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Anche qui salari più alti, per continuare a crescere
Uno studio della Banca di sviluppo asiatico smentisce il legame tra competitività e basso costo del lavoro. Anzi, ne raccomanda l'aumento: farebbe bene allo sviluppo
Joseph Halevi
Alcune settimane fa, il 27 aprile, l'Asian Development Bank (ADB) - l'istituzione diretta da un giapponese, con sede a Manila, cui partecipano i paesi asiatici, Stati Uniti, Canada, nonchè 13 paesi dell'Unione Europea, Svizzera e Turchia - ha presentato a Nuova Delhi un dettagliato rapporto sulla situazione occupazionale in Asia. L'importanza dello studio è sottolineata dalla pubblicazione da parte della nota casa editrice britannica Palgrave Macmillan (Labor Markets in Asia: Issues and Perspectives).
Il merito consiste nel cambiare completamente la prospettiva circa le cause che governano la crescita asiatica, in particolare di Cina e India. Finora la maggioranza degli economisti pensava che la dinamica sostenuta dei due più grandi paesi del pianeta dipendesse dal basso costo del lavoro.
In parte è vero. Infatti, purchè già esista una certa dimestichezza con l'industria - cosa assicurata dall'industrializzazione cinese degli anni '50 e in India dai piani quinquennali di Nehru e Indira Gandhi - una volta create le condizioni istituzionali e finanziarie, conviene produrre in tali paesi e riesportare verso i paesi ricchi. Solo che così facendo si indebolisce la domanda interna dei paesi avanzati; come gli Usa insegnano, le delocalizzazioni falcidiano i posti di lavoro buoni spingendo i lavoratori verso occupazioni precarie e mal pagate. Ne consegue che la sostenibilità della dinamica asiatica dipenderebbe da un marxiano «esercito industriale di riserva» (disoccupazione) che garantisce un regime di bassi salari.
Proprio questa connessione viene messa in discussione dalla ADB, la quale sostiene invece che un regime di bassi salari blocca la crescita. Viene avanzata anche la stima quantitativa che, se tale regime dovesse perdurare a lungo, la crescita di paesi come Cina ed India potrebbe abbassarsi al livello del 3% annuo contro il 9 e 6% odierni.
Il ragionamento è semplice ed è fondato sul ruolo dei salari nel creare domanda di beni e servizi.
I bassi salari impediscono la crescita della domanda per occupato e, dato che questi sono grandissimi paesi, vi è un limite all'espansione trainata dalle esportazioni. Secondo lo studio della ADB in Asia, su una forza lavoro complessiva di un miliardo e settecento milioni di persone, 500 milioni sono disoccupate e sottoccupate, cioè la bellezza del 30%. Viene sottolineato che l'aspetto più grave risiede nella formazione della forza lavoro occupata. In India, ad esempio. malgrado l'alto tasso di crescita registrato dalla metà degli anni '90, la percentuale di occupati nell'economia sommersa ed informale, ove dominano i bassi salari e la precarietà, è passata dall'80% del 1995 all'83% del totale non agricolo nel 2000. Ne consegue che la natura dell'accumualzione capitalistica in atto è tale che alla grande sottoccupazione agricola - il settore in India contiene ancora la maggioranza degli occupati - si aggiunge la dilagante sottoccupazione nel settori non agricoli e urbani che vanno sviluppandosi sotto i nostri occhi.
Il punto è che mentre l'accumulazione capitalistica attuale - coadiuvata dalle politiche dei governi - cambia le condizioni di vita nell'agricoltura, generando emigrazioni di massa soprattutto in Cina (per gli ultimi 12 anni le migrazioni interne avrebbero coinvolto oltre 150 milioni di persone, la più grande ondata migratoria nella storia) -- questa stessa accumulazione non crea sufficienti posti di lavoro per via della combinazione tra dinamica tecnologia e bassi salari. Secondo lo studio, questa combinazione è particolarmente grave in Cina. Per l'Asian Development Bank, negli anni '80 bastava un 3% di crescita del Pil per far aumentare l'occupazione di un punto in percentuale. Oggi lo stesso punto occupazionale in più lo si può ottenere solo se l'economia cresce dell'8%, che è appunto, grosso modo, la media della crescita cinese. In pratica ciò significa che l'espansione occupazionale in Cina viaggia sul filo del rasoio mentre i terremoti socieconomici nelle zone rurali - come la devolution fiscale attuata dal governo di Pechino per cui le zone povere, dove vive gran parte della popolazione, non hanno i proventi per finanziare i servizi sociali e le infrastrutture, riversano milioni di persone nelle città. Il rusultato è la formazione di un enorme esercito industriale di riserva che mantiene i salari ad un basso livello, cosa che - secondo l'ADB - bloccherà la crescita stessa.
I bassi salari emergono quindi come un vincolo fondamentale allo sviluppo vero e proprio di questi due immensi paesi, vincolo che si aggiunge a quello ormai difficilmente superabile del degrado ambientale cui è sottoposta la loro popolazione (si veda l'ottimo libro di Elizabeth Economy, The river runs black : the environmental challenge to China's future, Ithaca, Cornell University Press, 2004)
Uno studio della Banca di sviluppo asiatico smentisce il legame tra competitività e basso costo del lavoro. Anzi, ne raccomanda l'aumento: farebbe bene allo sviluppo
Joseph Halevi
Alcune settimane fa, il 27 aprile, l'Asian Development Bank (ADB) - l'istituzione diretta da un giapponese, con sede a Manila, cui partecipano i paesi asiatici, Stati Uniti, Canada, nonchè 13 paesi dell'Unione Europea, Svizzera e Turchia - ha presentato a Nuova Delhi un dettagliato rapporto sulla situazione occupazionale in Asia. L'importanza dello studio è sottolineata dalla pubblicazione da parte della nota casa editrice britannica Palgrave Macmillan (Labor Markets in Asia: Issues and Perspectives).
Il merito consiste nel cambiare completamente la prospettiva circa le cause che governano la crescita asiatica, in particolare di Cina e India. Finora la maggioranza degli economisti pensava che la dinamica sostenuta dei due più grandi paesi del pianeta dipendesse dal basso costo del lavoro.
In parte è vero. Infatti, purchè già esista una certa dimestichezza con l'industria - cosa assicurata dall'industrializzazione cinese degli anni '50 e in India dai piani quinquennali di Nehru e Indira Gandhi - una volta create le condizioni istituzionali e finanziarie, conviene produrre in tali paesi e riesportare verso i paesi ricchi. Solo che così facendo si indebolisce la domanda interna dei paesi avanzati; come gli Usa insegnano, le delocalizzazioni falcidiano i posti di lavoro buoni spingendo i lavoratori verso occupazioni precarie e mal pagate. Ne consegue che la sostenibilità della dinamica asiatica dipenderebbe da un marxiano «esercito industriale di riserva» (disoccupazione) che garantisce un regime di bassi salari.
Proprio questa connessione viene messa in discussione dalla ADB, la quale sostiene invece che un regime di bassi salari blocca la crescita. Viene avanzata anche la stima quantitativa che, se tale regime dovesse perdurare a lungo, la crescita di paesi come Cina ed India potrebbe abbassarsi al livello del 3% annuo contro il 9 e 6% odierni.
Il ragionamento è semplice ed è fondato sul ruolo dei salari nel creare domanda di beni e servizi.
I bassi salari impediscono la crescita della domanda per occupato e, dato che questi sono grandissimi paesi, vi è un limite all'espansione trainata dalle esportazioni. Secondo lo studio della ADB in Asia, su una forza lavoro complessiva di un miliardo e settecento milioni di persone, 500 milioni sono disoccupate e sottoccupate, cioè la bellezza del 30%. Viene sottolineato che l'aspetto più grave risiede nella formazione della forza lavoro occupata. In India, ad esempio. malgrado l'alto tasso di crescita registrato dalla metà degli anni '90, la percentuale di occupati nell'economia sommersa ed informale, ove dominano i bassi salari e la precarietà, è passata dall'80% del 1995 all'83% del totale non agricolo nel 2000. Ne consegue che la natura dell'accumualzione capitalistica in atto è tale che alla grande sottoccupazione agricola - il settore in India contiene ancora la maggioranza degli occupati - si aggiunge la dilagante sottoccupazione nel settori non agricoli e urbani che vanno sviluppandosi sotto i nostri occhi.
Il punto è che mentre l'accumulazione capitalistica attuale - coadiuvata dalle politiche dei governi - cambia le condizioni di vita nell'agricoltura, generando emigrazioni di massa soprattutto in Cina (per gli ultimi 12 anni le migrazioni interne avrebbero coinvolto oltre 150 milioni di persone, la più grande ondata migratoria nella storia) -- questa stessa accumulazione non crea sufficienti posti di lavoro per via della combinazione tra dinamica tecnologia e bassi salari. Secondo lo studio, questa combinazione è particolarmente grave in Cina. Per l'Asian Development Bank, negli anni '80 bastava un 3% di crescita del Pil per far aumentare l'occupazione di un punto in percentuale. Oggi lo stesso punto occupazionale in più lo si può ottenere solo se l'economia cresce dell'8%, che è appunto, grosso modo, la media della crescita cinese. In pratica ciò significa che l'espansione occupazionale in Cina viaggia sul filo del rasoio mentre i terremoti socieconomici nelle zone rurali - come la devolution fiscale attuata dal governo di Pechino per cui le zone povere, dove vive gran parte della popolazione, non hanno i proventi per finanziare i servizi sociali e le infrastrutture, riversano milioni di persone nelle città. Il rusultato è la formazione di un enorme esercito industriale di riserva che mantiene i salari ad un basso livello, cosa che - secondo l'ADB - bloccherà la crescita stessa.
I bassi salari emergono quindi come un vincolo fondamentale allo sviluppo vero e proprio di questi due immensi paesi, vincolo che si aggiunge a quello ormai difficilmente superabile del degrado ambientale cui è sottoposta la loro popolazione (si veda l'ottimo libro di Elizabeth Economy, The river runs black : the environmental challenge to China's future, Ithaca, Cornell University Press, 2004)