi somministrata in un colpo solo, sostituendo l'intervento farmacologico che, in dosi equivalenti, sarebbe pericolosamente tossico.
Una scossa rivivificante, dunque, che rimette in moto meccanismi cerebrali devastati dalla malattia. Da usare, e questo viene sottolineato in tutti i testi ufficiali, anche i più favorevoli, solo ed esclusivamente per i casi di emergenza. Nel 1985, i National Institutes of Health americani hanno dedicato al problema dell'elettroshock un'intera conferenza, emettendo alla fine una sentenza favorevole alla sua applicazione. Citando direttamente dal documento finale emesso dai NIH, "nessuno studio ha rilevato un'altra forma di terapia che si dimostri superiore all'Ect per la cura a breve termine delle depressioni gravi." L'unica terapia possibile, insomma, per i soggetti in condizioni acute, con evidenti intenzioni suicide, catatonia o mancata rispondenza alle cure farmacologiche. L'elettroshock permetterebbe dunque di recuperare un paziente a rischio di vita (oppure troppo anziano o debilitato per assumere farmaci) che potrà poi essere curato con antidepressivi e/o psicoterapia.
I fautori dell'elettrochock sostengono infatti che non è possibile mettere sullo stesso piano un intervento di emergenza, di durata limitata, come l'Ect e una cura lunga e complessa come quella psicoterapica, inapplicabile nella maggioranza dei casi acuti. E per molti soggetti, aggiungono, la psicoterapia è comunque improponibile, perché prevede la volontà del paziente a sottoporvisi, e gli strumenti culturali ed anche finanziari per proseguirla e trarne giovamento.
L'elettroshock uscirebbe quindi assolto e addirittura vincente nella letteratura medica più diffusa e recente. Ma non ne vanno per nulla sottovalutati gli effetti collaterali, che rimangono pesanti anche rispettando la metodologia prevista. I rischi di mortalità sono bassi (2,9 decessi su 10.000 secondo lo studio più pessimistico, 4,5 su 100.000 secondo il più favorevole) e vanno comunque confrontati con un rischio di suicidio che tocca una media del 15 per cento nei depressi gravi.