Vota
0 Voti
La stampa dedica parecchie energie a rimarcare i molti errori nei discorsi a ruota libera di Donald Trump, e durante il dibattito presidenziale di lunedì Hillary Clinton ha espresso l’auspicio che gli osservatori "alzassero la voce" contro il rivale. Ma in tema di Federal Reserve, il tycoon di New York non ha tutti i torti. In una delle sue filippiche sosteneva che l’istituto centrale sempre più "politico" sta mantenendo bassi i tassi di interesse per aiutare i democratici a novembre, aggravando una "grande, grossa, brutta bolla" che scoppierà quando la banca centrale si deciderà ad agire. Non del tutto infondato.
Al netto della teoria del complotto e guardando ai fatti, da quando la Fed ha dato avvio all’aggressivo allentamento monetario nel 2008, i numeri dimostrano che quasi il 60% dei guadagni di borsa si sono verificati una volta ogni sei settimane, nei giorni in cui il Federal Open Market Committee pubblica le decisioni di politica monetaria.
In altri termini, da gennaio 2008 lo S&P 500 ha progredito di 699 punti, e 422 di questi sono stati registrati nei 70 giorni in cui Washington ha rivelato le proprie delibere. Il guadagno medio in queste giornate è stato dello 0,49%, ovvero circa 50 volte superiore alla media dello 0,01% relativo alle altre giornate. Questo denota una disfunzione. Il mercato azionario dovrebbe essere un barometro dell'economia, ma in pratica è diventato il barometro della politica della Fed.
Dal 1960 i festeggiamenti dell’equity nelle giornate di annuncio della Fed sono una caratteristica relativamente nuova e sempre più consistente dell'economia. Tali proclami hanno avuto poca influenza prima del 1980. Tra il 1980 e il 2007 in queste giornate il guadagno medio era dello 0,24%, circa la metà rispetto al ciclo di allentamento corrente. L'effetto Fed è aumentato bruscamente dopo il 2008 al varo dei primi round di quantitative easing, gli acquisti di obbligazioni volti a iniettare denaro nell’economia.
Di primo acchito l'effetto sembra essersi dissipato negli ultimi due anni. Lo S&P 500 si è mosso lateralmente dal 2014, quando la banca centrale ha notificato l’intenzione di interrompere il programma di Qe. Questa è però un'illusione. I prezzi delle azioni si sono mantenuti costanti malgrado il calo degli utili societari inaugurato nel 2014. Le valutazioni, e quindi il rapporto prezzo-utile, continuano a lievitare. Con gli investitori letteralmente a caccia di rendimenti nel contesto di tassi di interesse bassissimi creato dalla Fed, le valutazioni dei titoli che prevedono dividendi elevati sono particolarmente tirate. I mercati sono più che mai dipendenti dalla Fed.
La settimana scorsa l'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico ha messo in guardia “dalla crescita dei rischi di instabilità finanziaria" anche perché il denaro facile sta spingendo al rialzo i prezzi degli attivi. Almeno due presidenti delle istituzioni regionali, Eric Rosengren di Boston e Esther George di Kansas City, recentemente hanno segnalato la possibilità di una bolla speculativa negli immobili commerciali.
I toni erano ben lungi dall’allarmismo di Trump, che nel dibattito di lunedì ha pronosticato “un crollo” del mercato azionario se la Fed alzerà "anche di poco” i tassi. Bisogna dire che un gran numero di autorevoli voci condivide la sua preoccupazione di fondo.
Che questa sia una "grande, grossa, brutta bolla" è una questione di definizioni. Ma un indice composito su azioni, obbligazioni e case mostra che le valutazioni combinate non sono mai risultate più elevate in cinquant’anni. I prezzi delle abitazioni si sono gonfiati più velocemente dei salari, portando la prima casa fuori dalla portata di molti americani.
Per quanto non abbia dato i suoi frutti in questi termini, l’entrata in carica del presidente Janet Yellen ha avuto toni insolitamente politici con la promessa di un’amministrazione nell'interesse di "Main Street e non Wall Street". Trump aveva fondamentalmente ragione nel dire che la politica della Fed ha fatto di più per accrescere i prezzi di asset finanziari, quali azioni, obbligazioni e abitazioni, che per aiutare l’economia nel complesso.
Il legame sempre più stretto e rischioso tra le politiche di moneta facile della Fed e i mercati finanziari è stato sottolineato ancora una volta in questi ultimi giorni. All'inizio del mese alcuni governatori della Fed hanno lasciato intendere che la banca centrale finalmente avrebbe alzato i tassi di interesse alla prima riunione utile. In risposta, il mercato azionario è sceso bruscamente. Poi, al momento della decisione, il 21 settembre i tassi sono rimasti invariati e le azioni hanno segnato un progresso dell’1% quel giorno.
Peraltro, Trump non si sbagliava neanche nell’affermare che, nonostante gli sforzi dell’istituto centrale, gli Stati Uniti hanno vissuto "il peggiore rilancio di una economia dalla Grande Depressione”. Il tasso di crescita è ben al di sotto del livello pre-crisi, e i vantaggi sono stati lenti a raggiungere la classe media e Main Street. Gran parte del denaro facile è andato in ingegneria finanziaria: le aziende prendono in prestito miliardi di dollari per riacquistare i propri titoli azionari. Il debito societario rispetto al pil è salito ai massimi toccati prima della crisi del 2008.
Questa finanza è maggiormente impegnata a stimolare i prezzi degli asset che ad aiutare la classe media. Dato che i ricchi possiedono più asset, guadagnano di più. In questo modo le politiche della Fed hanno alimentato un forte incremento della sperequazione del benessere in tutto il mondo, e un boom per la popolazione mondiale dei miliardari. Ironia della sorte, il rinnovato risentimento nei confronti di tale disuguaglianza sta sollevando le prospettive elettorali di populisti arrabbiati come Donald, un miliardario che promette di lottare per i piccoli. I suoi sproloqui potranno anche peccare di inaccuratezza, ma per quanto riguarda gli effetti a catena delle politiche di allentamento della Fed ha centrato il punto.
Please click here to read this article in English on The Wall Street Journal
More news from The Wall Street Journal