C'E' SEMPRE UN MODO. ANCHE SE ANCORA NON LO CONOSCI. ANCHE SE ANCORA NON L'HAi TROVATO. MA C'E'

Domenica... prima di incontrare Olaf :lovin::D

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“Non andare a votare è un modo di esprimersi sull’inconsistenza dell’iniziativa referendaria“.
Tradotto: il referendum sulle trivelle è pretestuoso, quindi è legittimo astenersi.
A dirlo non è un leader di partito, bensì il presidente emerito della Repubblica e senatore a vita Giorgio Napolitano in un’intervista a Repubblica.

L’ex capo dello Stato non sa se domenica andrà alle urne (il motivo dell’incertezza sarebbe una trasferta a Londra già programmata), ma intanto non ha rinunciato a esprimere il suo pensiero sulla consultazione e, di riflesso, sullo strumento referendario come mezzo di democrazia diretta.
Una presa di posizione molto politica e poco istituzionale, che segue pedissequamente quella del Pd e di Matteo Renzi, ultimo premier da lui nominato.

Le parole di Napolitano, invece, sono diametralmente opposte a quelle del presidente della Consulta Paolo Grossi, pronunciate l’11 aprile scorso al cospetto dell’attuale presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
Il successore di Napolitano, come suo stile, ha preferito non pronunciarsi ufficialmente per non influire sul dibattito politico (specie dopo l’invito del governo all’astensione), ma ufficiosamente ha fatto sapere che domenica andrà a votare.
Tra Napolitano e le urne, al contrario, c’è la gita in Inghilterra e, soprattutto, la convinzione sulla “pretestuosità di questa iniziativa referendaria”.

Peccato, però, che quando al Colle c’era lui la pensava diversamente.
 
E’ il 6 giugno 2011, ai referendum abrogativi su acqua pubblica, nucleare e Lodo Alfano manca neanche una settimana.
Napolitano è capo dello Stato da sei anni.
I giornalisti sono appostati in attesa che lasci Montecitorio, la domanda è d’obbligo: “Presidente, andrà a votare?”.

“Io sono un elettore che fa sempre il suo dovere” dice Napolitano.

Che poi, a distanza di due settimane, scrive una lettera a Marco Pannella per chiedergli di interrompere l’ennesimo sciopero della sete iniziato per protestare contro il sovraffollamento delle carceri.
E’ il 23 giugno, il presidente della Repubblica usa queste parole: “La valorizzazione dello strumento referendario come elemento di democrazia diretta e la grande attenzione da te sempre prestata alle regole che presiedono alla partecipazione elettorale dei cittadini, sono il segno di una costante preoccupazione per la necessità di un consapevole e attivo coinvolgimento dell’opinione pubblica e dei cittadini nella vita politica del paese e della volontà di contrastare e combattere fenomeni di distacco e disinteresse verso la vita pubblica”.

Il pensiero dell’allora inquilino del Quirinale è assai chiaro: i referendum servono a coinvolgere i cittadini nella vita pubblica e a contrastare il disinteresse della gente per la politica.
E lui, ai referendum, va a votare sempre: lo ha fatto nel 2011 e ancor prima nel 2005, prima della sua elezione, quando bisognava esprimersi sulle norme per la procreazione assistita.
 
'namo bene .......

In attesa di partecipare all’impresa di Atlante a sostegno delle banche italiane, Cassa Depositi e Prestiti chiude il 2015 in rosso per 900 milioni.
Il dato è ancora più significativo se confrontato con il risultato del 2014, quando il gruppo era riuscito a realizzare profitti per 2,7 miliardi.
La società che gestisce 252 miliardi di risparmi postali degli italiani precisa in una nota che la perdita è “riconducibile al risultato d’esercizio di Eni”.

Tuttavia gli altri numeri del gruppo non consolano: nel 2015 scendono il patrimonio netto (-4% a 33,6 miliardi) e l’attivo (-1%% a 398 miliardi) con un margine di interesse in calo del 40% a causa dei tassi bassi.
Cala anche la liquidità (-6% rispetto ad un anno prima). Segno, insomma, che la Cassa piange.
Un tema di cui probabilmente si discuterà nell’assemblea degli azionisti convocata il 25 maggio (il 7 giugno in seconda) per approvare i conti dello scorso esercizio.

“Il risultato netto di gruppo è negativo per circa 900 milioni di euro per effetto della perdita di circa 8,8 miliardi di euro conseguita nell’esercizio 2015 da Eni, di cui Cdp possiede il 25,76%”
 
Senza la perdita contabilizzata di Eni, il risultato sarebbe stato di circa + 1300.
Meno della metà dello scorso anno.
 
Lactalis scarica i produttori di latte genovesi e dalla Liguria ai social media parte una campagna di boicottaggio nei confronti del gruppo francese che controlla Parmalat e Latte Oro.
La protesta è cominciata dagli allevatori della cooperativa Val Polcevera, che lo scorso 31 marzo non hanno avuto il rinnovo del contratto per la vendita del latte ai due marchi di produzione alimentare.

Il gruppo francese infatti pretendeva di pagare il prodotto 25 centesimi al litro, a un prezzo quindi inferiore del costo di produzione che si aggira intorno ai 36 centesimi.

Ma a quella cifra i produttori non potrebbero sopravvivere. Il problema non è nuovo nel settore e già lo scorso anno Lactalis era finita nell’occhio del ciclone proprio per avere proposto di abbassare il prezzo del latte del 20 per cento, al punto che gli allevatori avevano minacciato di bloccare il mercato.
Ora il sospetto, come già accadde la prima volta, è che i francesi, voltate le spalle alla Liguria, preferiscano migrare in altri mercati europei dove il latte costa meno, rinunciando però così alla tracciabilità e alla qualità del prodotto italiano.

Così è cominciata la guerra del latte.
 
Adesso che la riforma elettorale (Italicum) è stata trasformata in legge (L. 6 maggio 2015 n. 52) il discorso sul sistema elettorale del nostro Paese non è chiuso.

Per l’Italicum si è voluto procedere a tappe forzate, ricorrendo addirittura alla fiducia, come avvenne nel 1953 per la legge truffa, evidentemente per nascondere sotto l’asfalto del decisionismo governativo le scorie tossiche (per la democrazia) del nuovo sistema ed evitare ogni reale dibattito.
E tuttavia, proprio com’è accaduto per il Porcellum, è l’insostenibilità costituzionale e politica del nuovo sistema che rende necessario riaprire il dibattito per far emergere le storture che devono essere corrette.

La legge elettorale, lungi dal rappresentare un’asettica tecnica di selezione della rappresentanza, è il principale strumento attraverso il quale si realizza un ordinamento rappresentativo e viene data concreta attuazione al principio supremo posto dall’art. 1 della Costituzione che statuisce: “La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”.
Orbene la Corte costituzionale, con una pronuncia storica è intervenuta nel campo del diritto elettorale, riconoscendo che anche questo terreno squisitamente politico deve essere coerente con i principi costituzionali e con diritti politici del cittadino.
È da qui che bisogna partire per giudicare la sostenibilità del nuovo sistema elettorale.
 
SVEGLIARSI DAL TORPORE MEDIATICO

La Consulta ha dichiarato incostituzionale il Porcellum proprio per evitare il ripetersi di una simile insostenibile distorsione fra la volontà espressa dal popolo italiano ed i risultati in termini di composizione della Camera rappresentativa.
Orbene l’Italicum finge di adeguarsi alle prescrizioni della Corte sia per quanto riguarda le liste bloccate, sia per quanto riguarda il premio di maggioranza, ma in realtà si sbarazza dei paletti che la Consulta ha posto alla discrezionalità del legislatore, riesumando una versione peggiorata del Porcellum.

L’Italicum apparentemente abbandona il sistema delle liste bloccate (in cui i deputati sono eletti in base all’ordine di lista, senza che l’elettore possa mettervi becco), rendendo bloccati “soltanto” i capilista, mentre gli altri deputati vengono eletti sulla base delle preferenze.

Però c’è un trucco. Vengono creati 100 collegi di dimensioni variabili da tre a sei seggi.
Poiché difficilmente un partito elegge, in collegi così ridotti, più di un deputato, ecco che buona parte dei deputati non saranno scelti dagli elettori con il voto di preferenza ma saranno direttamente “nominati” dai capi dei partiti.

Ma ancor maggiore è lo scostamento dalle prescrizioni della Consulta in tema di premio di maggioranza.
Anche in questo versante l’Italicum finge di adeguarsi perché introduce una soglia minima al premio di maggioranza (40%), con ciò legittimando, peraltro, un premio di maggioranza notevolissimo (il 15%, pari a circa 90 seggi), equivalente a quello stabilito dalla legge truffa.
Nella realtà quest’adeguamento viene rinnegato con un trucco.
Alle elezioni del 1953, la coalizione governativa non raggiunse per pochi voti la soglia minima (50%) e il premio di maggioranza non scattò.
Per evitare questo rischio il legislatore moderno ha risolto il problema, rendendo la soglia minima rimuovibile, attraverso l’istituto del ballottaggio su base nazionale fra le due liste che abbiano ottenuto il maggior numero di voti.
 
In questo modo l’Italicum non solo non abolisce il meccanismo del premio di maggioranza senza soglia censurato dalla Corte costituzionale, ma addirittura lo esalta perché attribuisce il premio a una unica lista, anziché alle coalizioni.

È questo l’aspetto più preoccupante della nuova legge elettorale.
L’Italicum smantella ogni possibile coalizione perché attribuisce il premio di maggioranza a una sola lista.
Per legge viene attribuita la maggioranza politica e la guida del governo a un solo partito, a prescindere dalla volontà del popolo sovrano.

In questo modo viene reintrodotto nel nostro Paese un sistema di governo basato sul partito unico
.
Per rendersi conto della gravità di questa svolta, basti pensare che dal 24 aprile del 1944 (secondo governo Badoglio) ad oggi si sono sempre e solo succeduti governi di coalizione, o quantomeno sostenuti da una maggioranza di coalizione, mentre un governo del partito unico in Italia è esistito soltanto nel ventennio fascista.
Fu proprio la legge elettorale dell’epoca (legge Acerbo) che consentì l’avvento di un partito unico al governo, attribuendo nelle elezioni del 1924 una maggioranza garantita al “listone”.

Poiché il sistema politico italiano non è bipolare, né tantomeno bipartitico il meccanismo elettorale congegnato è destinato a produrre naturalmente – soprattutto attraverso il ballottaggio – una fortissima distorsione fra la volontà espressa dal corpo elettorale e i seggi conseguiti dalle singole forze politiche, istituzionalizzando la diseguaglianza dei cittadini nell’esercizio del diritto di voto.
 

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