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Arroganza nazionale
di Marco Lillo
La moglie, il fratello, la cognata e il segretario di Gianfranco Fini. Tutti nel business della sanità. Finché non scoppia una lite per soldi e palazzi
Nella hit parade delle intercettazioni celebri sta per balzare in testa alla classifica Daniela Di Sotto. Al confronto il ritornello sui "furbetti del quartierino" del vecchio Ricucci impallidisce. La moglie di Gianfranco Fini incide il suo hit sul nastro della Polizia di Potenza alle ore 20 del 19 aprile 2005: «Io sono andata a sbattermi il culo con Storace». Scioccato da tanta schiettezza, il pm Henry John Woodcock ha piazzato su questa frase un omissis. "L'espresso" invece la pubblica integralmente perché è significativa per capire gli affari di rilevanza pubblica di cui parlano al telefono Daniela Fini e il segretario di suo marito Francesco Proietti, detto Checchino, oggi deputato.
A differenza delle altre nove volte nelle quali la moglie e il braccio destro dell'ex vicepremier ricorrono alla stessa parola nel corso della telefonata, qui non c'è omissis che tenga. Lo "sbattimento" di Daniela con Storace ha prodotto una convenzione per la clinica della famiglia Fini. Secondo il pubblico ministero Henry John Woodcock: «Francesco Proietti e Daniela Di Sotto (nome da nubile della signora Fini, ndr) fanno esplicitamente cenno all'interessamento profuso dalla Daniela Di Sotto presso Francesco Storace - all'epoca dei fatti presidente della Regione Lazio - affinché la clinica Panigea operasse in regime di convenzione l'esecuzione di esami clinici (Tac e risonanza magnetica) particolarmente costosi». Attenzione ai tempi: la richiesta di convenzione della Panigea porta la data dell'11 febbraio, il parere favorevole della Asl è del 14, la delibera della giunta (che due mesi dopo andrà a casa) è del 18, alla faccia della burocrazia regionale.
La telefonata intercettata è dell'aprile 2005. Daniela Fini e Proietti dovrebbero brindare per i futuri incassi e invece sono infuriati perché a beneficiare della convenzione prodotta dallo "sbattimento" non saranno loro due ma il loro socio di maggioranza. Si chiama Patrizia Pescatori e non è un socio qualunque: è la cognata di Gianfranco Fini. Patrizia Pescatori ha sposato Massimo Fini, un dottore che lavora dal 1986 per la Tosinvest di Giampaolo Angelucci ***(il re delle cliniche finito ai domiciliari in un'altra indagine dei pm di Bari lunedì scorso). Massimo Fini è il direttore sanitario dell'Istituto San Raffaele, la struttura più importante del gruppo Tosinvest che ha ceduto alla fine degli anni Novanta a sua moglie il centro Panigea, mantenendovi una piccola quota simbolica. La società che gestisce il Panigea (Poliambulatorio Cave Srl) fatturava nel 2004, già prima di avere l'accreditamento, ben 2 milioni e 300 mila euro all'anno. Più piccola invece la seconda struttura della premiata ditta Daniela&Checchino: la Emmerre 3000 srl. Si tratta di un centro fisioterapico che ha visto esplodere il suo fatturato dai 30 mila euro del 2002 ai 540 mila del 2004. Anche in questo caso l'accreditamento è arrivato grazie alla giunta Storace. Il centro infatti lo aveva perso a causa del crack della società che ne era titolare. La Asl Roma C ha però espresso parere favorevole al trasferimento dell'accreditamento dalla fallita alla società dei Fini (MR 3000 Srl) il 14 marzo 2003.
Nonostante gli affari vadano a gonfie vele per entrambe le società, le cognate litigano e vogliono separare le loro strade. I magistrati di Potenza descrivono così la situazione: «Socio di maggioranza del poliambulatorio Panigea è Patrizia Pescatori, la quale, al fine di acquisire l'intero controllo della struttura, propone di scambiare la quota da lei posseduta in Emmerre con le quote possedute da Daniela Fini e da Francesco Proietti in Panigea». Daniela e Checchino vogliono liberarsi della cognata ma «non intendono dismettere le loro quote in Panigea, investimento che ritengono particolarmente vantaggioso. Dal 2003, pur non comparendo ufficialmente quali soci, Proietti e Daniela Fini avrebbero investito in Panigea 100 mila euro pro capite, quota il cui valore sarebbe destinato a rivalutarsi nel tempo, proprio grazie al volume d'affari generato dalle prestazioni sanitarie effettuate in regime di convenzione». A mettere zizzania tra i due rami dei Fini è proprio la convenzione. Daniela si rammarica di avere faticato tanto per portare quattrini a una società nella quale è in maggioranza la cognata: «Lo sai qual è stato il nostro errore? Quando sono andata a sbattermi con Storace bisognava fare un'altra società a cui intestare le convenzioni della risonanza e della Tac». Che fare? Vendere no. «E che, ora che diventa il pozzo di San Patrizio te la do? 'A bella...!», dice Daniela parlando della cognata.
*** Qui c'è da aggiungere, come racconta don Verzè, che la valutazione della perizia [per il San Raffaele di Roma, fatto da don Verzè] è 201 miliardi. Alla notizia don Luigi sobbalza sulla poltrona: ne ha spesi 350. Anche secondo i suoi esperti - l'inglese Ricbard Ellis e la società American Appraisal, i migliori del mondo - il San Raffaele di Roma vale molto di più, 340 miliardi per gli inglesi, 330 per gli americani. Ma la risposta della Bindi è lapidaria: o 201 miliardi o niente. E le pressioni delle banche si fanno via via più iugulatorie.
Don Luigi è costretto a firmare un preaccordo per quella cifra, poiché l'unica alternativa sarebbe lasciar languire l'ospedale e licenziare 150 persone. Fra il preliminare e il contratto trascorrono due settimane, il tempo di convocare il consiglio d'amministrazione del San Raffaele. Mentre si attende l'ultimo atto, il telefono di don Luigi squilla e dall'altro capo del filo c'è Antonio Angelucci, un nome importante della sanità romana. La sua proposta è schietta: “Don Verzè, abbiamo saputo che la sua struttura di Roma è in vendita. Siamo interessati e vorremmo farle un'offerta: 270 miliardi compresi case e terreni sull'Appia Antica, Le vanno bene?”.
Anche se a prima vista sembra un intervento a orologeria, per un religioso dovrebbe chiamarsi Divina Provvidenza. Il consiglio d'amministrazione decide di non rinunciare a 69 miliardi in più (nessuno l'avrebbe fatto) e vota il sì agli Angelucci. Un ospedale, più 130 ettari di terreno a verde all'interno del raccordo anulare, più una villa sull'Appia Antica con 15.000 metri quadrati di parco: purtroppo la valutazione è sempre bassa rispetto al suo valore. E non è finita: il ministero, in possesso di una lettera di intenti, firmata non da don Verzè ma da un consigliere, denuncia il San Raffaele per comportamento contrattuale scorretto e minaccia una causa civile chiedendo il sequestro giudiziale dell'ospedale.
Di fronte all'ipotesi di cinque o sei anni d'attesa prima di una sentenza in Tribunale, il Consiglio della Fondazione accetta un accordo extragiudiziale: paga un indennizzo di sette miliardi al ministero e vende agli Angelucci.
Ricorda don Luigi: “Hanno comprato sapendo di poter rivendere”. Dopo sei mesi gli Angelucci rivendono il San Raffaele per 320 miliardi allo stesso ministero della Sanità che lo aveva valutato 201, con una plusvalenza secca di 50. Quarantotto ore prima delle elezioni regionali, Rosy Bindi, Piero Badaloni e Lionello Cosentino (assessore regionale alla Sanità diessino) annunciano alla stampa: “Finalmente si apre al pubblico una struttura sanitaria che era bloccata da tempo”.
Vero, ma bloccata da loro. C'è di più. Stiamo parlando di una struttura che, se non fosse stata palesemente osteggiata, avrebbe funzionato gratis, senza costringere lo Stato a sborsare 320 miliardi. Rimane in piedi una domanda: come mai per il ministero un ospedale vale 20 miliardi se a venderlo è don Verzè e ne vale 320 (sei mesi dopo) quando a venderlo è la famiglia Angelucci?
In fondo comprensibili visto che la famiglia si accollerà poi parte dei debiti dei DS:
"Nell'ottobre 2003 il segretario dei Ds, Piero Fassino, chiede alle banche creditrici il 50 per cento di sconto per saldare un cumulo di debiti pari a 88 milioni di euro. La proposta di transazione proviene dall'avvocato bolognese Luigi Serafini, liquidatore della Beta, la società che gestiva il patrimonio immobiliare dell'allora Pds.
Le banche accettano, a dicembre il piano di salvataggio prende il via e l'onere se lo assume Giampaolo Angelucci, proprietario di clini che ed editore, che acquista il 50,1 per cento dei debiti diessini. Circa 10 mila euro di sostegno arrivano ai Ds anche dalla Hopa di Chicco Gnutti, con il paradosso - scriveva Milano Finanza - che un po' di quei soldi "erano anche del premier Silvio Berlusconi, socio della finanziaria bresciana"
Semplice, no? tutto molto lineare ... e trasversale ...
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di Marco Lillo
La moglie, il fratello, la cognata e il segretario di Gianfranco Fini. Tutti nel business della sanità. Finché non scoppia una lite per soldi e palazzi
Nella hit parade delle intercettazioni celebri sta per balzare in testa alla classifica Daniela Di Sotto. Al confronto il ritornello sui "furbetti del quartierino" del vecchio Ricucci impallidisce. La moglie di Gianfranco Fini incide il suo hit sul nastro della Polizia di Potenza alle ore 20 del 19 aprile 2005: «Io sono andata a sbattermi il culo con Storace». Scioccato da tanta schiettezza, il pm Henry John Woodcock ha piazzato su questa frase un omissis. "L'espresso" invece la pubblica integralmente perché è significativa per capire gli affari di rilevanza pubblica di cui parlano al telefono Daniela Fini e il segretario di suo marito Francesco Proietti, detto Checchino, oggi deputato.
A differenza delle altre nove volte nelle quali la moglie e il braccio destro dell'ex vicepremier ricorrono alla stessa parola nel corso della telefonata, qui non c'è omissis che tenga. Lo "sbattimento" di Daniela con Storace ha prodotto una convenzione per la clinica della famiglia Fini. Secondo il pubblico ministero Henry John Woodcock: «Francesco Proietti e Daniela Di Sotto (nome da nubile della signora Fini, ndr) fanno esplicitamente cenno all'interessamento profuso dalla Daniela Di Sotto presso Francesco Storace - all'epoca dei fatti presidente della Regione Lazio - affinché la clinica Panigea operasse in regime di convenzione l'esecuzione di esami clinici (Tac e risonanza magnetica) particolarmente costosi». Attenzione ai tempi: la richiesta di convenzione della Panigea porta la data dell'11 febbraio, il parere favorevole della Asl è del 14, la delibera della giunta (che due mesi dopo andrà a casa) è del 18, alla faccia della burocrazia regionale.
La telefonata intercettata è dell'aprile 2005. Daniela Fini e Proietti dovrebbero brindare per i futuri incassi e invece sono infuriati perché a beneficiare della convenzione prodotta dallo "sbattimento" non saranno loro due ma il loro socio di maggioranza. Si chiama Patrizia Pescatori e non è un socio qualunque: è la cognata di Gianfranco Fini. Patrizia Pescatori ha sposato Massimo Fini, un dottore che lavora dal 1986 per la Tosinvest di Giampaolo Angelucci ***(il re delle cliniche finito ai domiciliari in un'altra indagine dei pm di Bari lunedì scorso). Massimo Fini è il direttore sanitario dell'Istituto San Raffaele, la struttura più importante del gruppo Tosinvest che ha ceduto alla fine degli anni Novanta a sua moglie il centro Panigea, mantenendovi una piccola quota simbolica. La società che gestisce il Panigea (Poliambulatorio Cave Srl) fatturava nel 2004, già prima di avere l'accreditamento, ben 2 milioni e 300 mila euro all'anno. Più piccola invece la seconda struttura della premiata ditta Daniela&Checchino: la Emmerre 3000 srl. Si tratta di un centro fisioterapico che ha visto esplodere il suo fatturato dai 30 mila euro del 2002 ai 540 mila del 2004. Anche in questo caso l'accreditamento è arrivato grazie alla giunta Storace. Il centro infatti lo aveva perso a causa del crack della società che ne era titolare. La Asl Roma C ha però espresso parere favorevole al trasferimento dell'accreditamento dalla fallita alla società dei Fini (MR 3000 Srl) il 14 marzo 2003.
Nonostante gli affari vadano a gonfie vele per entrambe le società, le cognate litigano e vogliono separare le loro strade. I magistrati di Potenza descrivono così la situazione: «Socio di maggioranza del poliambulatorio Panigea è Patrizia Pescatori, la quale, al fine di acquisire l'intero controllo della struttura, propone di scambiare la quota da lei posseduta in Emmerre con le quote possedute da Daniela Fini e da Francesco Proietti in Panigea». Daniela e Checchino vogliono liberarsi della cognata ma «non intendono dismettere le loro quote in Panigea, investimento che ritengono particolarmente vantaggioso. Dal 2003, pur non comparendo ufficialmente quali soci, Proietti e Daniela Fini avrebbero investito in Panigea 100 mila euro pro capite, quota il cui valore sarebbe destinato a rivalutarsi nel tempo, proprio grazie al volume d'affari generato dalle prestazioni sanitarie effettuate in regime di convenzione». A mettere zizzania tra i due rami dei Fini è proprio la convenzione. Daniela si rammarica di avere faticato tanto per portare quattrini a una società nella quale è in maggioranza la cognata: «Lo sai qual è stato il nostro errore? Quando sono andata a sbattermi con Storace bisognava fare un'altra società a cui intestare le convenzioni della risonanza e della Tac». Che fare? Vendere no. «E che, ora che diventa il pozzo di San Patrizio te la do? 'A bella...!», dice Daniela parlando della cognata.
*** Qui c'è da aggiungere, come racconta don Verzè, che la valutazione della perizia [per il San Raffaele di Roma, fatto da don Verzè] è 201 miliardi. Alla notizia don Luigi sobbalza sulla poltrona: ne ha spesi 350. Anche secondo i suoi esperti - l'inglese Ricbard Ellis e la società American Appraisal, i migliori del mondo - il San Raffaele di Roma vale molto di più, 340 miliardi per gli inglesi, 330 per gli americani. Ma la risposta della Bindi è lapidaria: o 201 miliardi o niente. E le pressioni delle banche si fanno via via più iugulatorie.
Don Luigi è costretto a firmare un preaccordo per quella cifra, poiché l'unica alternativa sarebbe lasciar languire l'ospedale e licenziare 150 persone. Fra il preliminare e il contratto trascorrono due settimane, il tempo di convocare il consiglio d'amministrazione del San Raffaele. Mentre si attende l'ultimo atto, il telefono di don Luigi squilla e dall'altro capo del filo c'è Antonio Angelucci, un nome importante della sanità romana. La sua proposta è schietta: “Don Verzè, abbiamo saputo che la sua struttura di Roma è in vendita. Siamo interessati e vorremmo farle un'offerta: 270 miliardi compresi case e terreni sull'Appia Antica, Le vanno bene?”.
Anche se a prima vista sembra un intervento a orologeria, per un religioso dovrebbe chiamarsi Divina Provvidenza. Il consiglio d'amministrazione decide di non rinunciare a 69 miliardi in più (nessuno l'avrebbe fatto) e vota il sì agli Angelucci. Un ospedale, più 130 ettari di terreno a verde all'interno del raccordo anulare, più una villa sull'Appia Antica con 15.000 metri quadrati di parco: purtroppo la valutazione è sempre bassa rispetto al suo valore. E non è finita: il ministero, in possesso di una lettera di intenti, firmata non da don Verzè ma da un consigliere, denuncia il San Raffaele per comportamento contrattuale scorretto e minaccia una causa civile chiedendo il sequestro giudiziale dell'ospedale.
Di fronte all'ipotesi di cinque o sei anni d'attesa prima di una sentenza in Tribunale, il Consiglio della Fondazione accetta un accordo extragiudiziale: paga un indennizzo di sette miliardi al ministero e vende agli Angelucci.
Ricorda don Luigi: “Hanno comprato sapendo di poter rivendere”. Dopo sei mesi gli Angelucci rivendono il San Raffaele per 320 miliardi allo stesso ministero della Sanità che lo aveva valutato 201, con una plusvalenza secca di 50. Quarantotto ore prima delle elezioni regionali, Rosy Bindi, Piero Badaloni e Lionello Cosentino (assessore regionale alla Sanità diessino) annunciano alla stampa: “Finalmente si apre al pubblico una struttura sanitaria che era bloccata da tempo”.
Vero, ma bloccata da loro. C'è di più. Stiamo parlando di una struttura che, se non fosse stata palesemente osteggiata, avrebbe funzionato gratis, senza costringere lo Stato a sborsare 320 miliardi. Rimane in piedi una domanda: come mai per il ministero un ospedale vale 20 miliardi se a venderlo è don Verzè e ne vale 320 (sei mesi dopo) quando a venderlo è la famiglia Angelucci?
In fondo comprensibili visto che la famiglia si accollerà poi parte dei debiti dei DS:
"Nell'ottobre 2003 il segretario dei Ds, Piero Fassino, chiede alle banche creditrici il 50 per cento di sconto per saldare un cumulo di debiti pari a 88 milioni di euro. La proposta di transazione proviene dall'avvocato bolognese Luigi Serafini, liquidatore della Beta, la società che gestiva il patrimonio immobiliare dell'allora Pds.
Le banche accettano, a dicembre il piano di salvataggio prende il via e l'onere se lo assume Giampaolo Angelucci, proprietario di clini che ed editore, che acquista il 50,1 per cento dei debiti diessini. Circa 10 mila euro di sostegno arrivano ai Ds anche dalla Hopa di Chicco Gnutti, con il paradosso - scriveva Milano Finanza - che un po' di quei soldi "erano anche del premier Silvio Berlusconi, socio della finanziaria bresciana"
Semplice, no? tutto molto lineare ... e trasversale ...
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