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corriere ticino, oggi
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ITALIA, SVOLTA NELLE RELAZIONI INDUSTRIALI
PIERO OSTELLINO
Il «sì» degli operai dello stabilimento del­la Fiat di Pomigliano al referendum sul piano che era stato loro sottoposto dal­l'amministratore delegato, Marchionne, è una svolta storica nelle relazioni industriali italia­ne.
Il fatto che a votare «sì» sia stato (solo) il sessanta per cento dei votanti nulla toglie al­l'importanza della votazione per almeno due ragioni.
Prima:
perché, per la prima volta, dei lavora­tori hanno sconfessato la rigidità delle tutele del loro Statuto - e indirettamente chi si era opposto al referendum - in cambio della ga­ranzia del posto di lavoro. La sinistra estrema e persino certe frange del Partito democratico (la Bindi, ad esempio) sostengono, ora, non del tutto a torto, che si è trattato della rinun­cia ad alcuni diritti, anche se chiamarli tali è, secondo me, quanto meno, eccessivo.
Ma si trat­tava pur sempre di diritti che finivano con ab­bassare la produttività dello stabilimento e ne giustificavano, pertanto, il trasferimento in Po­lonia. Del resto, è proprio su questo tasto che aveva insistito Marchionne. Gli stabilimenti della Fiat in Italia, compreso Mirafiori a Tori­no, producono, con più operai, meno automo­bili di quelli all'estero, Polonia e Brasile, che ne hanno meno; il che vuol dire che la produt­tività degli operai italiani è inferiore a quella degli operai polacchi e brasiliani e, di conse­guenza, che le automobili prodotte in Italia co­stano all'azienda più di quelle prodotte all'este­ro. La minaccia di trasferire lo stabilimento in Polonia aveva, dunque, un fondamento diffi­cilmente confutabile.
Il fatto, poi, che una par­te del sindacato (la Fiom), la sinistra estrema e alcuni del Pd non lo abbiano capito vuol so­lo dire che la loro cultura industriale è arre­trata di almeno una trentina d'anni.
Seconda:
l'esito del referendum crea un precedente, anche se tutti, ora, si affannano a negare che la situazione si possa ripetere altrove e in altre circostanze. Lo crea perché: a) dimostra che nel sindacato c'era, e c'è ancora, poca democrazia. Finora, figlia di una cultura che potremmo chiamare marxista-leninista, la prassi era stata che a decidere la natura delle relazioni industriali, compreso il ricorso allo sciopero, erano i vertici del sindacato, nella presunzione, appunto di matrice comunista, che gli operai, da soli, non sapessero quali fossero i loro reali interessi. B) chiamati a esprimersi, col referendum, sui propri interessi, gli operai hanno mostrato di sapere benissimo in che cosa consistano: nella difesa del posto di lavoro a fronte di garanzie, chiamiamole pure così, che mortificavano, con la produttività, la loro stessa dignità di lavoratori, e inducevano il «padrone» a prendere decisioni radicali. C) si riducono, in tal modo, anche le occasioni di delocalizzazione delle aziende italiane che, d'ora in poi, potranno sempre, prima di prendere decisioni in tal senso, chiedere ai loro dipendenti che ne pensino. È il caso di dire che non si è neppure trattato di una sconfitta del sindacato, bensì di una concreta vittoria della democrazia.
Se, adesso, Marchionne si rimangiasse quanto ha detto finora e prendesse la decisione di trasferire ugualmente lo stabilimento in Polonia - con la giustificazione che i «sì» al referendum sono stati (solo) il sessanta per cento e non l'ottanta come sperava - commetterebbe un errore imperdonabile, con conseguenze catastrofiche sia sotto il profilo sindacale, sia sotto quello politico, sia sotto quello sociale
. Da un lato, sconfesserebbe il sindacato che ha sostenuto il referendum; dall'altro, darebbe ragione politicamente agli estremi sti, ricacciando indietro l'Italia di qualche decennio; infine, creerebbe una situazione sociale esplosiva in una regione, la Campania, oltre che afflitta da una forte disoccupazione, dalla presenza della grande criminalità (la Camorra) che prenderebbe la palla al balzo per rafforzarsi sul territorio.
Del resto, che la sinistra sia integralista e oltranzista, ancora legata ai vecchi schemi antidemocratici e dell'opposizione per l'opposizione, lo prova un fatto che è speculare a quanto è accaduto a Pomigliano.
L'Italia «laica, democratica, antifascista» è in piazza al grido, sconsiderato, di «intercettateci tutti», che evoca, piaccia o no, proprio il fascismo o, se si preferisce, il comunismo con il loro Stato di polizia, sia che si tratti dell'Ovra, la polizia segreta fascista che perseguitava gli antifascisti, sia che si tratti della Stasi, la polizia segreta della Repubblica democratica tedesca, del film «Le vite degli altri».
Insomma, la cultura po litica della sinistra, del tutto irrazionale, ha prodotto il bel risultato che alcune centinaia di migliaia di italiani che si credono democratici e progressisti, in realtà, pensano e si comportano come nostalgici del fascismo, se non proprio fascisti essi stessi. L'opposizione alla proposta di legge del governo sulle intercettazioni in discussione in Parlamento, qui, non c'entra.
La legge è francamente bruttarella - soprattutto nella parte che inibisce ai giornalisti di fare il loro mestiere, minacciando il carcere a loro e pesanti sanzioni economiche ai loro editori - ma è pur sempre modificabile e, in ogni caso, non la si combatte invocando lo Stato di polizia. Ma tant'è.
Egemonizzata dal quotidiano liberal che - per ragioni editoriali (gli scandali di natura privata, fra escort e preferenze sessuali inconfessabili, rendono copie) e per ragioni politiche (vuole imporre la propria linea al Partito democratico) - la sinistra cosiddetta riformista fi nisce con essere prigioniera del proprio passato marxista-leninista e di perdere ogni credibilità. È un peccato, un vero peccato che - fra l'atteggiamento verso il referendum di Pomigliano e le nostalgie totalitarie della sconsiderata invocazione «intercettateci tutti» nel caso della pur legittima opposizione a una legge discutibile - il riformismo, in Italia, abbia fatto, in questi giorni, un altro passo indietro.
A Pomigliano col referendum, come in Parlamento, con la discussione della legge sulle intercettazioni, non erano in discussione le libertà degli italiani, ma una certa Italia vecchia, illiberale, contraria alla modernità, cioè il contrario delle libertà della democrazia liberale.
È l'Italia anacronistica del sindacato e della politica che non crede nelle libertà individuali e nella democrazia che ne esce sconfitta.
Ma fino a quando? Questo è il problema .
Piero Ostellino
corriere ticino, oggi
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ITALIA, SVOLTA NELLE RELAZIONI INDUSTRIALI
PIERO OSTELLINO
Il «sì» degli operai dello stabilimento del­la Fiat di Pomigliano al referendum sul piano che era stato loro sottoposto dal­l'amministratore delegato, Marchionne, è una svolta storica nelle relazioni industriali italia­ne.
Il fatto che a votare «sì» sia stato (solo) il sessanta per cento dei votanti nulla toglie al­l'importanza della votazione per almeno due ragioni.
Prima:
perché, per la prima volta, dei lavora­tori hanno sconfessato la rigidità delle tutele del loro Statuto - e indirettamente chi si era opposto al referendum - in cambio della ga­ranzia del posto di lavoro. La sinistra estrema e persino certe frange del Partito democratico (la Bindi, ad esempio) sostengono, ora, non del tutto a torto, che si è trattato della rinun­cia ad alcuni diritti, anche se chiamarli tali è, secondo me, quanto meno, eccessivo.
Ma si trat­tava pur sempre di diritti che finivano con ab­bassare la produttività dello stabilimento e ne giustificavano, pertanto, il trasferimento in Po­lonia. Del resto, è proprio su questo tasto che aveva insistito Marchionne. Gli stabilimenti della Fiat in Italia, compreso Mirafiori a Tori­no, producono, con più operai, meno automo­bili di quelli all'estero, Polonia e Brasile, che ne hanno meno; il che vuol dire che la produt­tività degli operai italiani è inferiore a quella degli operai polacchi e brasiliani e, di conse­guenza, che le automobili prodotte in Italia co­stano all'azienda più di quelle prodotte all'este­ro. La minaccia di trasferire lo stabilimento in Polonia aveva, dunque, un fondamento diffi­cilmente confutabile.
Il fatto, poi, che una par­te del sindacato (la Fiom), la sinistra estrema e alcuni del Pd non lo abbiano capito vuol so­lo dire che la loro cultura industriale è arre­trata di almeno una trentina d'anni.
Seconda:
l'esito del referendum crea un precedente, anche se tutti, ora, si affannano a negare che la situazione si possa ripetere altrove e in altre circostanze. Lo crea perché: a) dimostra che nel sindacato c'era, e c'è ancora, poca democrazia. Finora, figlia di una cultura che potremmo chiamare marxista-leninista, la prassi era stata che a decidere la natura delle relazioni industriali, compreso il ricorso allo sciopero, erano i vertici del sindacato, nella presunzione, appunto di matrice comunista, che gli operai, da soli, non sapessero quali fossero i loro reali interessi. B) chiamati a esprimersi, col referendum, sui propri interessi, gli operai hanno mostrato di sapere benissimo in che cosa consistano: nella difesa del posto di lavoro a fronte di garanzie, chiamiamole pure così, che mortificavano, con la produttività, la loro stessa dignità di lavoratori, e inducevano il «padrone» a prendere decisioni radicali. C) si riducono, in tal modo, anche le occasioni di delocalizzazione delle aziende italiane che, d'ora in poi, potranno sempre, prima di prendere decisioni in tal senso, chiedere ai loro dipendenti che ne pensino. È il caso di dire che non si è neppure trattato di una sconfitta del sindacato, bensì di una concreta vittoria della democrazia.
Se, adesso, Marchionne si rimangiasse quanto ha detto finora e prendesse la decisione di trasferire ugualmente lo stabilimento in Polonia - con la giustificazione che i «sì» al referendum sono stati (solo) il sessanta per cento e non l'ottanta come sperava - commetterebbe un errore imperdonabile, con conseguenze catastrofiche sia sotto il profilo sindacale, sia sotto quello politico, sia sotto quello sociale
. Da un lato, sconfesserebbe il sindacato che ha sostenuto il referendum; dall'altro, darebbe ragione politicamente agli estremi sti, ricacciando indietro l'Italia di qualche decennio; infine, creerebbe una situazione sociale esplosiva in una regione, la Campania, oltre che afflitta da una forte disoccupazione, dalla presenza della grande criminalità (la Camorra) che prenderebbe la palla al balzo per rafforzarsi sul territorio.
Del resto, che la sinistra sia integralista e oltranzista, ancora legata ai vecchi schemi antidemocratici e dell'opposizione per l'opposizione, lo prova un fatto che è speculare a quanto è accaduto a Pomigliano.
L'Italia «laica, democratica, antifascista» è in piazza al grido, sconsiderato, di «intercettateci tutti», che evoca, piaccia o no, proprio il fascismo o, se si preferisce, il comunismo con il loro Stato di polizia, sia che si tratti dell'Ovra, la polizia segreta fascista che perseguitava gli antifascisti, sia che si tratti della Stasi, la polizia segreta della Repubblica democratica tedesca, del film «Le vite degli altri».
Insomma, la cultura po litica della sinistra, del tutto irrazionale, ha prodotto il bel risultato che alcune centinaia di migliaia di italiani che si credono democratici e progressisti, in realtà, pensano e si comportano come nostalgici del fascismo, se non proprio fascisti essi stessi. L'opposizione alla proposta di legge del governo sulle intercettazioni in discussione in Parlamento, qui, non c'entra.
La legge è francamente bruttarella - soprattutto nella parte che inibisce ai giornalisti di fare il loro mestiere, minacciando il carcere a loro e pesanti sanzioni economiche ai loro editori - ma è pur sempre modificabile e, in ogni caso, non la si combatte invocando lo Stato di polizia. Ma tant'è.
Egemonizzata dal quotidiano liberal che - per ragioni editoriali (gli scandali di natura privata, fra escort e preferenze sessuali inconfessabili, rendono copie) e per ragioni politiche (vuole imporre la propria linea al Partito democratico) - la sinistra cosiddetta riformista fi nisce con essere prigioniera del proprio passato marxista-leninista e di perdere ogni credibilità. È un peccato, un vero peccato che - fra l'atteggiamento verso il referendum di Pomigliano e le nostalgie totalitarie della sconsiderata invocazione «intercettateci tutti» nel caso della pur legittima opposizione a una legge discutibile - il riformismo, in Italia, abbia fatto, in questi giorni, un altro passo indietro.
A Pomigliano col referendum, come in Parlamento, con la discussione della legge sulle intercettazioni, non erano in discussione le libertà degli italiani, ma una certa Italia vecchia, illiberale, contraria alla modernità, cioè il contrario delle libertà della democrazia liberale.
È l'Italia anacronistica del sindacato e della politica che non crede nelle libertà individuali e nella democrazia che ne esce sconfitta.
Ma fino a quando? Questo è il problema .
Piero Ostellino