Alla cortese attenzione di Tashtego

Proprio a Francesca Barra di Matrix va l'oscar per l'incursione della settimana, appostata davanti a Palazzo Grazioli a tardissima sera. Dal portone esce un distinto signore con la pipa, lei si avventa chiedendo se c'è stata la scissione nel Pdl e lui le risponde che è un semplice inquilino del Palazzo.
 
Durante quasi tutta la storia moderna i due terzi della ricchezza prodotta è servita per pagare i salari mentre il terzo rimanente è andato in dividendi, affitti e altri redditi da capitale». Ma dal 2000 - quindi ben prima della crisi prodotta dal crollo di Wall Street del 2008 - le cose sono cambiate: «La quota del lavoro ha cominciato a calare stabilmente fino ad arrivare al 60 per cento, mentre i redditi da capitale sono cresciuti».
La causa, secondo Smith, va ricercata nella tecnologia: «In passato il progresso tecnico ha sempre aumentato le capacità dell'essere umano: un operaio con una motosega è più produttivo di uno che lavora con una sega a mano. Ma quell'era è passata. La nuova rivoluzione, quella dei computer e delle tecnologie digitali, riguarda le funzioni cognitive, non l'estensione delle capacità fisiche. E una volta che le capacità cognitive dell'uomo sono sostituite da una macchina, diventiamo obsoleti come i cavalli» nell'era del motore a vapore.
IL CENTRO DI SCIENZA E TECNOLOGIA DI GUIZHOU Ancora più interessante, forse, l'analisi di un altro docente del Mit di Boston, David Autor, dai cui studi emerge che i computer, capaci di sostituire anche lavoratori con mansioni piuttosto complesse, ma con una elevata componente di routine , lasciano all'uomo i mestieri non routinari che sono essenzialmente di due tipi: «In alto ci sono i lavori astratti, quelli che richiedono intuito, creatività, capacità di persuadere e risolvere problemi. Sono i lavori di manager, scienziati, medici, ingegneri, designer.
Dall'altro lato troviamo i lavori manuali che richiedono interazioni, capacità di adattamento e osservazione, saper riconoscere un linguaggio: preparare un pasto, guidare un camion in città, pulire una stanza d'albergo. Questi lavori non vengono sostituiti dai computer, ma non richiedendo grosse competenze professionali, in genere sono pagati poco. Meno di molti mestieri spariti con l'automazione.
Un processo tutt'altro che esaurito con i robot al lavoro nelle fabbriche di tutto il mondo che ormai si contano in milioni. Un recente e dettagliatissimo studio della Oxford University che ha esaminato in profondità, uno per uno, 72 settori produttivi, giunge alla conclusione che quasi la metà dei lavori ancora svolti dall'uomo (il 47 per cento, per la precisione) verrà prima o poi sostituito dalle macchine.
Più ottimista di Gordon, che teme un futuro di disoccupazione di massa, Autor pensa che il mercato del lavoro si allargherà comunque a nuove attività che oggi non immaginiamo: la computerizzazione della società potrebbe anche non ridurre il numero complessivo dei posti di lavoro, ma ne degraderà la qualità (e quindi il reddito). Le sue conclusioni, alla fine, non sono molto diverse da quelle di Cowen: crescente polarizzazione dei salari, divaricazione abissale tra le classi sociali.
Come evitare questa trappola? Dovrebbe essere questa la sfida alla quale i politici dedicano la maggiore attenzione. Invece, scrive sul «New York Times», Stephen King (il capo economista del gigante bancario Hsbc, non lo scrittore, anche se le sue analisi, ironizza qualche suo collega, sono da romanzi horror), «i governi si limitano a pregare perché arrivi una forte ripresa: preferiscono optare per l'illusione perché la realtà è troppo cupa».
Per adesso a «sporcarsi le mani» col tentativo di individuare soluzioni sono soprattutto gli economisti. Con risultati non entusiasmanti. Quelli di idee progressiste non credono che un aumento delle disparità sia alla lunga sostenibile e temono per la tenuta delle democrazie, a differenza di Cowen che prevede un adattamento all'ineluttabile in un mondo che non si ribellerà e, anzi, sarà sempre più conservatore (come conservatori sono, già oggi, gli Stati Usa più poveri, non i più ricchi).
Noah Smith vuole stimolare la moltiplicazione delle piccole aziende per rendere il maggior numero possibile di lavoratori imprenditori di se stessi e immagina un meccanismo di compensazione del trasferimento di ricchezza dalla manodopera alle imprese: un portafoglio di azioni di società quotate da consegnare a ogni cittadino al compimento del diciottesimo anno. Una sorta di polizza assicurativa per proteggere l'individuo dall'impatto dei robot sul mercato del lavoro.
moretti geografia lavoro Autor pensa, invece, ad uno sforzo per estendere il raggio dei mestieri che richiedono intuito e discrete capacità professionali - dall'infermiera capace anche di aggiornare la terapia di un diabetico agli idraulici e gli elettricisti capaci di ridisegnare una rete - in modo da ricreare uno spazio intermedio per un ceto di quelli che chiama i «nuovi artigiani».
Altri, come il tecnologo-visionario Jaron Lanier, pensano a una redistribuzione della ricchezza prodotta dalla civiltà di Big Data : i grandi gruppi dell'economia digitale, che mettono da parte ricchezze immense grazie alla loro capacità di accumulare e analizzare un volume enorme di informazioni, dovrebbero effettuare micropagamenti con meccanismi automatici a tutti noi quando utilizzano i dati che immettiamo in Rete.
Tutte idee intelligenti, che cercano di immaginare un riequilibrio basato, per quanto possibile, su meccanismi di mercato, ma che difficilmente possono essere risolutive. La sfida della politica è proprio questa: in fondo, quando mezzo secolo fa si immaginava un mondo nel quale avremmo lavorato poche ore alla settimana, si dava per scontato che le macchine avrebbero sostituito l'uomo, ma si pensava anche che dei frutti della loro maggior produttività avrebbero beneficiato più o meno tutti.
All'inizio del XXI secolo il problema è ancora quello: favorire una redistribuzione almeno parziale senza ricadere nel dirigismo e negli eccessi di statalismo le cui ustioni sono ben visibili sulla pelle delle società occidentali, specie quella italiana.
 
Caro Lensi,
la richiesta di Marco Pannella di ricordare Giovanni Paolo II, non coi manifesti celebrativi ma con un gesto concreto, nobile e giusto, mi sembra doverosa e bella. Conosci le mie opinioni e sai che sono spesso distanti da alcune delle battaglie storiche che Marco Pannella ha condotto e conduce. Ma sono pronto, nel mio piccolo, a fare la mia parte perchè la sete di giudtizia che anima il leader radicale trovi una fonte soddisfacente. Aderisco, allora, alla battaglia di Pannella per l'amnistia, impegno morale, civile sociale della comunità italiana.
Un caro saluto
Matteo Renzi
Ah, il tempo che passa. A questo punto, voi direte: «Ma Renzi ha detto che non bisogna fare un'altra amnistia dopo quella del 2006, mica che è pregiudizialmente contrario». Ebbene, non è passato molto tempo, invece, dal dicembre 2012, quando Renzi, insieme ad Enrico Rossi, scriveva a Marco Pannella:
napolitano poggioreale Le tue richieste sono giuste e legittime, nella loro immediatezza oltre che nel loro contenuto."
Da dieci giorni seguiamo con seria preoccupazione i bollettini medici sul tuo stato di salute e proprio per questo vogliamo farci carico della lotta per l'amnistia, per la giustizia e per la libertà, per il ripristino della legalità e del rispetto della dignità all'interno delle nostre carceri, per interrompere una violenza che riguarda tutti i cittadini, non solo i detenuti; per ristabilire i principi della Costituzione, depredati nella loro completezza laddove prevedono che le pene non possano consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e ne sancisce la funzione rieducativa; convinti che laddove siano stati violati o ignorati dei diritti, laddove venga meno la legalità, lo stato di diritto, esista anche, e tu lo sai bene, strage di popoli.
BEPPE GRILLO DAL TRENO Con grande apprensione e la piena solidarietà, da oggi introdurremo nelle nostre priorità istituzionali le necessarie misure affinché si possa limitare e riparare al collasso della giustizia e della sua appendice ultima delle "catacombe" carcerarie, luoghi di sofferenze atroci, di tortura e di morte quotidiana.
Armati di nonviolenza, con i nostri corpi, con il ruolo che ricopriamo, intraprenderemo, a staffetta, uno sciopero della fame, sperando, con forza e caparbietà, che il Parlamento italiano conceda un provvedimento di amnistia e si attivi con atti urgenti per porre rimedio all'emergenza carceraria, al vergognoso sovraffollamento delle nostre strutture penitenziarie, non come soluzione ma come punto di partenza per una riforma strutturale della giustizia, con misure alternative alla carcerazione, in primis per i tossicodipendenti.
BEPPEGRILLO Il testo è tratto da una lettera aperta a Marco Pannella scritta dal consigliere regionale della Toscana Enzo Brogi. Tra le prime adesioni quelle del presidente della Regione Toscana Enrico Rossi, del sindaco di Firenze Matteo Renzi, del consigliere regionale Marco Taradash, di Sergio Staino, Alessandro Benvenuti e dei cantanti Dolcenera e Erriquez (Bandabardò). E insomma: all'epoca Renzi prometteva anche uno sciopero della fame. O tempora, o mores.
 
Corpi tumulati senza un funerale, per la disperazione dei parenti. Palazzo Chigi che non risponde alla richiesta della sindaca di Lampedusa, Giusi Nicolini, sulla data e l'organizzazione dei funerali solenni promessi da Enrico Letta durante la visita del 9 ottobre. E poi l'arrivo improvviso sull'isola dell'ambasciatore eritreo in Italia, con due funzionari che avvicinano i 155 eritrei scampati al naufragio, e che molto probabilmente chiederanno asilo politico nel nostro Paese, con il rischio che i loro nomi e cognomi finiscano in mano al regime di Asmara dal quale sono disperatamente fuggiti. Episodio che fa il paio con l'incontro avvenuto ieri tra Cécile Kyenge e i sostenitori del governo dittatoriale dell'Eritrea.
Nicolini riassume tutto questo con una frase amarissima: "A Lampedusa il governo è sparito". Costretta a letto dalla febbre alta, probabile frutto della stanchezza accumulata in queste settimane durissime, la prima cittadina ieri ha twittato il suo stupore:
Qualcuno ha poi voluto ritwittare quel messaggio al presidente del Consiglio, senza però ricevere risposta - pubblica o privata. Palazzo Chigi non risponde nemmeno ai tentativi dell'HuffPost, al Viminale allargano le braccia: "Non siamo noi a disporre i funerali solenni", compito che spetta secondo il protocollo all'Ufficio del cerimoniale: "Dovevamo però portare via le 373 bare dall'isola per questione di igiene pubblica". E sempre per motivi sanitari saranno interrate, moltissime soltanto con un numero identificativo.
Non tutte però troveranno posto nei cimiteri dell'Agrigentino e di altri Comuni siciliani disponibili ad accogliere - anche temporaneamente - i feretri: in questi giorni 80 salme sono state tumulate nel cimitero Piana Gatta di Agrigento, altre 70 sono state disseminate nei camposanti della provincia e sepolte, riportano i quotidiani locali, con una breve preghiera cattolica. Lontani dai parenti, in prevalenza cristiano-ortodossi e musulmani.
"È inaudito. Quell'annuncio dei funerali di Stato ha creato soltanto confusione", commenta parecchio indignato don Mosé Zerai, sacerdote presso il Vaticano e fondatore dell'agenzia Habeshia ormai diventato un punto di riferimento per gli eritrei in esilio in Italia, al punto che spesso è lui a ricevere gli Sos dai barconi carichi di suoi connazionali che tentano di attraversare il Mediterraneo. Ed è lui, in queste settimane, a ricevere e smistare le continue telefonate dei famigliari dei naufraghi che dalle città europee e americane, ma anche dall'Eritrea, chiedono notizie sui loro defunti. "Come comunità eritrea siamo veramente stupiti dal modo nel quale il governo italiano sta gestendo questa situazione".
Il primo pensiero di don Zerai va ai cadaveri senza funerale: "Un'offesa alle vittime e ai loro famigliari. Poiché ci aspettavamo esequie solenni, abbiamo consigliato ai parenti in lutto di non organizzare funerali privati ma di attendere. E invece ora hanno disseminato le bare in molti posti della Sicilia, rendendo difficilissimo il compito di coloro che devono ancora identificare i loro morti. A chi dovranno rivolgersi questi poveretti per poter capire su quale bara devono piangere?".
Il sacerdote eritreo dice di avere spedito una lettera a Enrico Letta e Emma Bonino, senza ricevere risposta alle sue domande. E questa mattina verrà ricevuto dalla Commissione esteri della Camera nella speranza di capire cosa succederà nei prossimi giorni. L'idea del religioso è quella di impegnare le istituzioni italiane a farsi carico del trasporto delle salme in Eritrea, a prescindere dal fatto che alla fine molte non avranno un nome, tranne quei corpi che i famigliari esuli vorranno seppellire nella nuova patria.
Ad attendere la soluzione del mistero sulla celebrazione funebre promessa da palazzo Chigi non sono soltanto genitori, sorelle, fratelli e cugini dei morti di Lampedusa, molti dei quali residenti negli Stati Uniti, in Canada e in Europa, ma anche vescovi e sacerdoti di fede ortodossa - la fede religiosa più diffusa in Eritrea, insieme all'Islam - che dall'America e dalla stessa Eritrea sono pronti a concelebrare quel funerale importante.
Comunque sia, il destino di quei feretri rimane incerto. L'ambasciata eritrea si è offerta di rimpatriare le salme identificate con certezza come eritree, e in questo scenario si inscrivono altre due stranezze che ben raccontano la confusione del governo. Da giorni infatti passeggiano per Lampedusa due funzionari dell'ambasciata eritrea in Italia, ufficialmente sull'isola per dare conforto e aiuto ai parenti dei morti in mare, nonostante quei morti siano fuggiti proprio dal pugno di ferro del regime di Asmara e una legge imponga ai famigliari degli esuli il pagamento di una multa salata come punizione.
Secondo fonti del Comune, i diplomatici avrebbero addirittura chiesto di entrare nel centro di accoglienza dove vivono ammassati i superstiti del naufragio del 3 ottobre e, non avendo ricevuto il via libera, tentano di avvicinarli lungo le strade di Lampedusa chiedendone nome e cognome, oppure scattando loro delle foto. Dati che molto facilmente finiranno negli elenchi del governo eritreo.

Il 14 ottobre è poi arrivato, senza che la sindaca ne fosse informata, l'ambasciatore eritreo Zemede Tekle Woldetatios. In mancanza di un protocollo né un avviso da parte del ministero degli Esteri o dalla Prefettura, però, la sindaca Giusi Nicolini non ha potuto incontrarlo.
 
Percepiamo 12 mila euro al mese, ma siamo preoccupati per il nostro futuro". A casa Ripa di Meana si teme la crisi. In un'intervista a Quinta Colonna, il talk show di rete 4, Carlo e Marina Ripa di Meana si fanno i conti in tasca: "Anche per noi la vita è cambiata con la crisi” – afferma Marina Ripa di Meana – “ma da buoni Italiani, abbiamo un notevole spirito di adattamento. Non ci spariamo in fronte, eh. Non siamo di quelli che piangono tutto il giorno e dicono: “Oddio, la crisi”. Però ci rendiamo conto che c’è”.

"Non abbiamo più la Mercedes" - Così ecco come è cambiata la vita di Marina e Carlo: “In questa casa prima avevamo tre utenze telefoniche, ora ne abbiamo una. Avevamo due macchine, di cui una importante, una Mercedes. Ora abbiamo una piccola Panda e un motorino. I viaggi vengono molto contenuti, idem le vacanze”. E’ Carlo Ripa di Meana a precisare la condizione economica attuale della coppia: “Per due legislature sono stato deputato europeo e percepisco una sola pensione da europarlamentare, 2.800 euro al mese. Per la seconda non versai i contributi. Ho anche un’altra pensione come commissario europeo” – continua – “di cui usufruisco, e che considero la fonte migliore del mio reddito di pensionato: circa 6mila euro al mese. La pensione europea, a differenza di quella di un parlamentare italiano, è esentasse”.

Vitalizi sostanziosi - L’ex portavoce dei Verdi riceve anche un’altra pensione di 600-700 euro per i suoi anni iniziali di attività politica. E altre due pensioni come consigliere regionale: circa 2mila euro al mese. “In tutto percepisco 12mila euro al mese”, rivela Carlo Ripa di Meana. “Carlo ha 85 anni e vive di queste pensioni” – ci tiene a puntualizzare Marina – “Chi ha lavorato tanto nella vita, come ha fatto lui, e ha lavorato per gli Italiani e per l’Europa, giustamente deve avere anche delle pensioni adeguate”. E ancora: “Io prendo meno di 1000 euro al mese, pur essendomi occupata per quasi 35 anni di moda. Ecco perché insisto sempre sul fatto che la televisione mi debba pagare quando vengo ospitata. Poi mi telefonano continuamente e mi dicono di fare beneficenza. Non si può fà beneficenza, la devono fare a me! Confesso che in certi casi mi preoccupo anche del mio avvenire”
 

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