Saras (SRS) Collocamenti

Qualcuno mi sa dire perché SARAS è andata così male ? E antichi Pellettieri come andrà ? io penso bene perché i ricchi hanno sempre soldi daspendere in gadget di lusso.
Sono alal prima uscita sul Forum Giurciano
 
SARAS: FERMATA IMPIANTO RIDUCE PRODUZIONE GASOLIO E BENZINA
24 Luglio 2006 9:02 MILANO (ANSA)

(ANSA) - MILANO, 24 LUG - Saras ha deciso di fermare l'impianto di reforming catalitico dopo aver riscontrato nei giorni scorsi un'anomalia nel funzionamento di uno dei quattro reattori. La fermata è stata così decisa per effettuare i necessari interventi di correzione. Lo annuncia la società in una nota. La fermata complessiva prevista è di dieci giorni e avrà come conseguenza una minor produzione di componenti benzina ad alto ottano e una riduzione della disponibilità di idrogeno con conseguente minor produzione di gasolio a bassissimo contenuto di zolfo. Attraverso l'ottimizzazione delle materie prime e un accurato uso degli stoccaggi e dei semilavorati disponibili - nei prossimi trenta giorni - la produzione di gasolio autotrazione e per le benzine ad alto ottano sarà del 10% circa minore rispetto a quella a regime. L'impatto sui programmi già stabiliti sarà contenuto, precisa il gruppo, con disagi limitati per i clienti. (ANSA).
 
INSIDER IN FUGA DAI TITOLI DELL'ENERGIA

di Finanza&Mercati per WSI
Per un marinaio, quando i topi abbandonano la nave è il momento di recitare le preghiere. A un investitore finanziario simili preoccupazioni sorgono quando i manager di una società iniziano a vendere le azioni della propria azienda a mani basse.


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4 Agosto 2006 9:10 NEW YORK

http://www.wallstreetitalia.com/articolo.asp?ART_ID=398182

(WSI) – Per un marinaio, quando i topi abbandonano la nave è il momento di recitare le preghiere. A un investitore finanziario simili preoccupazioni sorgono quando i manager di una società, dei cui titoli hanno gonfio il portafoglio, iniziano a vendere quelle stesse azioni a mani basse. Si chiama insider selling e, quando prende piede, per il settore in questione è davvero un segnale preoccupante.

In questo caso, la brutta sorpresa riguarda il comparto del petrolio. In base a un’analisi della casa di investimento americana Leuthold Group, stilata sui filing depositati presso la Sec, si è registrato in maggio il picco di insider selling, considerando un campione allargato di 142 società energetiche. A riprova di quanto questo indicatore non vada preso con leggerezza, la stessa Leuthold è corsa ai ripari abbassando all’1% la quota dei propri investimenti nell’energia, rispetto al 13% di due anni fa.

Ma l’analisi americana ha messo in luce un fuggi-fuggi ancora più violento se si restringe il plotone di aziende monitorate a quelle operanti nella raffinazione del petrolio. In questo caso, la vendita di azioni da parte dei manager ha segnato il record in luglio, in pieno rimbalzo del barile.

In particolare, ad abbandonare la nave sono stati l’attuale presidente e l’ex amministratore delegato (e tuttora chairman) di Valero che nelle prime due settimane del mese hanno venduto titoli per oltre 30 milioni di dollari.

Anche il comparto del gas sembra aver sentito odor di bruciato: il top management di Xto Energy, nella sola prima settimana di luglio, ha venduto titoli per circa 35 milioni di dollari. D’accordo - si giustificano le società - quando la remunerazione dei manager comprende lauti pacchetti di stock option, c’è anche da attendersi realizzi consistenti. Insomma, quando il bottino è ricco, ci sta che i topi lascino la nave. Ma qualche dubbio si fa strada quando si tuffano in massa, come quelli del «si salvi chi può».

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Con dei dati semestrali buoni il titolo è preso da vera speculazione ribassista.

ora sembra riprendersi un pochino dal minimo di giornata 4,74

Che cavolo i Moratti :down: (giovani - si fa per dire) portan sfiga - anche all'INTER
 
BORSA: PRENDI I SOLDI E SCAPPA

di Panorama
Quest'anno sono state quotate una ventina di società. Hanno raccolto oltre 4,5 miliardi di euro, ma solo 800 milioni sono stati destinati allo sviluppo delle aziende, mentre 3,7 miliardi sono stati incassati dai vecchi azionisti. Compresi banche e...


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23 Dicembre 2006 6:06 MILANO
http://www.wallstreetitalia.com/articolo.asp?ART_ID=428636

Il contenuto di questo articolo esprime il pensiero dell' autore e non necessariamente rappresenta la linea editoriale di Wall Street Italia, che rimane autonoma e indipendente.
(WSI) – Perché le società si quotano in borsa? Per raccogliere sul mercato finanziario i capitali necessari al loro sviluppo, è la risposta standard. Infatti nel 2006 sono entrati 828 milioni di euro nelle casse delle società esordienti in borsa, chiamate anche matricole di Piazza Affari. Ma, sorpresa, una cifra ben più alta, 3 miliardi 708 milioni di euro, è finita in tasca ai vecchi azionisti delle società che hanno venduto i loro titoli sul mercato.

Insomma, il maggior beneficio delle quotazioni va agli imprenditori e agli investitori istituzionali, come i fondi di private equity: secondo una ricerca effettuata da Soldionline per Panorama, questi hanno incassato l'81,7 per cento dei soldi raccolti dalle matricole 2006, oltre 3,7 miliardi è appunto il controvalore delle azioni vendute.


Invece solo il 18,3 per cento delle risorse, pari a un controvalore di 828 milioni, è finito con un aumento di capitale nelle casse delle matricole di borsa.
Un esempio: il petroliere Gian Marco Moratti, suo fratello Massimo (patron dell'Inter) e altri membri della loro famiglia hanno incassato 1 miliardo 710 milioni di euro vendendo le azioni della Saras, mentre nelle casse della società sono entrati 360 milioni. Come si spiega questo fenomeno? Le società entrano forse in borsa in una logica da prendi i soldi e scappa? «Purtroppo sì, è il tipico atteggiamento dei momenti di boom borsistico» sostiene il banchiere d'affari Giovanni Tamburi.

«L'unica speranza per noi operatori è che l'incremento delle quotazioni sia strutturale e non dovuto al rialzo dei valori del mercato nel 2006. L'anno prossimo penso ci saranno ancora più matricole, ma il mio auspicio è che la borsa sia vista come motore dello sviluppo delle aziende: quindi che i collocamenti avvengano attraverso aumenti di capitale».

Va anche detto che molte matricole di quest'anno rappresentavano disinvestimenti di operatori del private equity, per i quali uscire dalla proprietà è un fatto fisiologico.
«Private equity vuol dire società non public, quindi non quotate: perciò è abbastanza usuale, anche sui mercati internazionali, non rimanere dopo la quotazione» spiega Fabio Sattin, presidente della Private equity partners che, insieme a un altro grande fondo chiuso del settore, il Permira, ha collocato quasi tutte le azioni vendute della Marazzi(ceramiche).

«Come fondi di private equity siamo rimasti nella società complessivamente con il 10 per cento» aggiunge Sattin. Ma tutto ciò ha a che fare con il cattivo andamento in borsa di alcune matricole, come appunto la Marazzi o SAras? Dipende. A volte anche i manager approfittano dei collocamenti e poi se ne vanno: per esempio Michele Preda, ex amministratore delegato della Marazzi, è stato uno dei venditori delle azioni insieme ai fondi chiusi. Era definito nel prospetto come manager cruciale della società; ora, passati pochi mesi dal collocamento, Preda non ha più deleghe.

«Il problema è che non esiste un'etica del collocamento, è lecito fare qualsiasi cosa» nota polemicamente Paolo Sassetti, analista finanziario indipendente. Che ricorda anche il problema dei conflitti d'interesse delle banche quando sono sia creditrici delle società sia collocatrici delle azioni. Sassetti dice: «Un caso significativo è quello della Piaggio: la società, a causa del suo tipo di business, è costretta a fare di continuo investimenti e quindi è possibile che fra non molto ricorra a un aumento di capitale chiedendo altri soldi al mercato».
Sarebbe paradossale: niente aumento di capitale al momento della quotazione ma una nuova richiesta di soldi al mercato dopo poco tempo.
L'azienda di motocicli controllata da Roberto Colaninno è tra le cinque società(le altre sono Ansaldo-sts, Banca Generali, Polynt e Valsoia) che sono state quotate nel 2006 senza incassare neppure 1 euro: nel senso che hanno scelto la strada di far guadagnare solo i loro vecchi azionisti.

In alcuni casi la società viene quotata in borsa senza aumento di capitale perché ha già soldi in cassa: per esempio l'Ansaldo-sts vanta una posizione finanziaria netta di oltre 146 milioni. La società è stata collocata consentendo alla controllante Finmeccanica, guidata da Pierfrancesco Guarguaglini, di incassare 468 milioni: ora, però, per le future acquisizioni, l'Ansaldo-sts punta a indebitarsi per circa 300 milioni.
Sassetti dice: «Se l'azienda è in crescita, il primo a non essere interessato a vendere subito è l'azionista di maggioranza. Ma il mercato spesso non sa distinguere se l'azienda va bene o male». Insomma, non c'è una ricetta unica. E va anche ricordato che all'epoca della bolla della new economy sono saltate molte aziende del nuovo mercato che si quotavano quasi tutte con un aumento di capitale.


Le matricole 2006 dove erano presenti fondi di private equity sono Marazzi, Elica, Poltrona Frau, Bolzoni, Antichi Pellettieri (che hanno scelto la vendita di azioni), mentre Arkimedica e Noemalife sono state quotate con un aumento di capitale. Spiega Tamburi: «Questi sono due casi in cui il private equity investe sul futuro. Noi eravamo in un caso azionisti, nell'altro advisor».


Ma come si spiega che oltre l'80 per cento dei collocamenti avviene con la vendita di azioni già esistenti? «Indubbiamente ci sono stati errori» riconosce Simone Cimino, presidente dell'Arkimedica e del fondo di private equity Cape Natexis. Insomma: c'è un problema rispetto al ruolo delle banche d'affari?

Per Cimino sì: «Bisogna diffidare delle matricole in cui il collocatore ha interessi nella società, magari perché la banca ha un credito da esigere o una partecipazione in una finanziaria che controlla la società che viene quotata».

Cimino si definisce «un estremista della visione della borsa come inizio e non come fine di un progetto industriale» e rispetto all'atteggiamento sulla quotazione dice: «Andrebbe abbandonato l'approccio mordi e fuggi nei confronti della borsa. Il mercato non è sempre disponibile, bisogna raccogliere capitale e utilizzarlo per lo sviluppo.

Poi, dopo 18-24 mesi, si può cominciare a vendere le azioni. Ma se credi a quell'investimento, non dovresti vendere mai». E Cimino cita come esempio da seguire Warren Buffett che «tiene le azioni Gillette da 20 anni, perché crea valore e ogni anno ne porta a casa un pezzetto incassando il dividendo». Ma Buffett opera nella provincia americana, molto lontano da Piazza Affari.
 
23 Aprile 2007
http://www.beppegrillo.it/
Senza rubare
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Il fratello scarso è una figura ricorrente nella Storia d’Italia. I parenti lo affidano di solito al fratello più sveglio che gli fa da padre per tutta la vita. Massimo Moratti è il fratello scarso dei fratelli scarsi. E’ riuscito ad offuscare persino Paolo Berlusconi. Gli si perdona qualunque cosa, anche le intercettazioni a Bobone Vieri http://www.lastampa.com/sport/cmsSezioni/calcio/200704articoli/7630girata.asp
La famiglia per evitare danni lo ha nominato presidente dell’Inter. Gli ha concesso un vitalizio di qualche decina di milioni di euro all’anno per i giocatori. Lui è contento così.
Ogni tanto il fratello maggiore Gianmarco gli chiede di mettere una firma sui collocamenti. La gente si fida di lui, del suo aspetto da Bugs Bunny buono. E così è stato anche per il debutto di Saras in Borsa.
http://www.beppegrillo.it/immagini/Saras.pdf
I Moratti hanno incassato 1,7 miliardi di euro, ne avevano bisogno per rinforzare la squadra. Il titolo fu quotato a 6 euro in un momento di crollo del settore energetico. Chi lo comprò perse il 12% in un solo giorno. Jp Morgan e Morgan Stanley, le banche responsabili del collocamento, guadagnarono 12 milioni di euro a testa grazie alle oscillazioni.

Riassunto: qualcuno decide che il prezzo di 6 euro è giusto, i risparmiatori ci credono, comprano, perdono. I Moratti e le banche ci guadagnano e la procura indaga. La Consob dov’era? Cardia illuminaci.

Lo scudetto di ieri non lo ha vinto l’Inter. Infatti il marchio non gli appartiene più da tempo. Lo ha venduto, dopo una rettifica a questo blog, alla Inter Brand srl per 159 milioni di euro. La Procura sta indagando per l’ipotesi di “buchi in bilancio per cui non ci sono indagati”(Corriere della Sera). Sono sicuro che è un’ipotesi che si dimostrerà priva di qualsiasi fondamento. Massimo vince, ma senza rubare.

Postato da Beppe Grillo
 
QUALCUN ALTRO PENSA CHE LA QUOTAZIONE DI SARAS SIA SERVITA ALLA MORATTA

Moratti e il regalo di 6 milioni a Letizia
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«InnaMoratti, sempre di piùùù! / in fondo all’anima, ci sei sempre tuuu!» strillavano ridendo gli studenti nei cortei, facendo il verso a «Un’avventura» di Lucio Battisti. Scherzavano, le canaglie. Senza rispetto per l’allora ministro dell’Istruzione. Ma c’è chi è davvero innamoratissimo di Letizia Brichetto Arnaboldi: suo marito Gianmarco Moratti.

Gli altri regalano alla moglie un paio di orecchini, un anello di brillanti oppure, se sono ricchi sfondati, una Bentley Continental Gt Coupé come quella donata da David Beckham all’amata Victoria, la ex spice girl? Lui alla moglie ha regalato Milano.

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Di più: in occasione della presentazione ufficiale della candidatura della signora a sindaco, arrivò a uscire dal suo proverbiale silenzio (il papà Angelo fece due figli, uno ciarliero e uno muto: lui è quello muto) per concedere alla stampa addirittura qualche dozzina di parole. Cosa che, sui cronisti, ebbe l'impatto di una loquace chiacchierata di Bernardo, il servo afasico di Zorro. Spiegò dunque a Elisabetta Soglio del «Corriere» che lui era proprio contento della candidatura della moglie: «Con Letizia ho passato 36 anni di felicità e spero, anzi sono certo, che lei potrà dare la stessa gioia anche a Milano».

Quanto peso ha avuto il suo parere sulla decisione di candidarsi? «Io ho spinto molto, perché so che mia moglie potrebbe essere il miglior sindaco per la nostra città». Ha seguito questa campagna elettorale? «Sì, ed è stato molto importante aver conosciuto da vicino i problemi della città». Come si risolvono? «Letizia saprà come fare, perché lei è abituata. Una persona che da 27 anni segue una comunità di emarginati sa come si affrontano i problemi». L'accenno a San Patrignano, dove i due si spendono da una vita con i ragazzi decisi a disintossicarsi, spinse anzi Gianmarco ad andare più in là. E a spiegare che, per carità, lui non temeva affatto che lei, se eletta, fosse molto esposta: «Quando una persona non vive per la propria ambizione ma per un ideale profondo, quando è estremamente onesta e moralmente integerrima, non può avere paura». Aggiunse infine di essere entusiasta del primo assaggio della vita da "first sciùr" perché in quelle settimane aveva avuto «modo di incontrare molte persone e conoscere i veri problemi della gente ». Insomma: «La campagna elettorale ci ha molto arricchiti».

Lei, commossa da tante coccole pubbliche, ricambiò: «Tutti i giorni della mia vita sono dedicati a lui, perché è una persona splendida e solo grazie a lui sono diventata quella che sono». Giustissimo. Soprattutto per quanto riguarda la conquista di Palazzo Marino. Se il marito uscì dalla campagna elettorale «arricchito» umanamente, finanziariamente invece si svenò. Meglio: si sarebbe svenato se lui e il fratello Massimo, presidente dell'Inter, non fossero più ricchi del conte di Montecristo.

Dai soli atti ufficiali risulta infatti che l'imprenditore Moratti Gianmarco, socio forte dell'industria petrolifera Saras, versò al comitato elettorale di Moratti Letizia, alla voce "contributi ", la bellezza di 6.335.000 (seimilionitrecentotrentacinquemila) euro. Per capirci: con quei soldi, di lussuosissime Bentley Continental GT Coupé, poteva regalarne alla moglie quarantuno. Con l'autoradio e il frigobar. Gli domandarono: è vero che ha pagato lei questa campagna elettorale? Sorrise: «È vero che in casa i conti li tengo io».

L'idea che qualche avversario potesse chiedersi maliziosamente se un atto d'amore così costoso fosse anche un investimento sul futuro non lo sfiorò neppure. Del resto, se suo fratello Massimo aveva speso 19 milioni e mezzo di euro per un ronzino come Javier Farinós (Farinós!) e altri 21 per un brocco come Sergio Conceição (Conceição!), non era forse libero, lui, di puntare su una bella puledra purosangue sulla ruota di San Siro? Che Letizia Brichetto Arnaboldi Moratti sia sempre stata trattata bene dal consorte è, d'altra parte, una leggenda finita perfino in Consiglio dei ministri. Successe il giorno in cui, taglia qua e taglia là, per poter tagliare un po' le tasse Silvio Berlusconi mise le mani pesantemente sui bilanci dell'Istruzione. Scandalizzata, lei tentò una ribellione. Al che Giulio Tremonti, aggiustandosi gli occhialetti e strascicando perfido la "evve" moscia, le sibilò: «Letizia, renditi conto che il governo non è mica tuo marito».

Un dettaglio di cui ebbe modo di rendersi conto anche Bruno Ferrante, l'ex prefetto che alle Comunali correva per le sinistre: «Ce l'ho messa tutta, ma era quasi impossibile. Sono partito che non avevo un euro, un telefono, un ufficio, un collaboratore. Noi spendevamo uno, loro cinque». E così scrissero, in un comunicato, anche i Ds. Secondo i quali Ferrante aveva speso per tutta la campagna elettorale 694.000 euro rastrellati tra i militanti e i comitati di base e le collette e un po' di soldi dei partiti della coalizione, e la Moratti 3.642.900. Errore: dal solo marito ebbe in realtà (ufficialmente) nove volte più del denaro investito dall'avversario. E il bello è che Gianmarco Moratti, su quei soldi spesi per la campagna della moglie, risparmiò più tasse che se li avesse dati a un laboratorio scientifico dedito, tra mille difficoltà e carenze di attrezzature e ricercatori pagati 900 euro al mese, agli studi sulla leucemia infantile.

Penserete: non è possibile! Invece è così. Dice la legge che «le erogazioni liberali in denaro» a organizzazioni, enti, associazioni onlus (cioè non lucrative di utilità sociale) si possono detrarre dalle imposte per il 19% fino a un tetto massimo di 2065 euro e 83 centesimi. Tetto che per i finanziamenti politici è cinquanta volte più alto: 103.000 euro. Facciamo un esempio? Prendiamo un imprenditore con moglie, due figli, un reddito tondo tondo di un milione di euro l'anno e 423.170 euro di imposte da pagare. Se dona 100.000 euro a una onlus (per dire, una comunità di disabili o i bimbi lebbrosi di Madre Teresa di Calcutta) va a pagare tasse per 422.777 euro con un risparmio di 393. Se invece versa un contribuito di 100.000 euro a un partito va a pagare di Irpef 404.170 euro, con un risparmio di 19.000 euro tondi.

Riassumendo: a dare una mano a chi dedica la vita ad alleviare il dolore ti avanzano i soldi per un masterizzatore. A ingraziarsi la simpatia di una giunta o di una segreteria che possono venire utili per gli affari, risparmi quanto basta per andare in crociera in otto, con moglie, figli, genitori e suoceri a Tahiti e Bora Bora.

Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella
Corriere della Sera - 30 aprile 2007
 
Quei milioni dello Stato alla raffineria di Moratti

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Sul mare di Sarroch, 25 chilometri da Cagliari, costa sud-Orientale della Sardegna, si leva la più grande raffineria di petrolio del Mediterraneo. Quindici milioni di tonnellate di greggio lavorate ogni anno (300 mila barili al giorno), pari a un quarto della capacità di raffinazione italiana. Una grande mammella in cui pompano petrolio e succhiano carburanti clienti come "Shell", "Repsol", "Total", "Eni", "Q8", "Tamoil". è un gioiello industriale di proprietà dei Moratti. è il cuore della "Saras", l' azienda di famiglia. Ma, negli ultimi dieci anni, il denaro che lo ha reso tale è uscito dalle casse dello Stato.

Circa 200 milioni di euro elargiti a fondo perduto, attraverso tre "Contratti di programma" cui hanno messo la firma i presidenti che si sono succeduti nel tempo alla guida del Cipe (il Comitato interministeriale per la programmazione economica). Nomi importanti del centrodestra e del centrosinistra (Giancarlo Pagliarini, Carlo Azeglio Ciampi, Vincenzo Visco, Mario Baldassari, Domenico Siniscalco e Giulio Tremonti), specchio del rapporto bipartisan con la politica della famiglia Moratti. Ai Moratti, quei 200 milioni di euro sono costati un nulla in termini finanziari. E, soprattutto, hanno reso bene. Perché, una volta rinnovati gli impianti, la famiglia ha potuto affacciarsi in Borsa quotando una "Saras" tirata a lustro e dunque fare cassa. Oltre due miliardi di euro. Di cui un miliardo e 700 milioni percepiti da Massimo e Gian Marco Moratti e soltanto 360 milioni (frutto di un aumento di capitale) messi a disposizione del gruppo.

I "Contratti di programma" sono una leva di politica economica per incentivare le imprese a realizzare progetti strategici in aree depresse in periodi di transizione e il loro valore viene per lo più misurato nella creazione di nuovi posti di lavoro. Tra il 1995 e il 2004, la "Saras", caso pressoché unico tra le aziende che ne hanno beneficiato (tra queste, Eni e Fiat), di contratti di programma ne firma tre. Uno dietro l' altro. "Saras I", "Saras II", "Saras III". Sulla carta, interessano solo in parte gli investimenti industriali nella raffineria (attività estranea, del resto, allo spirito dei contratti di programma). Ma soltanto sulla carta. Nel dettaglio, i tre accordi hanno una struttura simile. Una parte riguarda appunto gli investimenti industriali nello stabilimento di Sarroch, l' altra investimenti collaterali in progetti di ricerca. Ad oggi, dei tre contratti stipulati, solo il "Saras I" si è chiuso, mentre gli altri due devono ancora essere sottoposti alla verifica finale del raggiungimento degli obiettivi. Un passaggio che consente al gruppo di approvare un bilancio in cui i finanziamenti pubblici vengono trasformati dalla voce debiti verso lo Stato in quella di sovvenzioni a fondo perduto. Ecco dunque cosa è accaduto.

Il "Saras I" Il piano viene presentato nel 1992 e, accanto agli interventi in raffineria, prevede iniziative nel settore dell' ecologia marina e agro-alimentare. Nel 1994, però, "Saras" presenta un aggiornamento. Viene scorporata una parte degli investimenti industriali, che verranno sviluppati in "project finance", per costruire all' interno della raffineria di Sarroch un impianto di rigassificazione con cui l' azienda si dota di una centrale elettrica - la "Sarlux" - che le consente di accedere all' accordo Cip 6. E dunque di cedere, al Gestore della Rete, l' energia elettrica prodotta con gli scarti della raffinazione (curiosamente considerati assimilate a "fonti rinnovabili") a una tariffa che, nel 2006, è il doppio di quella standard: 136 euro a Megawattora contro una media di 75 (l' accordo, giudicato da più parti scandaloso, è in vigore fino a gennaio 2021, pur assicurando il recupero degli investimenti in soli cinque-sette anni). La seconda parte del "Saras I", invece, cambia radicalmente. Si punta alla creazione di un "Centro Ricerche Associato" (Cra) su progetti ambientali e iniziative nelle biotecnologie. Gli investimenti previsti sono di 252 milioni di euro. Di questi, 209, pari all' 83% del totale, sono destinati alla raffineria con un contributo pubblico di 58 milioni (il 66% dei fondi assegnati al contratto) e i restanti 42 sono per le altre iniziative. Ma quasi tutti a carico dello Stato, che mette a disposizione altri 30 milioni di euro. La verifica e chiusura del contratto, fissata per il 31 dicembre 1999, slitta curiosamente al 10 febbraio 2001. I verbali della commissione di accertamento finale sulla realizzazione del contratto affermano che i risultati sono stati in linea con gli obiettivi fissati. Era prevista la creazione di 277 posti di lavoro e si è arrivati a 282 (ma non è chiaro se vengano o meno conteggiati i lavoratori reintegrati dalla mobilità).

A ben vedere, però, è difficile parlare di un successo, come sottolinea la stessa relazione dell' Unità di valutazione degli investimenti pubblici del Dipartimento Sviluppo Economico (Mise). La spesa pubblica media per ogni occupato è stata di 312 mila euro, quasi il doppio rispetto agli altri contratti di programma chiusi nello stesso periodo e nessun nuovo progetto, estraneo alla raffineria, è sopravvissuto a lungo dopo la conclusione del contratto. Le iniziative nelle biotecnologie sono bocciate dallo stesso verbale della commissione, mentre il "Progetto Ambiente" si esaurisce velocemente. Alcuni occupati finiscono nella società "Saras Ricerche". Altri cercano di avviare una cooperativa (la "Talos"), cessata già nel 2001, e altri ancora sono riassorbiti dalla "Battelle", la multinazionale americana, partner tecnico di Saras nell' iniziativa. Anche la "Sartec", società nata insieme al contratto, viene ridimensionata e si salva solo grazie alla sua conversione nella fornitura di servizi per la capogruppo Saras. Sorte simile tocca anche al "Centro Ricerche Associato", che evita la chiusura confluendo parzialmente in "Saras Ricerche", senza aver mai prodotto un solo nuovo brevetto.

Il "Saras II" è a partire però dal secondo contratto di programma che si nota meglio come la raccolta di investimenti pubblici sia funzionale soltanto all' ottenimento delle agevolazioni per l' ammodernamento della raffineria. Gli investimenti industriali diventano ancora più pesanti e per essere compensati con un' adeguata creazione di posti di lavoro, la Saras sceglie di affiancarli questa volta con servizi per l' informatica (Information & Communication Technology), attività tradizionalmente caratterizzate da un forte impatto occupazionale. Peccato che il fallimento di questa parte dell' iniziativa arrivi addirittura prima della conclusione del contratto. A Macchiareddu (Assemini, Cagliari) doveva nascere la "Città dell' Innovazione", un polo distrettuale attivo in settori ad alto contenuto tecnologico. Per ogni iniziativa era prevista la costituzione di una nuova società, partecipata sempre dal gruppo Saras attraverso una holding ("Atlantis") e, in ragione dei diversi filoni di investimento, da un partner tecnico. Tra questi, la società "Il Sestante" e "Bnl Multiservizi", dell' omonimo gruppo bancario. Nulla di tutto ciò accadrà.
Il Contratto "Saras II" viene approvato il 26 giugno 1997 e inizialmente prevede per la raffineria lavori per 185 milioni, il 54% dei quali a carico dello Stato, con la creazione di 50 posti di lavoro. La "Città dell' Innovazione", invece, ha un costo complessivo di 57 milioni di euro, (il 66% in agevolazione pubblica), con un obbiettivo di 196 posti di lavoro. Mentre gli investimenti industriali giungono a termine nel 2002, la "Città dell' Innovazione" nasce già morta. I contrasti tra i soci e l' inadeguatezza scientifica dei partner portano a un ridimensionamento dell' iniziativa, che trova conferma nella riscrittura del contratto il 3 maggio 2001. Gli investimenti per la "Città dell' Innovazione" scendono da 57 a 34 milioni di euro con l' inspiegabile crescita in percentuale dell' agevolazione pubblica e dell' occupazione (che sale da 196 a 250 unità). "Saras" approfitta della rinegoziazione per aumentare anche gli investimenti per la raffineria a 220 milioni di euro, con un contributo pubblico che cresce da 101 a 112 milioni, a fronte di una nuova occupazione di 75 unità contro le 50 originarie. Manca ancora la verifica finale del Contratto (per la messa in liquidazione di "Atlantis" e il subentro nelle attività di un nuovo soggetto, la "Saras Lab"). Ma i numeri evidenziano ancora una volta come la raffineria sia l' unico interesse per la "Saras". E come il secondo filone degli investimenti sia solo servito per diluire il costo affrontato dallo Stato per creare posti di lavoro. Su una spesa totale di 254 milioni di euro, ben l' 87% è stato destinato all' impianto di Sarroch, come del resto è finito alla raffineria l' 82% delle agevolazioni pubbliche (112 milioni su totale di 137 milioni). Gli investimenti in raffineria (111 milioni di euro) hanno creato 75 posti di lavoro per un costo unitario a carico del pubblico di 1,5 milioni di euro. Un' enormità se confrontato con la media di 109 mila euro per posto di lavoro dei 10 contratti di Programma siglati dal Cipe tra il '92 e il '99. Né il dato è destinato a diventare lusinghiero se anche in sede di verifica dovesse essere riconosciuto al "Saras II" la creazione di 250 posti di lavoro. Perché, anche in questo caso, il costo per ogni nuova unità di lavoro sarà di 421 mila euro, il quadruplo della media degli altri contratti di programma. Curioso anche il destino delle attività di Information Tecnology. La holding "Atlantis" finisce in mano ai soci de "Il Sestante", mentre tutte le altre attività non liquidate passano o sotto "Saras Lab" o sotto "Akhela", la società del gruppo "Saras" che ha raccolto l' eredità di tutte le controllate dal secondo al terzo Contratto di Programma.

Il "Saras III" Nel terzo contratto di programma, gli investimenti in raffineria sono controbilanciati ancora una volta da iniziative ad alta intensità di lavoro, come la creazione di un call center, tra l' altro mai avviato. Si ripropone la scommessa sull' Information & Communication Technology (Ict). E, per questo, vengono rianimate società già finanziate nei passati contratti come "Saras Ricerche", "Sartec" e "Saras Lab". Il Contratto viene siglato il 10 giugno 2002. Prevede investimenti in raffineria per 92 milioni di euro (41,55 di sovvenzione pubblica) con la creazione di 22 nuovi posti di lavoro e investimenti nell' Ict per 23,4 milioni (10,34 a carico dello Stato) con una stima di 313 nuovi occupati entro il 2003. Mentre gli investimenti in raffineria vengono portati a termine nel 2004, con la proroga di un anno rispetto alla previsione, le altre iniziative, come nel "Saras II", sollecitano i Moratti a rinegoziare il contratto «per intervenute turbative nel mercato del settore», compromettendo anche i finanziamenti industriali. Nel dicembre 2004, il Cipe firma il nuovo accordo. Il termine per gli investimenti è fissato a dicembre 2005, ma gli aiuti pubblici per la raffineria, a parità di posti occupati, scendono da 41,55 a 27,5 milioni, mentre quelli nell' Information technology da 10,3 a 2,9 milioni e i nuovi posti di lavoro da 313 a soli 55. Non è ancora stata redatta la verifica finale, ma come annota l' Unità di valutazione degli investimenti pubblici, si tratta di un nuovo fallimento. Su 85,91 milioni di investimenti, il 92% sono stati destinati alla raffineria, così come il 90% delle agevolazioni (27,5 milioni su un totale di 30,4). Ogni nuovo lavoratore della raffineria è costato allo Stato 1,25 milioni di euro, una media assolutamente al di fuori dei parametri di altri contratti di programma, controbilanciata solo in parte dai nuovi posti creati nell' Information technology.

Nel complesso, i posti di lavoro del terzo contratto Saras sono costati alle casse dello Stato 405 mila euro l' uno. "Saras I", "II" e "III". Tiriamo le somme. è evidente come il "business" tra lo Stato e i Moratti sia stato non solo sbilanciato, ma di gran lunga ripagato dai contributi pubblici. Con i tre contratti, Saras realizza investimenti in raffineria per 508 milioni di euro, per i quali ne riceve dallo Stato 197,17. Nelle attività collaterali, invece (che non avrebbe mai fatto), la società della famiglia Moratti investe complessivamente 83,8 milioni, ricevendone contemporaneamente 58,2 in agevolazione. Il che vuol dire, una spesa netta di 25,6 milioni di euro. Ora, non è difficile capire come 25,6 milioni di euro possano ben valere una contropartita a fondo perduto di 197,17 milioni di euro (un finanziamento come questo, sul mercato, oltre a prevedere il rimborso del capitale, costerebbe circa il 5-6% l' anno in interessi). Né evidentemente è di conforto sapere che il "gioco" è costato allo Stato tra i 400 mila e il milione di euro per ogni nuovo lavoratore "creato" dai Moratti.

Carlo Bonini e Walter Galbiati
Fonte: www.repubblica.it
26.05.07
 

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