2°LE SCALATE..........FAZIO..SE !!!!!!!!!!!!!

SINIBALDO

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1°Puntata:http://www.investireoggi.it/forum/viewtopic.php?t=16898
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Un indizio da cui partire è la questione dei prezzi.

Il titolo Rcs, spinto dagli acquisti, è cresciuto di oltre l’80 per cento in un anno, raggiungendo una quotazione 60 volte gli utili netti del 2004, mentre la media europea di settore è di 16 volte.

Insomma: Ricucci, malgrado le sue ripetute dichiarazioni in linguaggio tuttoborsaefinanza, ha comprato a prezzi fuori mercato, spendendo più di 450 milioni di euro al 6 giugno, quando ha annunciato di avere in tasca il 18,5 per cento.

«Sa cosa vuol dire Rcs? Vuol dire Ricucci-Coppola-Statuto».

È solo una battuta, ma siccome circola dentro le mura del Corriere della sera fa un certo effetto.

E allora la prima pista da seguire per capire che cosa sta succedendo è quella degli immobiliaristi.
Ricucci sta rastrellando titoli per Caltagirone, si diceva nella prima fase della scalata, magari contando sull’aiuto, dall’interno del patto, di Salvatore Ligresti e del suo nuovo mentore, il banchiere di Capitalia Cesare Geronzi.


Ma poi Caltagirone, il 26 maggio, ha annunciato di aver venduto il suo 2 per cento, realizzando una bella plusvalenza di 38 milioni, ma soprattutto lanciando un segnale: io non c’entro con questi nuovi arrivati della razza mattona.

(A meno che non sia tutta una finta, un depistaggio per non scoprirsi come il vero scalatore).

La seconda pista passa per il banchiere preferito da Ricucci, cioè quel Gianpiero Fiorani che è il vero regista delle altre due scalate in corso, su Antonveneta e su Bnl.

Fiorani è forte del rapporto intenso e diretto, molto diretto, con il governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio.


Ma è fragile perché, dopo tante acquisizioni realizzate ma non ancora digerite, la sua indebitatissima Popolare di Lodi o riesce a compiere il grande salto e diventa una banca di prima fila, oppure rischia miseramente di implodere:
l’indicatore che misura la sua solidità patrimoniale (Tier 1) è sceso sotto il 2 per cento, non era mai successo a nessuna banca italiana.


La terza pista è la più cervellotica: a sostenere Ricucci sarebbe addirittura Giovanni Bazoli, il banchiere di Intesa, uno che con Ricucci non troverebbe parole comuni neppure per parlare del tempo,

ma a cui sarebbe utile un assalto ai confini per riuscire a manovrare i rapporti di forza all’interno del patto; e a realizzare una sorta di guerra preventiva, rastrellando quote di Rcs per annullare così i rischi di vere scalate ostili.

O di defezioni temute, come quella di Fiat, che in Rcs ha una delle quote più pesanti (oltre il 10 per cento), ma così tanti problemi a Torino da rendere prevedibile, prima o poi, un suo ritiro da Milano.

Bazoli ha però smentito seccamente ogni suo coinvolgimento nella vicenda e il patto del calabrone ha dato ripetuti segnali di compattezza.

Si è consolidato salendo, il 30 maggio, dal 57,4 al 58,08 per cento.

E poi si è blindato, inventando il 5 giugno una clausoletta salvacalabrone secondo cui, in caso di opa, i soci s’impegnano a comprare loro le quote di chi voglia vendere.

Inseguendo indizi, si scopre che tra i finanziatori di Ricucci ci sono la Popolare dell’Emila Romagna di Guido Leoni, la Popolare di Vicenza e la genovese Carige guidata da Vito Bonsignore, tre istituti molto vicini al governatore Fazio e tutti e tre impegnati a difendere, con Fiorani, «l’italianità» di Bnl contro gli spagnoli.

Ma anche in ambienti impensabili si scovano indizi che portano a Ricucci.

In Banca Intermobiliare, per esempio, boutique finanziaria torinese controllata dalla famiglia Segre e da sempre vicina a Carlo De Benedetti.

Oggi ha tra i suoi clienti più affezionati proprio Stefano Ricucci, Danilo Coppola e Giuseppe Statuto, cui ha offerto servizi e finanziamenti, anche in relazione alla scalata Bnl.

Altri indizi portano ad Arnaldo Borghesi, amministratore delegato di Lazard Italia e membro di board cari a Bazoli come quello di Mittel e della Fondazione Giorgio Cini.

È l’advisor preferito di Fiorani e, secondo voci diffuse durante la prima fase della scalata, era al lavoro anche per conto di Ricucci.

L’editoria, del resto, a Borghesi piace, vista la sua vicinanza al quotidiano economico Finanza & Mercati diretto dal suo amico Osvaldo De Paolini, gran sostenitore degli affari di Fiorani e compagnia.

Ma Ricucci ha poi dovuto smentire espressamente di aver affidato incarichi a Lazard «e specificamente a Borghesi».

Anche Francesco Micheli, finanziere-musicista ormai defilato, ha smentito di avere una parte in questo giallo con troppi indiziati e con piste che, anche se cadute, possono essere state vere per qualche momento o potranno diventar vere in futuro.

Anche perché, seppure l’avesse iniziata da solo, oggi l’avventura Rcs non può più essere gestita in solitaria da Ricucci e comunque è destinata a sfuggirgli di mano.

Il 30 maggio ha cominciato a parlare di opa: ma un’offerta pubblica d’acquisto su Rcs, che per legge farebbe sciogliere il patto del calabrone, obbligherebbe a mettere sul piatto almeno 3 miliardi e mezzo di euro e a spenderne effettivamente almeno la metà.

Too much anche per la rude razza romana.

La pista rossa.

Poi c’è la pista rossa. E qui gli indizi si moltiplicano.

La banca più impegnata con Ricucci è la Deutsche Bank e il banchiere a lui più vicino (se si esclude Fiorani, naturalmente) è Vincenzo De Bustis, oggi numero uno di Deutsche Italia e vecchia conoscenza di Massimo D’Alema fin dai tempi eroici della Banca del Salento e di Banca 121.

Sono firmati Deutsche e Société Générale giganteschi finanziamenti a Ricucci (per un totale di 1,8 miliardi di euro) su cui anche la Consob ha chiesto chiarimenti.

De Bustis comunque sostiene di non saperne nulla: sono operazioni decise dal trading desk della sede di Londra.

Ma il desk di Londra non fa investimenti senza relazione del desk di Milano.

E poi la Deutsche è partner di Magiste anche nella gara in corso per la gestione dell’immenso patrimonio immobiliare Enasarco (valore: 3 miliardi di euro) in cui Ricucci si scontra con concorrenti del calibro di Generali e Pirelli Real Estate.

La pista rossa, dunque, porta ad ambienti vicini a D’Alema.

Chi lo conosce è pronto a giurare che a D’Alema piace l’attacco al cuore dello stato di cose presente sferrato dai nuovi capitani coraggiosi, dalla rude razza romana.

La pista rossa, del resto, è confermata anche da altri più sostanziosi indizi.

Chi è il grande alleato di Fiorani (e dunque di Ricucci) in tutte le partite più rischiose che ha in corso?

È Giovanni Consorte, il finanziere creativo di Unipol, l’uomo che ha trasformato il vecchio mondo delle cooperative rosse in una macchina da guerra da scatenare nelle operazioni finanziarie più spregiudicate:

dalla madre di tutte le opa lanciata da Chicco Gnutti su Telecom, fino agli odierni arrembaggi a Bnl e Antonveneta.

Consorte sembra aver stretto una sorta di patto informale con Fiorani e Gnutti, con cui fa cordata in molte operazioni benedette dal governatore Fazio.

In casa, invece, Consorte si è assicurato il controllo della galassia Unipol grazie a un’architettura societaria così arzigogolata e autoreferenziale, piena di scatole cinesi e partecipazioni incrociate (l’ha raccontata Mario Gerevini sul Corriere nell’aprile 2004), da far invidia perfino alla «costruzione gotico-castrense» delle holding berlusconiane.

Alla faccia della trasparenza che ci si aspetterebbe dal movimento cooperativo.

Non è un mistero che il nume tutelare politico di Consorte sia Massimo D’Alema, con tutta la rete degli amministratori locali Ds (necessari, per esempio, per stipulare grandi contratti pubblici con Unipol, o per concedere licenze edilizie a una Coop in grande espansione.


Ma utili anche all’espansione dei nuovi palazzinari).

Il mondo dalemiano è in grande fermento ed espansione, dopo le ultime vittorie elettorali del centrosinistra alle amministrative.

Tra i dalemiani spicca Pierluigi Bersani, ministro all’epoca della scalata Telecom da parte dei «capitani coraggiosi».

Allora nell’operazione fu coinvolta anche la «banca rossa», il Monte dei Paschi di Siena, che pochi anni prima, nel 1996, era stata convinta da un suo consigliere d’amministrazione (Silvano Andriani, molto legato a D’Alema) ad acquistare una partecipazione in Mediaset decisiva per il successo del collocamento in Borsa della holding televisiva di Berlusconi.

Oggi il Monte dei Paschi ha invece resistito alle pressioni politiche ed è rimasto neutrale rispetto alle scalate Bnl e Antonveneta.

E nel mondo delle cooperative si è ormai formata una fronda anti-Consorte.
Ma lui va avanti imperterrito.

Tanto che anche Montezemolo, all’assemblea annuale di Confindustria, ha lanciato un’inattesa stoccata alla pista rossa.

Dopo aver attaccato «la malintesa battaglia per l’italianità delle banche» e aver criticato, senza giri di parole, «l’emersione di nuovi soggetti e di capitali misteriosi»,

Montezemolo ha alzato per un attimo gli occhi dai fogli che stava leggendo e, a braccio, ha aggiunto: «E nel Paese, soprattutto nella sinistra, abbiamo sentito troppi silenzi».

La frecciata era rivolta ai dalemiani.

Reazione scandalizzata di Pierluigi Bersani: «Passaggio gratuito».

E qualche giorno dopo, a proposito delle ipotizzate vicinanze Ricucci-D’Alema: «Mi sembrano palloni che si fanno girare per coprire la realtà dei fatti».

Ma Franco Bassanini, ex ministro della Funzione pubblica, commenta :

«L’uscita di Montezemolo forse era ingenerosa, visto che a sinistra qualcuno aveva parlato, eccome».

Romano Prodi, Francesco Rutelli, Giuliano Amato e lo stesso Bassanini, esprimendosi apertamente per l’applicazione delle regole di mercato, avevano criticato le cordate di Fiorani e amici.

«E del resto da destra, più che silenzi, sono arrivati sostegni forti ed espliciti agli scalatori», continua Bassanini, «vedi il comportamento di Luigi Grillo, presidente della Commissione lavori pubblici del Senato».

Detto questo, però, Bassanini non si scandalizza per la critica di Montezemolo.

E ammette che i silenzi, a sinistra, ci sono stati.

Anzi, altro che silenzi.

D’Alema a Porta a porta ha parlato e si è schierato, quando si è lasciato sfuggire:

«Io sono per il mercato, ma l’Italia non può avere solo filiali».

Ora Bassanini replica: «A un’opa si deve rispondere con un’altra opa, non rastrellando azioni con operazioni poco trasparenti che alla fine danneggeranno i piccoli azionisti e faranno guadagnare i soliti noti».

Su questi temi il Corriere ha da tempo chiesto un’intervista a Massimo D’Alema, ma per ora non ha ricevuto risposta.

A meno che... A meno che la pista rossa – si sussurra nei palazzi della politica – non sia un’invenzione centrista, un complotto anti-Ds messo in circolo da Della Valle e Montezemolo, con alle spalle Francesco Rutelli...

La pista B.


Ma a proposito di opa, se davvero, alla fine, arrivasse a lanciare un’offerta pubblica d’acquisto su Rcs, allora Ricucci darebbe l’innesco a una rivoluzione.

Il patto di sindacato sarebbe sciolto e ognuno correrebbe per sé. Funzionerà la clausoletta salvacalabrone?

Certo che a quel punto i soldi necessari sarebbero davvero tanti e piste diverse, allora, potrebbero arrivare a sommarsi.

E potrebbe magari palesarsi qualcuno che ha tanti soldi e tanta voglia di togliersi uno sfizio: fare finalmente i conti con quei rompiscatole del Corriere, sempre pronti a criticare il governo.

Di personaggi con tanti soldi (magari per aver appena venduto un 17 per cento di Mediaset, con un ricavo di 2,2 miliardi di euro) e con conti politici in sospeso con il quotidiano di via Solferino ce n’è uno solo in Italia, e si chiama Silvio Berlusconi.

A voler guardare, qualche piccolo indizio che porta alla pista B. si è già materializzato.

Nella lista stilata da Ricucci con i nomi per il consiglio d’amministrazione di Antonveneta nel caso fosse respinto lo straniero, compariva Ubaldo Livolsi:

oggi è consulente di Ricucci, però è noto che Livolsi, dopo essere stato manager di Berlusconi, è diventato finanziere in proprio ma sempre in un’area contigua al suo ex capo, tanto da essere membro del consiglio d’amministrazione di Fininvest.

E in questa storia fa capolino anche il banchiere napoletano Federico Imbert, responsabile per l’Italia di Jp Morgan, in affari con Fiorani e Gnutti oltre che con l’Unipol di Giovanni Consorte,

ma anche regista del collocamento del 17 per cento di Mediaset appena venduto da Berlusconi; il 25 maggio Imbert è stato ricevuto a Palazzo Chigi, secondo quanto annunciato da un comunicato della presidenza del Consiglio che non spiega i motivi della visita.

Soldi sporchi e avventurieri.

E così stiamo assistendo all’ennesimo arrembaggio lanciato contro il fragile capitalismo italiano.

In passato ci hanno provato in tanti, i Sindona, i Calvi, i Parretti... Anche allora circolavano le maldicenze su capitali misteriosi, i sussurri su affari sporchi.

E in qualche caso è emerso che i rapporti con la criminalità organizzata c’erano davvero.

I due più grandi banchieri privati italiani sono morti in circostanze misteriose, dopo crac clamorosi, lasciando scie di soldi che puzzavano di mafia.

Raul Gardini, con la Calcestruzzi, era diventato tecnicamente socio di Cosa nostra.

Salvatore Ligresti fu indagato (ma senza alcun risultato) «ai fini di un’eventuale proposta per l’applicazione di misure di prevenzione».

E il braccio destro di Berlusconi Marcello Dell’Utri non è stato forse condannato a nove anni in primo grado per i suoi rapporti con la mafia?

La storia italiana è fatta così. In queste storie del passato molti avevano abbozzato, altri si erano opposti, qualcuno ci aveva rimesso la vita.

«Sempre nei momenti di crisi entrano in campo capitali strani», comincia a ragionare un grande banchiere (anche lui: «Ma noi non ci siamo neanche visti»).

Grandi speculazioni in tempo di declino dell’industria, grandi capitali che tornano a casa grazie allo scudo fiscale.

Oggi, in più, c’è una novità radicale, anche rispetto alle brutte storie del passato: la crisi è strutturale e non c’è più nessuno che possa fare barriera. Il grande capitalismo italiano è ridotto a utilities e immobiliare.

I vecchi equilibri sono saltati, non c’è più un Cuccia a fare il buttafuori e i nuovi arrivati spingono per entrare.

I barbari premono ai confini, vogliono essere accettati nei vecchi salotti buoni.

E con quali argomenti si può tenerli fuori? «In quei salotti stanno ormai signori che comandano senza avere i soldi.

Da dove attingono la loro legittimazione le Grandi Famiglie ormai in declino, o i banchieri che comandano senza aver mai messo una lira di tasca propria? In nome di che cosa vantano una supremazia morale?

Come possono dire a chi arriva con grandi capitali: voi non meritate di entrare?».

E allora che c’è di strano se qualcuno s’innamora dei barbari, della rude razza padana, poi della rude razza romana, animal spirits senza storia e senza cultura, ma vitali e solvibili?

Ne subisce il fascino anche Massimo D’Alema, uno che a Milano si trova a disagio e per questo ci viene raramente, che nei suoi salotti si sente in imbarazzo, che non ama i «poteri forti», così privi di ogni deferenza verso la politica.

Certo, una volta la sinistra lanciava i «patti tra i produttori» e alla rendita preferiva il profitto, l’industria alla finanza, non civettava con chi la produzione non sa che cosa sia ed è più interessato alla speculazione che all’innovazione e alla ricerca.

Ma le cose, evidentemente, cambiano.

Anche l’ex palazzinaro Berlusconi – come Ricucci passato in fretta dall’ago al milione, e poi dall’immobiliare alla tv e alla politica – in fondo non ama Milano, la Milano delle grandi banche e dei grandi giornali che l’ha sempre guardato con sufficienza.

Quando dice che l’80 per cento della stampa è comunista, non pensa certo all’Unità, ma al Corriere della sera, al Sole 24 ore.

E in un certo senso ha ragione: il capitalismo nobile non ha mai amato gli outsider; li ha sempre disprezzati e messi alla porta, magari dopo aver concluso con loro qualche vantaggioso affare.

Oggi tutto questo potrebbe saltare.

Una dozzina d’anni fa, la stagione chiamata Mani pulite è stata per un attimo, un attimo soltanto, anche egemonia culturale, possibilità di raddrizzare i conti dello Stato e i metodi degli affari.

«Allora qualcuno si è illuso che fosse possibile introdurre anche in Italia il capitalismo di tipo anglosassone, un capitalismo delle regole», continua a ragionare il banchiere.

«Oggi è chiaro che quel progetto è fallito».

I barbari hanno i loro circuiti offshore e i loro rappresentanti in politica, hanno tanti soldi e metodi spregiudicati.

Potrebbero sostituire del tutto un capitalismo nobile che, se mai c’è stato, ormai non c’è più.

Avrà ragione il banchiere pessimista?
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(Continua)

SINIBALDO
 

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