Cazzeggiando per il web,,ho incontrato queste news..

Scacco matto: l’acqua ai privati e vaccini e veleni nell’acqua

Cari amici di Stampa Libera (lo scrivo staccato il nome del sito così da permettervi di inviarne la mail anche se avete Libero, Fastweb o Infostrada senza che venga bloccata come spam), siamo davvero alla stretta finale; hanno deciso che é il momento di gestirci come animali parlanti o spegnerci e lo faranno senza recriminazione alcuna. Spero comprendiate ora il motivo di tanta determinazione nell’imporre l’acqua privata che non ha assolutamente argomentazioni di natura economica o di natura gestionale ma é il contollo di noi “esseri inferiori” a cui punta il potere. Capirete anche il motivo per cui i siti che divulgano simili notizie sono boicottati e vessati. Non possiamo rimanere passivi ancora; dobbiamo attivarci affinché tutti conoscano queste realtà. Alla fine quando avremo dato dimostrazione della nostra indipendenza intellettiva emergeranno fra noi nuovi capi che si sensibilizzeranno sull’argomento. Diversamente saranno anni bui con sofferenze enormi fra la popolazione. Già oggi Il Veneto, la regione cavia delle multinazionali della medicina e della chimica, spende il 61%del suo budget in spese sanitare. Ma i predoni del mondo non sono mai sazi non vogliono solo i nostri soldi ma il potere di gestirci a piacere.

[ame=http://www.youtube.com/watch?v=JB1W2b-GwW0&feature=player_embedded]YouTube - 1/2 Alex Jones - Bioingegneria nei Vaccini, Acqua e Cibo - Sub ITA[/ame]

[ame=http://www.youtube.com/watch?v=Fpms8wmFOBU&feature=related]YouTube - 2/2 Alex Jones - Bioingegneria nei Vaccini, Acqua e Cibo - Sub ITA[/ame]
 
Il 2010 come il 1938.

“Ecco la situazione: l’economia statunitense è rimasta bloccata dalla crisi finanziaria, le politiche del presidente hanno limitato i danni, ma sono state troppo prudenti, e la disoccupazione è rimasta alta in modo disastroso. Un intervento più deciso sarebbe chiaramente necessario. Eppure l’opinione pubblica guarda invelenita a qualsiasi azione del governo, e sembra avviata ad infliggere ai democratici una dura sconfitta nelle elezioni di medio termine.”

Il presidente in questione è Franklin Delano Roosevelt, l’anno è il 1938.

Nel giro di pochi anni, naturalmente, la Grande Depressione sarà finita. Ma è istruttivo e nello stesso tempo scoraggiante guardare allo stato dell’America nel 1938 – istruttivo perché la natura della ripresa che seguì contraddice gli argomenti che oggi dominano il pubblico dibattito – scoraggiante perché è difficile che si possa ripetere qualcosa di simile al miracolo del 1940.

Ora, noi non avremmo dovuto ritrovarci a rivivere gli ultimi anni ’30. Gli economisti del Presidente Obama avevano promesso di non ripetere gli errori del 1937, quando Franklin Delano Roosevelt ritirò troppo presto gli stimoli fiscali. Ma con il suo programma troppo ridotto e troppo breve, il signor Obama ha fatto proprio questo: lo stimolo ha portato crescita finché è durato, ma ha ridotto solo di poco la disoccupazione – e adesso si sta spegnendo.

E proprio come alcuni di noi temevano, l’inadeguatezza del piano economico iniziale dell’amministrazione l’ha condotta – insieme alla nazione – in una trappola politica. Un maggiore stimolo è assolutamente necessario, tuttavia agli occhi del pubblico il fallimento del programma iniziale di ripresa ha screditato l’azione del governo volta a creare posti di lavoro.

In breve, benvenuto il 1938.

La storia del 1937, della disastrosa decisione di Roosevelt di ascoltare chi diceva che era tempo di tagliare il deficit, è ben nota. Qual che è meno noto è che la pubblica opinione trasse le conclusioni sbagliate dalla recessione che seguì: lungi dal richiedere una ripresa dei programmi del New Deal, gli elettori persero la fiducia nella espansione fiscale.

Consideriamo i sondaggi Gallup da marzo 1938. Alla domanda se la spesa pubblica dovesse essere aumentata per combattere la crisi, il 63 per cento degli intervistati rispose di no. Alla domanda se fosse meglio aumentare la spesa o tagliare le tasse sugli affari, solo il 15 per cento era favorevole alla spesa, mentre il 63 per cento preferiva i tagli fiscali. E il 1938 fu un disastro elettorale per i democratici, che persero 70 seggi alla Camera e sette al Senato.

Poi venne la guerra.

Da un punto di vista economico la seconda guerra mondiale fu, soprattutto, una raffica di spesa pubblica finanziata in deficit, in una misura che non sarebbe mai stata approvata altrimenti. Nel corso della guerra il governo federale prese in prestito un importo pari a circa il doppio del valore del PIL del 1940 – l’equivalente di circa 30.000 miliardi dollari di oggi.

Se qualcuno avesse proposto di spendere anche solo una frazione di quella cifra prima della guerra, la gente avrebbe detto le stesse cose che si dicono oggi. Avrebbero messo in guardia circa il collasso del debito e l’inflazione galoppante. Avrebbero anche detto, giustamente, che la depressione era in gran parte causata da un eccesso di debito – e avrebbero anche dichiarato che era impossibile risolvere questo problema mediante l’emissione di ancora più debito.

Ma sapete una cosa? I deficit spending crearono un boom economico – e il boom ha gettato le basi per una prosperità di lungo periodo. Il debito complessivo dell’economia – pubblico e privato – di fatto diminuì in percentuale del PIL, grazie alla crescita economica e, sì, anche a un po’ di inflazione, che ridusse il valore reale del debito non ancora rimborsato. E dopo la guerra, grazie alla migliorata posizione finanziaria del settore privato, l’economia fu in grado di prosperare senza continuare col deficit.

La morale economica è chiara: quando l’economia è profondamente depressa, le regole ordinarie non si applicano. L’austerità è autodistruttiva: quando tutti nello stesso tempo cercano di ripagare il debito, il risultato è la depressione e della deflazione, e i problemi del debito crescono ancora peggio. E viceversa, è possibile – anzi, necessario – per la nazione nel suo insieme trovare una via d’uscita dal debito: un aumento temporaneo del deficit spending, su una scala sufficiente, è in grado di curare i problemi causati dagli eccessi del passato.

Ma la storia del 1938 mostra anche come sia difficile applicare tali intuizioni. Anche sotto FDR, non c’è mai stata la volontà politica di fare ciò che era necessario per porre fine alla Grande Depressione, e la risoluzione finale è arrivata essenzialmente per caso.

Avrei sperato che questa volta avremmo fatto di meglio. Ma si scopre che i politici e gli economisti in questi decenni trascorsi hanno dimenticato le lezioni del 1930, e sono determinati a ripetere tutti gli errori passati. Ed è un po’ nauseante rendersi conto che i probabili vincitori delle elezioni di medio termine saranno proprio coloro che prima ci hanno messo in questo pasticcio, e poi hanno fatto tutto ciò che era in loro potere per bloccare l’azione necessaria a tirarcene fuori.

Ma ricordiamoci sempre: questa crisi può essere curata. Tutto ciò che ci vuole è un po’ di chiarezza intellettuale, e molta volontà politica. Speriamo di trovare queste virtù in un futuro non troppo lontano.
 
Troppo grandi per fallire ? Forse ora tocca a Citigroup


La buonanima di mio padre mi ripeteva sempre che le bugie hanno le gambe corte. Detto fatto, anche la pantomima degli stress test - che contestiamo nel merito ormai da settimane - è crollata come un castello di sabbia. L'altro giorno la denuncia al riguardo del Wall Street Journal ha affossato i titoli bancari in Europa come negli Usa, trascinando al ribasso gli indici e facendo tornare di drammatica attualità la situazione di Citigroup, ancora in lotta con il punto di resistenza della prezzatura del titolo sotto pesante attacco di short: per molti analisti la prossima "too big to fail" a raggiungere Lehman potrebbe essere proprio lei.

D'altronde, cari lettori, come fidarsi e come orientarsi in un mondo in cui sia le banche che i regolatori chiamati a metterle sotto stress dicono bugie: non contabilizzano le posizioni short da coprire, non danno evidenze reali sulle esposizioni sovrane, mettono a bilancio assets assolutamente inutili in una situazione di stress. Lo diciamo da almeno due settimane, in tutte le lingue e lo abbiamo ripetuto anche martedì. Ora che in contemporanea lo ha certificato anche il Wall Street Journal e non solo Ilsussiadiario.net e quel catastrofista del sottoscritto, forse, la gente comincerà a crederci. E a vedere le banche e le istituzioni Ue per ciò che sono.

La Core Tier 1 ratio delle principali banche europee, tutte promosse tranne nove avendo superato l'asticella del 6, non supera in realtà l'1,7-1,9 per cento. Di più, i veri stress test che stanno conducendo le aziende private e che l'Ue sarà costretta a mettere in cantiere se non vorrà vedere concretizzarsi una sell-off pericolosissima dei titoli bancari, dovrà infatti prevedere il livello di 9 per la Core Tier 1, ovvero il 6 di prammatica più un 3 per cento denominato di "riserva cuscinetto" in caso di worst case scenario. La realtà, piaccia o non piaccia ai banchieri e ai cosiddetti regolatori, è questa. Punto.

Ma non solo le banche e la Borsa ci danno dei grattacapi e prefigurano un ulteriore periodo di difficoltà, anche i dati macro che il mese scorso avevo fatto stappare lo champagne a Jean-Claude Trichet. L'indice degli ordinativi industriali tedeschi, infatti, è sceso inaspettatamente del 2,2 per cento rispetto al dato di giugno, segno di un ripresa lentissima nell'eurozona e del fatto che il boom dell'export di Berlino ha già perso il suo momentum: quando noi parlavamo di contingenze favorevoli e non di crescita solida e strutturale venivamo tacciati di miopia pessimistica. Ecco a voi il responso dell'oculista del mercati!

Lo sperato decouple tedesco rispetto alla situazione dell'economia globale era solo un sogno della signora Merkel, alla quale ora converrà stare con gli occhi bene aperti visto che in luglio, dopo tre mesi di crescita, anche l'export è sceso dell'1,5 per cento da giugno. Un dato di normalizzazione dopo un trimestre turbo, certo ma che se inserito in un contesto europeo a forte rischio recessivo da qui a fine anno potrebbe accelerare il processo di Ue a due velocità, visto che per reggere il peso di un'unione da tenere insieme a tutti i costi la Germania dovrebbe accettare un periodo nemmeno troppo breve di inflazione al 5 per cento.

Chi ha già perso il sonno, sono invece i mille dipendenti della Johnny Walker in Scozia, licenziati dalla sera alla mattina (e se si licenzia nell'industria del whisky proprio nella sua patria natia, c'è poco da stare allegri) e in cui potrebbero cascare presto i 10mila dipendenti di Connaught, azienda legata al settore immobiliare, che ieri ha bloccato la trattazione del suo titolo sull'indice Ftse 100 della Borsa di Londra e che ha detto a chiare lettere di essere sull'orlo del collasso. Insomma, è "main street" a piangere, non i "fat cats" della City. E questa realtà porta con sé un rischio enorme non calcolabile da analisti e indici: quello di instabilità sociale.

Anzi, nel caso della Grecia, addirittura di “guerra civile” per usare le parole esatte pronunciate dal direttore del prestigioso IFO Institute di Monaco, il professor Hans-Werner Sinn, al Workshop Ambrosetti di Cernobbio. Per Sinn, «questa tragedia non ha una soluzione. La politica di "svalutazione interna" forzata, la deflazione e la depressione potrebbero portare con sé il rischio di una Grecia in bilico verso un clima da guerra civile. E' impossibile tagliare gli stipendi e i prezzi del 30 per cento senza mettere in preventivo scontri di piazza. Si sarebbe dovuto lasciar andare la Grecia in bancarotta senza misure di salvataggio. Tutte le altre alternative sono terribili ma la meno peggio era quella di vedere quel paese fuori dall'eurozona, anche se questo avrebbe distrutto le banche greche. La Grecia avrebbe dovuto andare in default nel periodo tra il 28 aprile e il 7 maggio, senza vedersi promettere denaro dall'Ue».

Ma, soprattutto, il fatto di non prevedere nel piano di salvataggio un haircut per le banche, si è trasformato in un invito per le stesse al moral hazard, la madre di tutte le cause di questa crisi. Per Sinn, «dovrebbe esserci una procedura di quasi insolvenza per le nazioni. I creditori devono accettare un haircut prima che un solo centesimo arrivi nei piani di salvataggio, altrimenti non avremo mai una disciplina del debito nell'eurozona. Siamo onesti, oggi siamo in pieno nella seconda ondata di crisi greca». In effetti, c'è poco da dar torto al cattedratico tedesco.

Nonostante gli ulteriori 80 miliardi di euro di nuovi prestiti al 5 per cento e i 30 offerti dell'Fmi, l'azione di sollievo dalla bufera dei mercati appare già finita come certifica lo spread sul debito governativo a lungo termine, tornato ai livelli della crisi con circa 800 punti base, dato che implica un alto rischio di default. Guarda caso, ieri il servizio statistico greco (Elstat) ha rivisto al ribasso anche la stima di crescita del secondo trimestre ellenico anno-su-anno, con un contrazione fino a giugno che ha toccato quota -3,7 contro il 3,5 preventivato mentre mese-su-mese la contrazione è stata del -1,8 contro l'1,5 stimato. Inoltre, tanto per unire danno alla beffa, la Grecia a tutt'ora non ha reso noto ai regolatori - in questo caso l'Ue - i dettagli completi delle operazioni finanziarie segrete poste in essere per cercare di tamponare la crisi del debito prima del rischio default dello scorso maggio.

A confermarlo ci ha pensato ieri Walter Radermacher, capo dell'agenzia di statistica Ue, Eurostat, secondo cui «ad oggi nessuno ha potuto visionare i documenti reali ma bisogna essere molto chiari con Atene e la sua logica passata di contratti opachi: ora siamo in una nuova era». Tanto più che la Grecia, profumatamente salvata a spese dei contribuenti Ue, è l'unico paese membro ad aver apertamente mentito rispetto l'uso di complessi contratti swap, visto che nel 2008 Eurostat chiese chiarimenti a tutti per compilare un report.

E tanto per restare in Europa e al blocco di debito che la fa tremare, oggi più di ieri, la decisione irlandese di estendere le garanzie sul sistema bancario e sui depositi ha fatto toccare allo spread sui decennali livelli mai conosciuti. D'altronde lo schema governativo di garanzia Nama aveva preventivato profitti per 2,4 miliardi di euro, mentre ora si parla chiaramente di perdite: una situazione che potrebbe vedere Anglo Irish Bank divenire l'agnello sacrificale per evitare un pericoloso effetto domino. Chiude il cerchio il Portogallo, paese che ieri ha consentito alle Borse - ancora deboli in apertura per le difficoltà del settore bancario - di virare in positivo a metà seduta grazie al successo dell'asta di bond lusitani per circa un miliardo di euro (661 milioni a scadenza 2013 e 378 a scadenza 2021), andata a gonfie vele e con richieste doppie rispetto all'emissione, mentre l'emissione di giugno registrò una bid-to-cover ratio del 2,4.

Evviva, c'è appetito per le obbligazioni periferiche, buon segno! Insomma. Per piazzare i suoi bond, infatti, Lisbona pagherà rendimenti del 4,086 per cento per i biennali rispetto al 3,597 della scorsa asta del 9 giugno e del 5,973 per i decennali contro il 4,171 dell'asta dello scorso 10 marzo: non a caso sei mesi fa la bid-to-cover ratio fu dell'1,6 per cento contro il 2,6 di ieri. Quei rendimenti vanno ripagati e oggi, nei fatti, creano solo nuovo debito: lungi dal pensare ad un rischio insolvenza, c'è invece la possibilità che - in nome dell'emergenza - Lisbona decida di applicare un haircut del 20-30 per cento sui rendimenti oppure di imporre una tassa sulle obbligazioni o ancora una futura poison pill al fine di facilitare la collocazione solo presso soggetti istituzionali per evitare un bagno di sangue finanziario. Non a caso, esistono i cds. Di cui gli investitori stanno facendo incetta. E quelli portoghesi, proprio ieri, hanno visto un aumento del 10,84 per cento a quota 329,2 punti base. Auguroni.

Mauro Bottarelli
 
Wall Street: si sgonfia l'effetto sussidi, timori su Deutsche Bank


S&P 500 e Nasdaq sui livelli massimi di un mese. Ma a 3/4 della seduta sono subentrati smobilizzi, per i rumor in arrivo dalla Germania: la piu' grande banca tedesca (-2.5% al Nyse) potrebbe far ricorso a un maxi aumento di capitale da 9 miliardi di euro.
 
Borse Ue incerte, Deutsche Bank riporta timori su banche

La notizia secondo cui la banca tedesca avrebbe deciso di procedere a un aumento di capitale porta i riflettori nuovamente sul settore finanziario Ue. Che anche oggi è penalizzato nei listini azionari europei



Dopo qualche minuto dall'inizio della giornata di contrattazioni in Europa, gli indici azionari riportano una performance indecisa, con alcuni listini che tentano di riagguantare il territorio positivo.

La giornata si conferma comunque sicuramente "no" per il comparto bancario europeo, affossato dalla debacle di Deutsche Bank . Il titolo brucia a Francoforte il 5% del suo valore innescando vendite sugli altri bancari europei. A innescare gli smobilizzi, alcune indiscrezioni di mercato secondo cui l'istituto starebbe valutando un aumento di capitale da 9 miliardi di euro, al fine di rafforzare il patrimonio in vista dei nuovi requisiti (Basilea 3) sull'adeguatezza del capitale e della liquidita' bancaria.

Alla Borsa di Francoforte cede terreno così anche Commerzbank -3%. D'altronde erano giorni che si parlava di dubbi sull'adeguatezza in generale della liquidità delle banche tedesche; detto questo, le indiscrezioni su un aumento di capitale di Deutsche Bank producono un forte effetto sui mercati, in quanto è importante segnalare che l'istituto dispone gia' un Tier 1 (patrimonio di primo livello) piuttosto elevato a quota 11,3%.

La banca non ha commentato al momento le indiscrezioni, ma un analista ha fatto notare che "una ricapitalizzazione di queste dimensioni alza l'asticella della solidita' patrimoniale per tutto il comparto europeo. Per cui altri istituti potrebbero essere indotti ad imitare la banca tedesca per mantenere un elevato standing creditizio".

Grande attesa dunque per la giornata di domenica, quando i nuovi requisiti di capitale e liquidità degli istituti finanziari verranno decisi appunto a Basilea dalle banche centrali e dalle autorità di vigilanza.

Il settore finanziario resta la spina nel fianco dell'Europa, con gli investitori preoccupati per la loro solidità specialmente dopo il report del Wall Street Journal d'inizio settimana che ha messo in dubbio la correttezza degli stress test effettuati a luglio.

Intanto, i bancari soffrono ovviamente anche a Piazza Affari: cedono Intesa San Paolo (-0,61%), Unicredit (-0,80%), Banca Popolare (-0,63%). Bene invece Fiat, che tocca i 10,11 euro e Campari (+0,47%).
 
oggi è sicuro che l'america apra lievemente positiva e poi scende a chiudere il gap up di ieri...
okkio con i future...oggi chiudiamo negativi anche noi...poi lunedi dopo la prima mattinata forse ci sarà una reazione...ma i minimi si avranno lunedi..
okkio e shortate
 
Hypo real estate peggio di AIG, sifonati altri 40 miliardi

L'istituto di credito tedesco Hypo Real Estate (Hre) ricevera' altri aiuti pubblici. Sale cosi' a 150 miliardi di euro il totale dei fondi finora concessi alla banca nazionalizzata l'anno scorso quando era sull'orlo del fallimento.


L'istituto di credito tedesco Hypo Real Estate (Hre) ricevera' aiuti pubblici per altri 40 miliardi di euro. Lo ha annunciato il fondo salva-banche Soffin che concedera' le nuove garanzie sul debito. Sale cosi' a oltre 150 mld il volume degli aiuti finora concessi alla Hre, istituto nazionalizzato l'anno scorso quando era sull'orlo del fallimento. L'Hre ha gia' avuto infatti iniezioni di contanti per circa 8mld, oltre a garanzie sul debito per 103,5 mld.
 
Hypo real estate peggio di AIG, sifonati altri 40 miliardi

L'istituto di credito tedesco Hypo Real Estate (Hre) ricevera' altri aiuti pubblici. Sale cosi' a 150 miliardi di euro il totale dei fondi finora concessi alla banca nazionalizzata l'anno scorso quando era sull'orlo del fallimento.

L'istituto di credito tedesco Hypo Real Estate (Hre) ricevera' aiuti pubblici per altri 40 miliardi di euro. Lo ha annunciato il fondo salva-banche Soffin che concedera' le nuove garanzie sul debito. Sale cosi' a oltre 150 mld il volume degli aiuti finora concessi alla Hre, istituto nazionalizzato l'anno scorso quando era sull'orlo del fallimento. L'Hre ha gia' avuto infatti iniezioni di contanti per circa 8mld, oltre a garanzie sul debito per 103,5 mld.

E' la seconda banca tedesca che chiede soldi nel giro di 3 giorni.
Tutto bene madama Dorè? :down::-?
 
:ciao:




Che triste primato. Rischio default, l'Italia è il paese che rende di più
Oltre al forte indebitamento dello Stato italiano, prossimo ai 1850 mld di debito, il 2010 ha segnato i massimi storici anche per l'indebitamento degli enti locali. Ricordiamo a chi legge che il debito pubblico è pari al valore nominale di tutte le passività lorde consolidate delle amministrazioni pubbliche (amministrazioni centrali, enti locali e istituti previdenziali pubblici).

Il debito è costituito da banconote, monete e depositi, titoli diversi dalle azioni, esclusi gli strumenti finanziari derivati, e prestiti. Ebbene, stando ai numeri e alle statistiche diffuse dalla maggiore società al mondo in tema di statistiche sui derivati, la Depository Trust and Clearing Corporation (DTCC), il rischio di bancarotta dell'Italia vale oltre 26 miliardi di Dollari, vale a dire poco più di 20 miliardi di Euro.

Wall Street Italia




:ciao::ciao::ciao:
 

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