Fabrib
Forumer storico
La settimana che si è chiusa è stata caratterizzata da una straordinaria volatilità dei mercati: nella sola giornata di lunedì 24, l’escursione dell’indice Nasdaq (titoli tecnologici) è stata del 5,9 per cento; volatilità che si è estesa a tutti i mercati, con anche il nostro Mib che lunedì ha fatto registrare la stessa volatilità dell’indice americano.
Episodi di questa entità accadono nelle fasi di discesa dei mercati e anche questo non fa eccezione: dal massimo di fine 2021 al minimo di lunedì, il Nasdaq ha perso il 17 per cento, il 20 l’indice delle società medio-piccole, e l’11 quello delle grandi.
Numeri che sottostimano l’estensione delle perdite perché l’andamento degli indici è correlato ai titoli a maggiore capitalizzazione: se invece si guarda alla perdita media dei titoli che li compongono, la caduta è stata più accentuata: rispettivamente, 35, 47 e 39 per cento. Una discesa che ha coinvolto anche i mercati europei e asiatici.
La volatilità dei mercati non riguarda solo chi investe in azioni perché riflette le crescenti incertezze sullo scenario economico. L’inflazione elevata che persiste ben oltre le attese; l’annuncio che la Federal Reserve comincerà a ridurre i titoli di stato in portafoglio e aumentare i tassi; la crisi energetica con i forti aumenti del prezzo di gas e greggio; le tensioni geopolitiche in Ucraina; la graduale riduzione delle politiche fiscali di sostegno ai redditi, e le conseguenze economiche della variante omicron, sono i tanti fattori citati come spiegazione delle tensioni sui mercati.
Tensioni che possono essere riassunte in un quesito: siamo all’inizio di un ritorno verso la normalità, ovvero crescita del Pil e degli utili societari, inflazione e tassi di interesse, occupazione e disavanzi pubblici che si riportano sui valori che hanno prevalso negli ultimi vent’anni? Oppure c’è un reale rischio dello scoppio di una bolla finanziaria, dell’inflazione stabilmente al di sopra gli obiettivi delle banche centrali, e di una crescita deludente che potrebbe innescare una crisi per il troppo debito accumulato?
In settimana il Presidente della Fed, Jerome Powell, ha annunciato, come previsto, che da marzo la banca centrale inizierà ad aumentare i tassi e a ridurre i titoli in portafoglio. Non ha specificato però di quanto li aumenterà o la velocità alla quale ridurrà il portafoglio titoli, spiegando che tutto dipenderà dall’andamento futuro di inflazione, salari, e occupazione: una dichiarazione che equivale ad ammettere l’incapacità in questo momento di prevedere le grandezze economiche; ma non ha nemmeno escluso la possibilità di un drastico aumento dei tassi nel caso la dinamica di prezzi e salari non rallentasse come previsto.
Una dichiarazione che non sorprende visto che tutte le previsioni riguardanti la dinamica dei prezzi, le disfunzioni nelle filiere di produzione, e le dinamica del mercato del lavoro, si sono rivelate fin qui sbagliate, e non solo negli Stati Uniti.
Di qui però i timori che la Fed possa sorprendere tutti con una politica monetaria troppo restrittiva, causando un brusco rallentamento. Timore infondato: se anche la Fed portasse quest’anno i tassi dall’attuale 0,25 all’1,5 per cento, per poi stabilizzarli intorno al 2, rappresenterebbe comunque un costo reale del credito nullo o addirittura negativo.
Prova ne sia che il rendimento del titolo di stato a 10 anni, più sensibile alle aspettative di inflazione, dall’1,1 per cento dei minimi di agosto è arrivato in questi giorni all’1,85, ancora ben sotto la crescita tendenziale dei prezzi.
Inoltre, l’aumento di 75 punti del decennale americano non è di molto superiore ai 50 di aumento dell’equivalente titolo tedesco nello stesso periodo, anche se in Germania non ci sono spinte salariali e la Bce intende mantenere l’attuale politica per tutto il 2022.
L’interpretazione più ragionevole è che l’aumento dei tassi per tutte le scadenze sia negli Usa che in Europa è solo un movimento fisiologico verso la normalità, dopo la straordinarietà causata dalla pandemia; ma la normalità consiste in livelli dei tassi superiori agli attuali.
È una considerazione rilevante per l’Italia visto che lo spread tende ad essere correlato positivamente con il livello dei tassi tedeschi: nello stesso periodo infatti, il rendimento del Btp decennale è salito di 90 punti, più che negli Stati Uniti.
Il secondo elemento a favore dello scenario coerente con un ritorno alla normalità viene dal mercato del credito e dalle aspettative delle imprese. A fronte della grande volatilità nei mercati azionari, i premi per il rischio nel mercato del credito si rimasti pressoché costanti ovunque segno che non ci si attende un aumento delle insolvenze, che tipicamente accompagnano le crisi economiche.
Stessa indicazione dalle banche che stanno riducendo gli accantonamenti contro le perdite sui prestiti che avevano posto precauzionalmente a bilancio allo scoppio della pandemia. Segnali che puntano all’ottimismo vengono dalle imprese: nonostante gli aumenti dei salari e dei costi di materie prime, energia e componenti comprimano i margini, le stime di consenso prevedono per quest’anno una crescita degli utili negli Stati Uniti del 12 per cento, e dell’8 dei ricavi, superiori al trend.
Stesse indicazioni per Europa, anche se la crescita attesa è inferiore: +6 per cento, per utili e ricavi. Aspettative delle imprese che sono l’immagine speculare di una crescita del Pil prevista in media dagli economisti sopra trend, +3,9 per gli Usa e +4 per l’Europa, nonostante la frenata nell’ultimo trimestre del 2021 legata per lo più alla recrudescenza della pandemia.
Volatilità e caduta delle Borse non sono neppure il segnale di una bolla finanziaria che si sta sgonfiando e rischia di scoppiare. Anche in questo caso gli indici di mercato possono essere ingannevoli. Se infatti l’indice dei titoli growth americani, ovvero quelli che sono caratterizzati dall’attesa di una forte crescita degli utili futuri, ha perso il 6 per cento da inizio anno, quello dei titoli value, ovvero quelli che hanno multipli di valutazione più bassi della media proprio perché si tratta di società in settori maturi dalle prospettive limitate, è salito del 5 nello stesso periodo.
Una differenza di performance che però non riguarda solo i titoli tecnologici Usa, visto che in Europa, dove quei titoli sono scarsamente rappresentati nelle Borse continentali, a fronte di una salita dell’indice value del 4 per cento, quello growth ha perso oltre l’11.
Significa che gli investitori, dopo i rialzi vertiginosi degli ultimi due anni, cominciano a preferire le società con cash flow certi, anche se stabili, piuttosto che scommettere su tecnologie dalle prospettive dirompenti o sui possibili prodotti di successo nel futuro, che assicurano alti profitti attesi, ma anche molto incerti.
Anche questo è un segno che dopo gli anni di credito facile e abbondante delle banche centrali, di aiuti fiscali a pioggia, di guadagni facili in Borsa e con le cripto valute, e di brusche oscillazioni tra depressione e ottimismo di imprese e consumatori che il Covid ha indotto, è iniziato il cammino verso la normalità. Un cammino accidentato, ma per ora nella giusta direzione.
DOMANI/Penati
Episodi di questa entità accadono nelle fasi di discesa dei mercati e anche questo non fa eccezione: dal massimo di fine 2021 al minimo di lunedì, il Nasdaq ha perso il 17 per cento, il 20 l’indice delle società medio-piccole, e l’11 quello delle grandi.
Numeri che sottostimano l’estensione delle perdite perché l’andamento degli indici è correlato ai titoli a maggiore capitalizzazione: se invece si guarda alla perdita media dei titoli che li compongono, la caduta è stata più accentuata: rispettivamente, 35, 47 e 39 per cento. Una discesa che ha coinvolto anche i mercati europei e asiatici.
La volatilità dei mercati non riguarda solo chi investe in azioni perché riflette le crescenti incertezze sullo scenario economico. L’inflazione elevata che persiste ben oltre le attese; l’annuncio che la Federal Reserve comincerà a ridurre i titoli di stato in portafoglio e aumentare i tassi; la crisi energetica con i forti aumenti del prezzo di gas e greggio; le tensioni geopolitiche in Ucraina; la graduale riduzione delle politiche fiscali di sostegno ai redditi, e le conseguenze economiche della variante omicron, sono i tanti fattori citati come spiegazione delle tensioni sui mercati.
Tensioni che possono essere riassunte in un quesito: siamo all’inizio di un ritorno verso la normalità, ovvero crescita del Pil e degli utili societari, inflazione e tassi di interesse, occupazione e disavanzi pubblici che si riportano sui valori che hanno prevalso negli ultimi vent’anni? Oppure c’è un reale rischio dello scoppio di una bolla finanziaria, dell’inflazione stabilmente al di sopra gli obiettivi delle banche centrali, e di una crescita deludente che potrebbe innescare una crisi per il troppo debito accumulato?
In settimana il Presidente della Fed, Jerome Powell, ha annunciato, come previsto, che da marzo la banca centrale inizierà ad aumentare i tassi e a ridurre i titoli in portafoglio. Non ha specificato però di quanto li aumenterà o la velocità alla quale ridurrà il portafoglio titoli, spiegando che tutto dipenderà dall’andamento futuro di inflazione, salari, e occupazione: una dichiarazione che equivale ad ammettere l’incapacità in questo momento di prevedere le grandezze economiche; ma non ha nemmeno escluso la possibilità di un drastico aumento dei tassi nel caso la dinamica di prezzi e salari non rallentasse come previsto.
Una dichiarazione che non sorprende visto che tutte le previsioni riguardanti la dinamica dei prezzi, le disfunzioni nelle filiere di produzione, e le dinamica del mercato del lavoro, si sono rivelate fin qui sbagliate, e non solo negli Stati Uniti.
Di qui però i timori che la Fed possa sorprendere tutti con una politica monetaria troppo restrittiva, causando un brusco rallentamento. Timore infondato: se anche la Fed portasse quest’anno i tassi dall’attuale 0,25 all’1,5 per cento, per poi stabilizzarli intorno al 2, rappresenterebbe comunque un costo reale del credito nullo o addirittura negativo.
Prova ne sia che il rendimento del titolo di stato a 10 anni, più sensibile alle aspettative di inflazione, dall’1,1 per cento dei minimi di agosto è arrivato in questi giorni all’1,85, ancora ben sotto la crescita tendenziale dei prezzi.
Inoltre, l’aumento di 75 punti del decennale americano non è di molto superiore ai 50 di aumento dell’equivalente titolo tedesco nello stesso periodo, anche se in Germania non ci sono spinte salariali e la Bce intende mantenere l’attuale politica per tutto il 2022.
L’interpretazione più ragionevole è che l’aumento dei tassi per tutte le scadenze sia negli Usa che in Europa è solo un movimento fisiologico verso la normalità, dopo la straordinarietà causata dalla pandemia; ma la normalità consiste in livelli dei tassi superiori agli attuali.
È una considerazione rilevante per l’Italia visto che lo spread tende ad essere correlato positivamente con il livello dei tassi tedeschi: nello stesso periodo infatti, il rendimento del Btp decennale è salito di 90 punti, più che negli Stati Uniti.
Il secondo elemento a favore dello scenario coerente con un ritorno alla normalità viene dal mercato del credito e dalle aspettative delle imprese. A fronte della grande volatilità nei mercati azionari, i premi per il rischio nel mercato del credito si rimasti pressoché costanti ovunque segno che non ci si attende un aumento delle insolvenze, che tipicamente accompagnano le crisi economiche.
Stessa indicazione dalle banche che stanno riducendo gli accantonamenti contro le perdite sui prestiti che avevano posto precauzionalmente a bilancio allo scoppio della pandemia. Segnali che puntano all’ottimismo vengono dalle imprese: nonostante gli aumenti dei salari e dei costi di materie prime, energia e componenti comprimano i margini, le stime di consenso prevedono per quest’anno una crescita degli utili negli Stati Uniti del 12 per cento, e dell’8 dei ricavi, superiori al trend.
Stesse indicazioni per Europa, anche se la crescita attesa è inferiore: +6 per cento, per utili e ricavi. Aspettative delle imprese che sono l’immagine speculare di una crescita del Pil prevista in media dagli economisti sopra trend, +3,9 per gli Usa e +4 per l’Europa, nonostante la frenata nell’ultimo trimestre del 2021 legata per lo più alla recrudescenza della pandemia.
Volatilità e caduta delle Borse non sono neppure il segnale di una bolla finanziaria che si sta sgonfiando e rischia di scoppiare. Anche in questo caso gli indici di mercato possono essere ingannevoli. Se infatti l’indice dei titoli growth americani, ovvero quelli che sono caratterizzati dall’attesa di una forte crescita degli utili futuri, ha perso il 6 per cento da inizio anno, quello dei titoli value, ovvero quelli che hanno multipli di valutazione più bassi della media proprio perché si tratta di società in settori maturi dalle prospettive limitate, è salito del 5 nello stesso periodo.
Una differenza di performance che però non riguarda solo i titoli tecnologici Usa, visto che in Europa, dove quei titoli sono scarsamente rappresentati nelle Borse continentali, a fronte di una salita dell’indice value del 4 per cento, quello growth ha perso oltre l’11.
Significa che gli investitori, dopo i rialzi vertiginosi degli ultimi due anni, cominciano a preferire le società con cash flow certi, anche se stabili, piuttosto che scommettere su tecnologie dalle prospettive dirompenti o sui possibili prodotti di successo nel futuro, che assicurano alti profitti attesi, ma anche molto incerti.
Anche questo è un segno che dopo gli anni di credito facile e abbondante delle banche centrali, di aiuti fiscali a pioggia, di guadagni facili in Borsa e con le cripto valute, e di brusche oscillazioni tra depressione e ottimismo di imprese e consumatori che il Covid ha indotto, è iniziato il cammino verso la normalità. Un cammino accidentato, ma per ora nella giusta direzione.
DOMANI/Penati