Come la Cina vede l'economia mondiale

Fleursdumal

फूल की बुराई
Ci sono un pò di imprecisioni sui dati economici ma tutto sommato resta una lettura interessante, na volta che Blondet non se la prende con gli ebrei

effedieffe.it

Durante una recente visita a Singapore, Donald Rumsfeld ha biasimato la crescita delle spese militari cinesi.
A Pechino, la sortita ha provocato amari sarcasmi: durante i quattro anni del suo primo mandato, Bush ha speso per armamenti, a colpi di 400 miliardi l’anno, ben 1500 miliardi di dollari.
Questa cifra – 1,5 trilioni – supera l’intero prodotto interno lordo cinese del 2004.
Già la relazione tra queste cifre deve far riflettere: è davvero la Cina – un’economia che è dieci volte inferiore a quella degli USA, con spese militari di meno di un decimo – l’origine dei problemi in cui ci dibattiamo?

Pechino sta riflettendo, con crescente sospetto, sul gioco paradossale a cui è obbligata: gli Stati Uniti mantengono un deficit commerciale enorme, pari al 6% del loro colossale PIL(10,3 trilioni di dollari); e le spese militari americane sono il 4% del PIL.
Ciò significa che è proprio la Cina a pagare le spese militari americane: guadagnando con le sue esportazioni montagne di dollari, che poi è costretta a reinvestire in titoli denominati in dollari e tipicamente in Buoni del Tesoro americano, non fa – insieme con gli altri partner commerciali grandi esportatori in USA – che coprire il deficit USA, e con ciò, fornire a Washington una volta e mezzo il costo del suo apparato militare.
Il quale sarà un giorno o l’altro usato contro la Cina o qualunque altro partner commerciale, per qualsiasi ragione, non escluse le dispute sul commercio.
E’ una visione paradossale e inattesa della realtà, e illuminante.
La Cina, apparente trionfatrice della competizione globale, sta giungendo alla conclusione che in essa è una pedina del grande gioco americano.
Lo dice l’analista finanziario Henry C. K. Liu, di formazione americana (dirige il Liu Investment Group a New York) ma nazionalista cinese, che dà voce alle ansie dei circoli del potere di Pechino (1).
Vale la pena di seguirne i ragionamenti.

Durante il mezzo secolo di guerra fredda, ragiona Liu, non esisteva il “libero commercio internazionale”.
Le economie dei due blocchi erano quasi totalmente separate e reciprocamente chiuse.
All’interno di ogni blocco, i rapporti economici fra Stati regolamentati: disciplinati da trattati commerciali, spesso dettati dalla superpotenza rispettiva, o sotto forma di “aiuti” agli alleati o Paesi “fratelli”.
La competizione non era sul profitto, ma sulla “conquista” ideologica delle menti e dei cuori dei sudditi nei due blocchi; ciò obbligava ciascuna delle due superpotenze in qualche misura non solo a “prendere” dalle economie-satelliti, a sfruttarle, ma anche a “dare” loro qualcosa.

La convergenza verso una certa uguaglianza di benessere, era, se pur non sempre verificata in pratica, un orizzonte politico cui tendere.
E di fatto l’economia mondiale della guerra fredda, con l’import-export governato politicamente (trattati commerciali e “aiuti allo sviluppo”), ha ridotto la povertà meglio e più della globalizzazione presente con la sua libera esportazione di capitali, merci e uomini.
Nel vecchio ordine lo scopo non era tanto e solo la crescita della ricchezza individuale, ma la riduzione delle disparità di reddito e delle iniquità sociali, dettata dalla necessità di guadagnare il consenso politico fra i satelliti; e bisogna ammettere che nel blocco sovietico, se la creazione di ricchezza mancò, la via verso l’uguaglianza funzionò; il che spiega la nostalgia diffusa all’Est per il sistema socialista.
Uno degli imperativi morali della vita umana sociale – più importante dell’arricchimento individuale – veniva soddisfatto.
Fra Stati e dentro gli Stati.

Da quasi un ventennio, l’economia mondiale è stata unificata solo in base alla competizione sui profitti.
La crescita economica è stata affidata in esclusiva agli “spiriti animali” del capitalismo, liberati da ogni pastoia dalla dottrina neoliberista globale, concepita e guidata dagli USA (la sola superpotenza rimasta), finanziata dal dollaro USA (la sola moneta di riserva per il commercio) e ancorata all’immenso mercato di consumo USA, reso possibile dalle alte paghe dei lavoratori americani.
Secondo il dogma liberista, dazi e tariffe sono stati abbattuti in ogni Paese, e si è insediata un’autorità sovrannazionale (il WTO) per sorvegliare che i confini di ogni Paese siano aperti a merci, uomini e capitali: ogni regolamentazione sul commercio di valute è stata parimenti smantellata, e la sua “libertà” è stata messa sotto la sorveglianza di pseudo-Banche Centrali sovrannazionali, indipendenti da ogni pressione politica locale, il Fondo Monetario e la Banca dei Regolamenti Internazionali.
Ciò ha accresciuto in modo esplosivo gli scambi, come previsto dalla dottrina, e favorito la crescita economica; ma a costo di un’inaudita crescita delle disuguaglianze.

Nella stessa America, fra il 1980 e il 2002, l’0,1% della popolazione più ricca ha visto la sua ricchezza raddoppiare; il 10 % dei benestanti hanno sì migliorato il loro reddito, ma assai meno; il restante 90 % ha perso – in un mondo complessivamente più ricco – potere d’acquisto, certezze e benessere.
Washington legittima moralisticamente questo nuovo ordine più iniquo: “il libero commercio globale”, disse Bush in un discorso del 2001, “non è solo un’opportunità economica, è un imperativo morale”, perché la libertà degli scambi e del profitto promuoverebbe “la democrazia, la libertà politica e il rispetto dei diritti umani” nei Paesi che partecipano all’apertura mondiale degli scambi.

Pechino ritiene che questa sia mera ipocrisia, e che nemmeno Washington creda alla moralità del mercato.
Se l’apertura dei mercati crea democrazia, come mai gli USA infliggono blocchi commerciali, l’embargo, ai Paesi che definiscono “non democratici” (come Cuba) o “privi di democrazia e deficienti nei diritti umani” (come l’Iran), o “Stati canaglia” e “Stati che sostengono il terrorismo”?
E’ una lista che sono gli USA a stilare a loro esclusivo arbitrio, e la Cina teme di potervi essere inclusa da un giorno all’altro.
Ma se il libero commercio è la medicina che irrobustisce la democrazia, l’embargo americano equivale a negare il farmaco a un malato.
In realtà, gli Stati Uniti sono cresciuti al riparo dalla competizione mondiale, dietro alti dazi doganali.
Dalla loro fondazione nel 1789, fino alla creazione dell’imposta sul reddito (nel 1913), il principale introito fiscale degli USA era costituito dai dazi, dai prelievi sulle importazioni.
E non si può dire che quel protezionismo abbia ridotto la prosperità americana, e soffocato la sua democrazia.

Pechino è convinta che il liberismo globale, di cui si avvantaggia oggi, sia l’ultima arma degli Stati Uniti per assoggettare i potenziali avversari.
Per i circoli del potere di Pechino vale ancora l’analisi che Deng Xiaoping fece nel novembre 1989, cinque mesi dopo Tienanmen: “gli imperialisti occidentali stanno muovendo al terzo mondo una guerra senza cannoni”, attraverso ciò che loro chiamano “evoluzione pacifica” dei regimi socialisti.
La catastrofe dell’URSS, passata al liberismo con la “cura d’urto” consigliatagli dagli economisti di Chicago e divenuta un vassallo marginale della superpotenza globale, conferma ai cinesi che quell’analisi è giusta
.
Ma perché allora Pechino ha aderito al WTO e gioca al massimo nella competizione globale?
Perché non può farne a meno, se non a costo dell’emarginazione e impoverimento della sua enorme popolazione.
Ma ritiene – ecco il punto – che la globalizzazione sia un fatto temporaneo.
Da un lato, profitta del suo “vantaggio competitivo” basato sui bassi salari, ma sa che alla lunga, solo “il pieno impiego mondiale, con salari crescenti e adeguati al costo della vita” può rendere sostenibile la globalizzazione.
Dall’altro, mira a guadagnare tempo: perché vede allargarsi “la rottura fra la sola superpotenza rimasta e i suoi alleati tradizionalmente deferenti” a causa dei crescenti “conflitti commerciali”; le dispute tra Airbus e Boeing, sulle banane e sull’acciaio hanno questo in comune che gli USA da un lato, e l’Europa - Giappone dall’altro, si accusano l’un l’altro di sostenere le loro esportazioni con sussidi statali occulti; e poiché secondo il WTO lo Stato che subisce la concorrenza sleale è autorizzato a rispondere con ritorsioni, tali dispute possono innescare una catena di protezionismi, con tariffe e dazi elevati contro i prodotti “sussidiati”.
Questi conflitti stanno espandendosi al settore della sicurezza: gli USA vogliono impedire all’Europa di levare l’embargo (che dura da 15 anni) sull’esportazione di armi alla Cina; Israele già esporta armi alla Cina sotto il naso degli USA.
Le ritorsioni imminenti, che equivalgono a dazi protezionistici, suonano la campana a morto per la globalizzazione.

La vera, profonda e mai confessata causa di questa deriva sta nell’architettura finanziaria internazionale, che dà agli USA uno svantaggio sleale e decisivo, non solo sugli altri Paesi, ma anche su Europa e Giappone.
E’ il “vantaggio strutturale monetario” basato sul dollaro.

I Paesi poveri “devono” accumulare un surplus di dollari attraverso le loro esportazioni, nella speranza di poter mettere assieme il capitale necessario allo sviluppo interno (strade, scuole, sanità), e sperare negli investimenti esteri (in dollari).
Ma quelli fra i Paesi poveri che hanno un deficit commerciale sono condannati al sottosviluppo perpetuo, in quanto tutti i dollari e gli investimenti esteri vengono investiti nei settori dell’export dove si guadagnano dollari, sicché non resta capitale per lo sviluppo (istruzione, strade, infrastrutture, sanità): è il caso dell’Africa.
E anche i Paesi che hanno attivi all’export possono dedicare solo pochi dei dollari così guadagnati allo sviluppo interno, in quanto sono obbligati a detenere grandi riserve in dollari per sostenere il cambio della loro valuta nazionale: è il caso della Cina.

Di fatto, come ebbe a dire Sam Mpasu, ministro del Commercio del Malawi durante la riunione del WTO a Cancun (2003): “abbiamo aperto la nostra economia, ed è per questo che siamo a terra”.
La competizione globale per l’Africa significa essere invasa (per l’abolizione dei dazi protettivi) da merci estere, tecnologiche e costose, per pagare le quali non ha che i suoi prodotti agricoli; e di fatto la parte dell’export agricolo dei Paesi poveri (africani per lo più) è passato dal 50% del 1965 a meno del 10% oggi.
E siccome l’economia dei paesi poveri è prevalentemente agricola, il collasso della loro agricoltura ha significato il collasso di tutta intera la loro fragile economia, con la crescita tragica della disoccupazione.
Infatti la globalizzazione non ha ridotto la povertà nelle aree del mondo meno favorite; e tuttavia è vietato mettere in discussione il dogma che gli scambi portano benessere, e hanno ormai rimpiazzato i vecchi programmi di sviluppo nazionale dirigisti.

“Il frasario della globalizzazione è pieno di concetti come ‘democrazia’, ‘libertà d’impresa’ e ‘condivisione delle innovazioni tecnologiche’, ma la realtà è il dominio delle elites, mercantilismo ed egoismo”, scriveva l’inviato del Guardian a Cancun il 13 ottobre 2003.
Di fatto, la competizione globale è un “arbitraggio sui salari”, il capitale va a investire dove i salari sono bassi, per fabbricare merci che venderà dove i salari e il potere d’acquisto sono alti.
La “tigri asiatiche” in via di sviluppo hanno goduto di questo beneficio.
Ma hanno beneficiato relativamente poco dell’esportazione crescente delle loro merci, perché parte rilevante del ricavo è andata a retribuire il capitale estero.

Nei Paesi super-poveri come quelli africani, finirà dunque per imporsi qualche forma di protezionismo.
Proprio se là si irrobustirà la mitica democrazia, la volontà popolare esigerà dai suoi governi la protezione delle produzioni nazionali, contro gli interessi delle elites locali esportatrici.
Ma il protezionismo avanza nell’intero scacchiere mondiale, sotto la forma celata dei “tassi di cambio flessibili” tra valute.
Mentre il WTO veglia che nessuno metta dei dazi, i tassi di cambio sono divenuti una forma di dazio: come noto, gli Stati che svalutano la loro moneta rendono più competitive le loro esportazioni, e più costose (come se vi fosse applicata una tassa) le importazioni.
Il cosiddetto “libero mercato mondiale delle valute” è in realtà manipolato regolarmente da interventi degli Stati allo scopo di bilanciare la bilancia commerciale, variando con acquisti e vendite sapienti di dollari il valore della loro moneta rispetto alla moneta di riserva, appunto il dollaro.

La Cina, come si sa, ricorre alla manipolazione per mantenere la sua moneta “agganciata” al dollaro.
Secondo gli americani, essa si avvantaggia troppo del cosiddetto “purchasing price paritiy” (PPP), che misura la divaricazione tra i tassi di cambio e i prezzi interni cinesi.
I lavoratori cinesi sono pagati un decimo degli europei, perché i prezzi nazionali cinesi sono un decimo dei nostri, e anche meno.
Ma i cinesi ritorcono citando la “parità dei tassi d’interesse”: i capitali esteri in dollari che vanno in Cina ad investire, vogliono un tasso di profitto sul capitale almeno pari a quello che potrebbero lucrare in USA o in Europa.
E poiché il PPP cinese è quattro volte inferiore a quello americano (il lavoratore cinese compra il cibo locale a prezzi quattro volte inferiori, o più, dell’americano) il prelievo del capitale estero sulla produttività cinese è il quadruplo, in termini reali, di quello che lo stesso capitale preleverebbe dagli USA; e l’esigenza del tasso di profitto “alla pari” implica che le paghe cinesi devono restare almeno quattro volte inferiori a quelle USA (il 75% in meno): è questo l’incentivo per le delocalizzazioni in Cina, dopotutto.
Ma il vantaggio cinese ha i suoi effetti collaterali gravosi: il rincaro del petrolio – uguale per tutti in dollari - costa in realtà all’economia cinese quattro volte di più che in USA, in merci o in salari.
Nel complesso, Pechino vede quello che tutti gli rimproverano, il suo PPP quattro volte inferiore a quello degli USA, non come un vantaggio ma come una tirannia. “Più è grande la disparità dl potere d’acquisto tra lo yuan e il dollaro, più è pesante la tirannia del dollaro nel tenere bassi i differenziali di salari”.

Il mondo non è stato sempre dominato dalle “spontanee” fluttuazioni dei cambi, definite giorno per giorno dal volatile incontro fra domanda e offerta.
Nel dopoguerra, con gli accordi di Bretton Woods, il mondo si accordò per un sistema di cambi fissi.
Il dollaro era allora la solida valuta internazionale coperta dall’oro, le altre monete avevano un tasso di cambio verso il dollaro che cambiava solo di rado.
Il cambio fisso era concepito in nome dell’onestà commerciale tra le nazioni, doveva impedire ad uno Stato di mantenere un deficit commerciale perpetuo (come fanno oggi gli USA).
A quei tempi, l’emigrazione di capitali oltre le frontiere per finanziare il “commercio globale” non era considerato né necessario né desiderabile.

Tutto questo è cambiato dal 1971, quando Nixon, di fronte al continuo deficit commerciale americano che svuotava le riserve auree degli Stati Uniti, sganciò il dollaro dall’oro.
Da quel momento comincia la vera e illegittima “egemonia del dollaro”.
Fine dei cambi fissi e decisi politicamente; “libera e spontanea” fluttuazione.
Molti governi hanno dovuto far fluttuare le loro monete rispetto al dollaro non come risposta alle forze del “mercato”, bensì per mantenere la competitività della loro esportazione.
L’Italia ha svalutato regolarmente la lira a questo scopo; per molti Stati, svalutare (comprare dollari contro la moneta nazionale) è stato il meccanismo per rendere concorrenti le merci o per proteggersi dai contraccolpi dell’egemonia del dollaro sui livelli di vita interni.
L’egemonia del dollaro consiste in questo semplice fatto: gli USA producono dollari a volontà (li stampano) e il resto del mondo produce merci reali che i dollari di carta possono comprare.
Ormai, le economie mondiali non commerciano più per profittare dei vantaggi competitivi reciproci, che accrescono il benessere interno; esse competono nell’esportazione per catturare quanti più dollari possono, sia per pagare gli interessi sui debiti esteri (denominati in dollari), sia per accumulare enormi riserve in dollari il tasso di cambio della loro moneta sui mercati valutari mondiali.
Più le pressioni dei mercati per svalutare una data moneta sono forti, più la Banca Centrale di quel Paese deve tenere grandi riserve in dollari.

Ciò, naturalmente, configura un meccanismo che rafforza il dollaro; e questo rafforzamento stesso obbliga le altre Banche Centrali ad accrescere le loro riserve, a detenere ancora più grandi cumuli di dollari, aumentando la forza della divisa americana.
Una divisa senza copertura aurea, stampata con larghezza eccessiva, emessa da un paese indebitatissimo, si rafforza mentre dovrebbe deprezzarsi.
E’ questa la forza imperiale, nel senso meno legittimo.
Un tempo quel compito fu della sterlina.
Negli anni ’20, mentre tutti i Paesi europei svalutavano, Londra si dissanguò per mantenere altissimo il costo della sterlina.
Ci si domanda perché, visto che una sterlina forte rendeva costose (meno competitive) le merci britanniche.
Ma l’impero non è guidato da questo genere di convenienze; Londra in realtà non aveva quasi nulla da vendere all’estero.
Così oggi è per gli Stati Uniti: il dollaro forte è nei suoi interessi imperiali, perché da un lato mantiene l’inflazione americana a livelli bassi con l’importazione di merci estere a basso costo, e dall’altro rende costosi per gli investitori stranieri “gli attivi in dollari” che essi sono obbligati a comprare.
Infatti gli stati esteri grandi esportatori, come la Cina, accumulano dollari, che per definizione devono poi investire in titoli denominati in dollari – dove creano quell’enorme surplus di conto capitale.
Gli USA sono deficitari nella bilancia commerciale, ma hanno un enorme attivo monetario: i suoi stessi creditori, quelli che gli vendono le merci fatte col sudore dei loro cittadini, gli prestano di continuo il denaro che gli manca.
Ed a caro prezzo, perché i BOT americani e le azioni e obbligazione americane sono in dollari “forti”.

E’ per questo che l’economia USA “cresce” da decenni, di fronte a crisi finanziarie ricorrenti nel resto del mondo.
E’ l’economia USA e la sua egemonia del dollaro che ha distorto la globalizzazione in quella “corsa al ribasso” che vediamo, dove si sfrutta il lavoro con i salari più bassi possibili per guadagnare dollari.
Gli effetti avversi per le economie in sviluppo sono ovvii: deruba i loro lavoratori dei magri frutti, e mantiene le loro economie affamate di capitale, perché tutti i dollari guadagnati in surplus devono essere mantenuti nelle riserve – e di fatto investiti in BOT americani – per “interventi” che impediscano il collasso delle loro monete nazionali.

Ma questo tipo di globalizzazione ha effetti negativi anche sull’economia americana. Forzati ad essere i “consumatori di ultima istanza” delle merci del mondo intero, gli americani si trovano prigionieri in una bolla debitoria che si gonfia di ulteriori consumi e di frodi contabili.
Il rialzo dei corsi azionari e dei prezzi immobiliari, che viene additato come il segno della “prosperità” e del “boom perpetuo” statunitense, non è in realtà sostenuto da alcun aumento di redditi e di profitti americani: non è altro che una svalutazione di fatto (e mascherata) del dollaro.

D’altra parte, la tendenza al calo delle azioni USA e l’ormai imminente scoppio della bolla speculativa immobiliare si tradurranno in un rafforzato potere d’acquisto interno del dollaro, poiché la stessa quantità di dollari potrà comprare più azioni e più metri quadri di prima.
La crescita del potere d’acquisto interno del dollaro s’intreccia al PPP (o più precisamente alla disparità del potere d’acquisto interno degli altri Paesi) in modo tale, da causare acute instabilità nelle economie che hanno una moneta liberamente scambiabile, e insieme tentano di mantenere un tasso di cambio stabile col dollaro: la rovina dell’Argentina fu causata da questo.

Quanto agli USA, un tasso di cambio calante del dollaro provoca l’aumento dei prezzi degli attivi; sicché, a causa dell’enorme debito americano, un dollaro forte non serve più l’interesse nazionale USA.
Il debito ha rovesciato la politica monetaria americana.
In ogni caso, il modello di “crescita” e di “prosperità” americano non è proponibile ad altri Stati: e sbaglia chi lo addita agli italiani.
L’aumento dei consumi finanziato da stranieri è un lusso, che solo gli USA possono permettersi.
Gli USA sono il solo Paese con una vera sovranità monetaria, con la capacità sovrana di definire il valore di cambio della sua moneta.
Inoltre, sono la sola potenza egemone che può imporre la sua convenienza come “ortodossia economica”: negli anni ‘80, per proteggere le sue esportazioni, la Casa Bianca cantava le lodi dei cambi fissi.
Oggi che non ha nulla da esportare e il dollaro cala, la Casa Bianca biasima il cambio fisso che la Cina mantiene sul dollaro come una sleale manipolazione, e in tal modo addossa ad altri la colpa del proprio deficit.

Nel 1985, quando a trovarsi nella posizione di grande esportatore era il Giappone, gli Stati Uniti imposero a Tokio (con il cosiddetto Plaza Accord) la rivalutazione dello yen.
La scusa era che il Giappone esportava “troppo” e lo yen sottovalutato rendeva le sue merci “troppo” competitive.
L’effetto (deliberatamente perseguito) fu di trasferire il costo del sostegno del deficit commerciale americano, e i relativi costi sociali, dagli USA ai giapponesi.

Oggi, il rafforzamento dell’euro – ottenuto dalla Federal Reserve con il calo pilotato del dollaro – serve allo stesso scopo.
Non serve a ridurre il deficit Usa, perché questo continua anzi a gonfiarsi, benché il dollaro abbia perso il 30% sull’euro.
Serve invece a tramutare l’euro, come già lo yen, in una moneta subordinata all’egemonia del dollaro.
E’ questo che persegue ostinatamente la Banca Centrale Europea (BCE) con la sua politica di “controllo dell’inflazione” e di “solidità monetaria”: addossare agli europei i costi sociali dell’enorme debito americano.
Ciò significa che né l’euro né lo yen sono veramente monete indipendenti e sovrane.

E’ questa, secondo i cinesi, la ragione profonda della rivolta degli europei contro la UE, segnalata dal “no” franco-olandese alla Costituzione: è la rivolta contro la politica servile della BCE all’egemonia del dollaro, ad una situazione in cui la “solidità” dell’euro diventa distruttiva per l’economia europea, e le politiche di riduzioni fiscali (la supply side economy che funzionò così bene in USA sotto Reagan) diventano insostenibili.

In conclusione, la necessità di mantenere grandi riserve in dollari da parte delle economie dello yen, dell’euro e ora dello yuan cinese, sostiene la “crescita perpetua” degli USA – il cui costo è pagato da quelle economie.
Un costo che si manifesta in pressione al ribasso dei salari in Europa, Cina e Giappone, e in consumi interni asfittici.
Per UE e Giappone, il costo da pagare prende la forma di smantellamento delle previdenze sociali e della sicurezza del lavoro tradizionali nelle nostre economie.
Per la Cina, che ha salari bassi (ed è il secondo creditore del mondo), il prezzo consiste nel dover elemosinare dagli USA, il più grande debitore mondiale, i capitali – in dollari che gli USA possono stampare a volontà – per finanziare le sue esportazioni in USA.

Di qui la rivolta che cova in Europa, dove ormai si contano quasi 67 milioni di disoccupati – grazie all’euro “forte”.

Ma la globalizzazione basata sull’egemonia del dollaro degrada infine anche la superpotenza egemone.

Normalmente (come accadeva con il dollaro a copertura aurea), uno sbilancio commerciale non poteva durare in eterno; presto o si ricomponeva l’equilibrio, o il commercio internazionale semplicemente si bloccava.
Uno Stato che incorre in un deficit commerciale lo deve al fatto che è diventato temporaneamente meno competitivo e produttivo, meno efficiente.
Questo Stato riceve più merci e servizi dagli Stati esportatori (che hanno un attivo commerciale) delle merci che può dare in cambio e paga perciò la differenza con la sua valuta: questa, accumulata dagli Stati con attivi commerciali, un giorno comprerà i beni del paese in deficit, e ciò ristabilirà l’equilibrio dei pagamenti.
Se questo non avviene – se lo Stato deficitario incorre in deficit commerciali in modo ripetuto – diventa quello che le banche considerano un indebitato cronico, uno che vive al disopra dei suoi mezzi.
Di conseguenza, la sua moneta tende a svalutarsi (ce n’è troppa nei forzieri degli esportatori, e può comprare meno merci); con la moneta in ribasso, le merci dell’indebitato diventano “competitive” e l’equilibrio si ricompone – con il costo del riequilibrio a carico del debitore.

L’egemonia del dollaro impedisce agli USA di tornare a questo tipo di equilibrio, e gli permette di detenere un deficit perpetuo e crescente.
La Federal Reserve ha rialzato i tassi d’interesse dall’1 al 4,25% in un anno: questa misura, che rischiava di soffocare il malsano boom americano, l’ha invece prolungato, perché ha attratto fiumi di capitale in cerca di alti interessi dall’estero.
E infatti l’aumento dei tassi non ha lo scopo che Greenspan ripete, tenere sotto controllo l’inflazione; ha lo scopo di prevenire la vendita di dollari da parte delle Banche Centrali estere.
La conseguenza di tutto ciò è che in USA c’è abbondanza di liquidità, i prezzi sono bassi per le importazioni di prodotti a prezzo basso dalla Cina, i consumatori americani spendono di più benché i loro salari non crescano perché valgono di più (sulla carta) le case e i terreni che possiedono; la produttività apparente cresce.
E gli USA hanno abbastanza denaro (glielo prestiamo noi e i cinesi) da aumentare i loro investimenti diretti all’estero, ossia nei Paesi a basso reddito, e specificamente nelle industrie di quei Paesi che producono beni da esportare – in USA, per guadagnare dollari.
Un circolo vizioso.
Una delle conseguenze più fatali, anche se meno denunciate, è che l’inefficienza produttiva americana, la sua minore “competitività”, anziché temporanea, tende a diventare permanente.
E infatti l’economia americana nel suo complesso si degrada, s’indebolisce ogni giorno di più, in una spirale discendente.
L’economia USA, invasa da merci a basso costo, peggiora in “qualità”.
Questa perdita di “qualità” si manifesta infatti in America con la “fuga all’estero dei posti di lavoro”, la colossale delocalizzazione delle multinazionale americane che chiudono fabbriche in USA per aprirle in Cina o in Thailandia, in Irlanda e in India. E questa fuga non colpisce più i lavori meno qualificati; gli USA stanno perdendo anche lavori qualificati, ingegneri ed esperti di software si vedono portar via lavoro e stipendio dagli indiani; insomma il degrado tende a salire verso le mansioni più alte, quelle che erano l’orgoglio dell’America.

L’intero “mercato mondiale” va alla ricerca affannosa dei prezzi minimi possibili, da ottenere attraverso la caccia ai salari minimi possibili, anziché – come dovrebbe essere in un’economia sana – perseguire mercati resi più grandi e ricchi attraverso paghe alte e crescenti, ossia mettendo più potere d’acquisto nelle tasche dei consumatori.
E’ un sistema sostenibile?
Non lo è, pensano nelle stanze del potere di Pechino.
E si preparano alle imminenti “guerre commerciali”.
E forse anche alle non-commerciali.



di Maurizio Blondet



Note

1) Henry C. K.Liu, “The coming trade war”, Asia Times, 24 giugno 2005.
 

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