HO CERCATO DI FARE IL QUADRO DELLA SITUAZIONE... NE E' USCITO L'URLO DI MUNCH

Con il termine spread si intende la differenza di rendimento fra i titoli stato decennali italiani
e gli equivalenti tedeschi, rispettivamente i BTP 10Y e i Bund 10Y


Ripercorriamo la storia del rendimento di questi titoli attraverso il database OCSE,
disponibili alla voce “long-term interest rates” (tassi d’interesse a lungo termine) come media mensile, trimestrale e annuale.


L’OCSE offre anche una breve definizione, leggiamola:






« I tassi di interesse a lungo termine si riferiscono ai titoli di Stato che scadono in dieci anni.


I tassi sono determinati principalmente dal prezzo addebitato dal prestatore, dal rischio del debitore e dalla riduzione del valore del capitale.


I tassi di interesse a lungo termine sono generalmente medie dei tassi giornalieri, misurati in percentuale.


Questi tassi di interesse sono impliciti dai prezzi ai quali i titoli di Stato sono negoziati sui mercati finanziari,
non dai tassi di interesse ai quali sono stati emessi i prestiti.


In tutti i casi, si riferiscono a obbligazioni il cui rimborso di capitale è garantito dai governi.


I tassi di interesse a lungo termine sono uno dei fattori determinanti degli investimenti delle imprese.




Bassi tassi di interesse a lungo termine incoraggiano gli investimenti in nuove attrezzature e alti tassi di interesse lo scoraggiano.
Gli investimenti sono, a loro volta, una delle principali fonti di crescita economica.
»


Segue grafico sulle medie mensili del rendimento dei BTP e dei Bund.




FONTE: elaborazione su dati OCSE
La linea rossa più in alto è l’Italia: maggiore è la distanza rispetto alla linea blu (Germania), più elevato è lo spread.


Ecco la ricostruzione di questo indicatore da marzo 1991 fino ad ottobre 2020.





Esaminiamo l’andamento dello spread in ordine temporale: anni 90, anni 2000 e anni 2010 fino ad oggi.

LE PRIME EMISSIONI DI BTP 10Y NEL 1991



FONTE: Archivio Dipartimento del Tesoro – composizione titoli
Nel marzo 1991 sono stati emessi i primi BTP decennali, per un importo pari a 27.000 miliardi di lire.


Il rendimento all’emissione fu del 12,5% quello effettivo (cioè contrattato sul mercato) del 13,7%.


Segue una tabella del MEF con i dettagli delle aste di BTP (3, 5, 10, 30 anni) dal 1979 fino al 2000. Sotto lo “screen” della sezione dedicata ai decennali.




FONTE: Archivio Dipartimento del Tesoro – BTP
Invece la Germania, sempre secondo le serie storiche OCSE, emette titoli con scadenza decennale dal lontanissimo maggio 1956.


Per fare il calcolo dello spread partiamo quindi dal marzo 1991: in questo mese il Bund rendeva il 8,4% contro il 13,7% italiano.


Quindi lo spread all’esordio dei BTP decennali fu del 5,3% ovvero circa 530 punti base, sempre nella media di marzo 91.

LO SPREAD NEGLI ANNI 90




La prima considerazione – piuttosto ovvia – è che lo spread era molto più alto negli anni 90, ma allora perché nessuno urlava al rischio default?


Molto semplicemente perché avevamo la lira, dunque il rimborso dei titoli denominati in moneta nazionale non era mai stato messo in discussione.





Eppure nel mese di ottobre 92 si sfiorarono i 700 punti base, in media.
Il picco massimo giornaliero (secondo fonti come ad esempio Reuters) fu di 769,8 punti il 7 ottobre 1992.


Ma ci fu un nuovo picco dello spread nel 1995 per poi crollare definitivamente.
Ne parla questo articolo de La Stampa datato 8 luglio 1997, intitolato “lo spread di Ciampi adesso parla tedesco“.


Segue la trascrizione intergrale.





ROMA. «Quota cento» è raggiunta: da molti mesi Carlo Azeglio Ciampi sognava questo giorno,
spiando le quotazioni dei titoli di Stato sugli schermi della Reuters fatti installare nel ministero del Tesoro.
Quota cento vuol dire che la differenza dei tassi di interesse a 10 anni tra l’Italia e la Germania
si è ridotta a 100 «punti-base», ossia a un solo punto percentuale (circa 6,6% contro 5,6%).
È un indice molto tecnico, tanto tecnico che non lo si trova stampato nemmeno sul Sole 24 ore.
Ha un nome ostico e multilingue, lo spread sul Bund; i più lo ignorano, senza alcun danno.


«Vado a festeggiare a Santa Severa», in famiglia, ha detto Ciampi quando ha appreso la notizia.
I suoi collaboratori gliel’hanno riferita all’aeroporto, al ritorno da Bruxelles.
Quota duecento, che già sembrava una conquista quando fu raggiunta, all’inizio di novembre,
il ministro del Tesoro l’aveva celebrata con una bottiglia piemontese di Brachetto d’Acqui.
Per lui, è una specie di fissazione, già da quando era presidente del Consiglio.
Però non è campata in aria, visto che si tratta del quarto parametro di Maastricht
(convergenza dei tassi a lungo termine, articolo 109 J del Trattato).





FONTE: Trattato di Maastricht
Anche al ministero dell’Economia spagnolo si fece festa quando la stessa quota fu raggiunta
– con sei mesi di anticipo rispetto all’Italia – venerdì 3 gennaio.
Ora Madrid è tra 60 e 70 «punti base» rispetto alla Germania (i Bund sono i titoli di Stato tedeschi),
ed è quello il prossimo obiettivo per noi; secondo l’Ufficio studi della Banca commerciale italiana,
ci arriveremo in tre-quattro mesi.
La convergenza dei tassi è un fenomeno continentale, facilitato dagli sforzi di risanamento di tutti i Paesi
e da favorevoli condizioni internazionali.



I tassi a lungo termine (misurati sui titoli di Stato) sono determinati essenzialmente dai mercati,
con scarsissima influenza delle banche centrali («se abbasso troppo i tassi a breve il mercato mi alza quelli a lungo»
è la massima che ispira la prudenza dei governatori).
Nelle grandi linee, le loro fluttuazioni dipendono da fattori internazionali.
Ma i movimenti specifici di ciascun Paese sono direttamente legati alla maggiore o minore fiducia degli investitori internazionali.
Negli uffici del Fondo monetario, a Washington, si disegnano grafici
che incrociano il differenziale dei tassi Italia-Germania con il livello della febbre politica.



Nel momento peggiore di instabilità, il marzo ’95 (governo Dini con maggioranza incerta, manovra di finanza pubblica a rischio di bocciatura)
il differenziale raggiunse d’impeto quota 650 (la Spagna era poco sopra 500);
l’accordo sulla riforma Dini delle pensioni lo fece scendere sotto 500 (mentre la Spagna viaggiava già verso 400);
con il caso Mancuso e il rischio di caduta del governo Dini, nell’ottobre ’95, ci fu una nuova impennata tutta italiana verso 530.


Durante la campagna elettorale ’96, si era a 400.
Con le prime mosse del governo Prodi, si andò sotto 300;
con le prime bizze di Bertinotti si tornò per qualche tempo sopra.


Se il percorso verso la moneta europea continuerà ad essere senza scossoni,
l’obiettivo massimo raggiungibile sarà, dicono gli analisti finanziari, quota 50.
Ma ciò che più preoccupa Ciampi, ora, sono i tassi a breve.
Lì la differenza con la Germania è ancora alta, e le nostre imprese a differenza di quelle tedesche sono indebitate soprattutto a breve.
Se si manterrà la rotta, da lì verranno le buone notizie dei prossimi mesi: almeno un punto percentuale in meno a fine anno sul breve.
Stefano Lepri



Ricapitolando: negli anni 90 lo spread non lo conosceva praticamente nessuno,
se non Ciampi, il Fondo monetario internazionale e pochi altri addetti ai lavori.


Nell’articolo si legge che determinate azioni di politici aumentavano questo differenziale
e che la banca centrale non può farci quasi nulla, ma le cose stanno davvero così?


Andiamo avanti.
 
SPREAD NEGLI ANNI 2000

Nel dicembre 1998 lo spread tocca il minimo storico di 13,1 punti.


La terza fase dell’Unione economia e monetaria (UEM) cominicia il 1° gennaio 1999 e dopo tre anni l’euro arriva in forma di monete e banconote.


Alla vigilia del “changeover“, l’allora ministro dell’economia Giulio Tremonti,
fu intervistato da La Stampa il 31 dicembre 2001, ecco un piccolo passaggio.





DOMANDA: È anche disposto a riconoscere i meriti del centrosinistra per l’ingresso dell’Italia nella moneta unica?


RISPOSTA: « Sarebbe sleale negare che la sinistra abbia avuto un ruolo. Intendiamoci: non è che l’Italia ha fatto il 3 per cento,
quindi è entrata nell’euro; è stata compiuta la scelta politica di far entrare l’Italia nell’euro, e per questo l’Italia ha fatto il 3 per cento.
I conti pubblici italiani erano fortemente migliorati a causa della caduta mondiale dei saggi di interesse.
La scelta di inclusione nell’euro causò l’ulteriore caduta dello “spread” negativo sulla lira; perché si è capito che la lira non c’era più
».


DOMANDA: Chi fece quella scelta?


RISPOSTA: «Hanno contato fattori interni ed esterni. La credibilità di Ciampi. La volontà dei tedeschi.
E un establishment italiano che ha condotto il dialogo tra interno ed esterno.
La partita iniziò durante il governo Dini, quando si comprese che l’Europa a due velocità
con l’Italia in orbita esterna non avrebbe potuto funzionare, perché presupponeva la stabilità».



Per la cronaca, la “euroretorica” che contestava Tremonti era quella secondo cui l’euro porta la pace,
riferendosi a delle recenti dichiarazioni del cancelliere tedesco Kohl.


Chiusa parentesi, nel nuovo millennio il differenziale fra i titoli decennali italiani e gli equivalenti tedeschi
si mantiene a livelli minimi, e questo fino all’inizio del 2008.





In questo arco temporale, lo spread si mantiene in una banda fra i 13,4 punti del febbraio 2005 e i 51,3 punti del giugno 2003.





Notevole la salita dopo settembre 2008, quando c’è stato il crack della Lehman Brothers,
dovuta ad una discesa del rendimento dei Bund tedeschi, ben superiore a quella dei BTP.

SPREAD DAL 2010 AD OGGI

Se nel 2009 tutto il mondo andò in recessione, pochi anni dopo una nuova crisi stava per abbattersi nella sola eurozona.




FONTE: Banca d’Italia – Economia italiana in breve
Una crisi che avrebbe colpito principalmente i cosiddetti PIIGS (Portogallo, Italia, Irlanda, Spagna, Grecia),
gli spread di queste nazioni si impennano fra il 2011 e il 2012


Siamo dunque arrivati al “momento clou” e fra i simboli che hanno fatto la storia di quel periodo spicca il “fate presto” del Sole 24 Ore.





Lo “spread“, indicatore prima di allora sconusciuto all’opinione pubblica, entra nelle case degli italiani con una connotazione decisamente allarmista.


Il 10 novembre 2011, come si legge in alto, aveva toccato i 552 punti base con i BTP decennali che rendevano al 7,25%.





Secondo la narrazione mainstream di ormai 9 anni fa, il presidente del consiglio in carica, Silvio Berlusconi,
a causa di qualche “festino” di troppo avrebbe perso credibilità, scatenando quindi la reazione avversa dei “mercati finanziari”.


Si tratta di una narrazione davvero stupida, perché come già detto, lo spread era molto più alto negli anni 90 e non fregava niente a nessuno.


Nel secondo e terzo governo Berlusconi lo spread era a minimi, stiamo quindi parlando della stessa persona.


In tempi non ancora sospetti, una possibile soluzione alla crescente speculazione, era già stata proposta il 10 maggio 2010,
dall’economista Luigi Spaventa in suo pezzo su Repubblica


Ecco il testo dell’articolo (FONTE)


« IN CHE COSA consiste la speculazione?
In un’imponente concentrazione di mezzi finanziari atta a provocare un esito che, pur se non altrimenti giustificato, fa vincere la scommessa.
La speculazione si batte non con le deprecazioni né mandando i marines, ma facendo piangere chi ci ha provato:
le lacrime di chi ci ha provato sono i soldi che gli si fanno perdere.
Per far perdere i soldi alla speculazione, le autorità devono essere decise e dimenticare per un momento le regole del galateo.
(…)


Non suoni eresia: la sola entità che possiede più mezzi di qualsiasi diabolico speculatore
è una banca centrale che abbia il potere di emettere moneta.
Solo quella banca centrale può essere compratore di ultima istanza di qualsiasi attività finanziaria
che sia oggetto di un attacco speculativo ribassista, a condizione che quella attività sia denominata nella valuta che essa emette
(per la Bce un titolo in euro, per la Federal Reserve un titolo in dollari).


Naturalmente questo è un rimedio estremo per mali estremi: per metterlo in opera
si deve essere convinti che il valore mirato dalla speculazione non sia quello “giusto”;
che senza turbolenze si potrebbe raggiungere un valore diverso e mettere in opera procedure più ordinate.
Mi pare evidente che queste condizioni ricorrano oggi: occorre tempo per verificare il funzionamento del piano messo su per la Grecia;
Spagna e Portogallo non meritano le frustate ad essi inflitte dai mercati solo per bastonare l’euro;
il funzionamento dell’euro dovrà essere ripensato, ma non in un’affannosa emergenza.


La Banca centrale europea è chiamata a fare la sua parte (“tutte le istituzioni…
convengono di ricorrere a tutta la gamma di strumenti disponibili per garantire la stabilità”,
recita il comunicato del Consiglio europeo di venerdì).






L’art. 123 del Trattato di Lisbona vieta esplicitamente alla Bce l’acquisto diretto di titoli di debito
emessi dai governi o da altri enti del settore pubblico, ma non ne impedisce l’acquisto sul mercato,
con operazioni che un tempo venivano definite di mercato aperto.
(…) »


Dunque, in tempi non sospetti un economista che non poteva certo essere tacciato di euroscetticismo,
sapeva perfettamente che l’unica cosa che serviva era semplicemente una banca centrale che facesse il suo lavoro di banca centrale.


Tuttavia, come correttamente evidenziato, nelle regole dei trattati europei, la BCE può fare il cosiddetto
“prestatore di ultima istanza”, solo sul mercato secondario.


E qui arriviamo a cosa accadde dopo le dimissioni di Berlusconi e la salita a palazzo chigi di Mario Monti.
 
LA CREDIBILITÀ DEL PREMIER

Nell’estate del 2012, quando Mario Monti era saldamente al governo lo spread tornò sopra quota 500, più precisamente 537 punti nel 24 luglio 2012.





Le opzioni sono due: o Monti è stato pescato ad andare a “donnine” oppure semplicemente la credibilità del premier non c’entra assolutamente nulla.


In un convegno di aprile 2019, Claudio Borghi ha fatto notare a Monti questo piccolo particolare, e il “rettore” non può che fare scena muta.








Questo semplicemente perché l’unico “Mario” in grado di far abbassare lo spread
fu il presidente della BCE Draghi con sole tre parole “Whatever it takes” pronunciate il 26 luglio 2012




FONTE: ANSA/CENTIMETRI – 4 marzo 2015
E immediatamente i rendimenti dei TdS crollano, fino a marzo 2015 cioè quando cominicano le operazioni di Quantitative Easing,
ovvero l’acquisto di titoli sul mercato secondario.




FONTE: elaborazione su dati Banca d’Italia LO SPREAD DURANTE IL GOVERNO GIALLOVERDE

Ricapitoliamo brevemente i principali eventi dal 2018 ad oggi


4 marzo 2018: elezioni nazionali, il movimento 5 stelle è di gran lunga il partito più votato.


28 maggio – 1 giugno 2018: veto a Paolo Savona come ministro dell’economia e nascita del governo gialloverde.


ottobre-dicembre 2018: manovra di bilancio, il governo partito da un deficit del 2,4% scese poi al 2,04% (ma quello effettivo fu l’1,6%)








26 maggio 2019: elezioni europee, la Lega diventa il primo partito.


8 agosto 2019: inizio della crisi di governo


5 settembre 2019: nascita del governo Conte II


Prendiamo un grafico giornaliero sullo spread da fine 2017 ad oggi, sotto quello di Borsa Italiana.





Lo spread dopo elezioni del 4 marzo tende a diminuire fino a raggiunge i minimi del 25 aprile (114 punti)
ma in tutto maggio sale ripidamente fino a raggiungere i 268 punti del 28 maggio.


il picco massimo giornaliero fu raggiunto il 20 novembre 2018 con 325 punti base.


A fine maggio 2019 – dopo le europee – lo spread (283 pb il 31 maggio) scende per tutto giugno e luglio.
Nuovo picco il 9 agosto (239 pb) e poi il crollo verso i 131 punti del 17 settembre 2019.


Con il primo governo Conte lo spread si è manetenuto in media sui 259 punti (giugno 18 – agosto 19).


Con il Conte bis si ristabilisce la calma sui mercati, ma solo per pochi mesi.

SPREAD E CORONAVIRUS




Già prima dell’emergenza covid era chiaro ai “sovranisti” che lo spread dipende principalmente dall’operato della banca centrale.
Si veda per esempio il popolare video “è vero che Monti ha salvato il Paese?” disponibile su Youtube.


Dal settembre 2019 con il governo giallo-fucsia fino a fine febbraio del 2020 lo spread si mantiene intorno i 154 punti base.


Nel pieno della pandemia coronavirus ecco che succede. Il 12 marzo 2020 la presidente della BCE se ne esce con queste dichiarazioni:





Non siamo qui per chiudere gli spread“, il risultato è stato il crollo della borsa, oltre a far rimanere “basito” il PD.


Ma fino ad allora lo spread era una specie di voce divina che misurava la credibilità dei governi
e che l’unico modo per farlo scendere erano misure lacrime e sangue.


Lo spread toccò il suo massimo il 17 marzo 2020 a quota 276 punti base. La BCE il 18 marzo annuncia il programma PEPP da 750 miliardi di euro.





E infine il potenziamento di altri 600 miliardi di euro del PEPP, annunciato a il 4 giugno, arrivando quindi a 1.350 miliardi.


La sintesi di queste tre dichiarazioni la si trova in grafico pubblicato sul Primato Nazionale nel numero di agosto 2020,
che ripubblico su gentile concessione dell’autore Filippo Burla.




FONTE: Il Primato Nazionale (Agosto 2020)
 
IL RISCHIO DEFAULT

Un discorso analogo si potrebbe fare per il debito pubblico: esattamente come per lo spread,
l’Italia nel 1994-95-96 aveva un rapporto debito/PIL attorno il 119-120%




FONTE: elaborazione su dati Banca d’Italia
Vale a dire lo stesso livello di debito del 2010-2011 e addirittura con lo stesso presidente del consiglio,
visto che il primo governo Berlusconi ci fu nel 94.


Se nel 2011 il 119,7% di debito pubblico era considerato da “insostenibile”, beh ora nel 2020 si prevede il 158% del PIL




FONTE: Banca d’Italia – Economia italiana in breve
La morale della favola la sintezza bene Alessandro Greco con questo tweet.





« Quando Berlusconi “stava portando l’Italia al default” il debito/PIL era al 116% con spread a 570.
Per fortuna è arrivato Monti a “salvare il paese” e l’ha portato al 131%.
Oggi il Debito/PIL è vicino al 160% ma lo spread è a 126. Mi raccomando, non fatevi domande.
»


A nove anni di distanza dal “fate presto”, il 10 novembre 2020 lo spread segna 121 punti base.


Il rendimento dei BTP 10Y sta ai minimi di sempre, altri titoli come i BOT si trovano in territorio negativo.




FONTE: Banca d’Italia – Economia italiana in breve
E nonostante si sia avverata la tanto temuta “esplosione del debito”, si prevede una spesa per interessi
vicina ai minimi storici degli ultimi 40 anni, sempre misurata in punti di PIL.




FONTE: Banca d’Italia – Economia italiana in breve
A febbraio 2020, la quota di debito pubblico detenuta dalla Banca d’Italia era il 16,8% del totale, ad agosto 2020 è salita al 20,1%.


Da febbraio ad agosto il debito pubblico è aumentato di 132 miliardi, al contempo la quota di Bankitalia è salita di 107 miliardi di euro.


I dati sono presi dall’ultimo numero di “fabbisogno e debito“, a pagina 10.


Dunque il “nuovo debito”, per circa l’81%, è stato monetizzato dalla banca centrale.

Sapete quanto è il costo reale di questa operazione?

Pressoché nullo, recentemente lo ha ammesso persino Cottarelli.








Il lato “positivo” del coronavirus è che, una ad una, sta facendo evaporare una ad una le “caxxate del neoliberismo
che si ripetono da 30 anni (semi-cit Calenda).


Anche quelle su spread e debito pubblico ce le siamo tolte dai piedi.
 
Ma và. Ma che strano.....però sono mesi che lo scrivo e dico che ci sono milioni di persone che l'hanno fatto.


Notizia-bomba dall’Istituto nazionale dei tumori di Milano: il coronavirus responsabile della sindrome Covid-19 circolava in Italia già a settembre 2019.

A rivelarlo è uno studio pubblicato a novembre sulla rivista Tumori Journal, il cui principale autore è il direttore dell’Istituto nazionale dei tumori Giovanni Apolone,
secondo cui a settembre 2019, il 14% del campione di volontari entrati in una ricerca sul cancro al polmone presentava anticorpi per il SARS-Cov-2,
che circolava quindi mesi prima dell’esplosione dell’epidemia a febbraio 2020.

Su 959 campioni, 111 sono risultati positivi

La rivelazione arriva dallo screening per il tumore al polmone “Smile“, per cui da settembre 2019 a marzo 2020
sono stati arruolati 959 volontari sani per sottoporli a Tac spirale ai polmoni e analisi del sangue.

La notizia dell’epidemia a Wuhan a gennaio e quindi l’arrivo in Italia a febbraio del coronavirus
deve aver fatto venire il sospetto ai ricercatori dell’Istituto nazionale dei tumori, che con i colleghi delle università di Milano e Siena
hanno eseguito il test sierologico a tutti i campioni di sangue conservati.

Risultato: su 959 campioni, 111 sono risultati positivi all’immunoglobulina G (16 casi) o all’immunoglobulina M (97 casi).

Di questi 111 positivi, 23 risalgono a settembre, 27 ottobre, 26 a novembre, 11 a dicembre, 30 gennaio e 21 febbraio.

I positivi provengono da 13 regioni, la metà dalla Lombardia, seguita da Piemonte, Lazio, Emilia-Romagna, Toscana, Veneto.

Presenti anche gli anticorpi che neutralizzano il virus

Altra notizia importante, dei 111 casi (su 959 campioni), 6 sono risultati positivi anche agli anticorpi neutralizzanti il virus, 4 dei quali già a inizio ottobre.


Una prevalenza di positivi maggiori del 10%, inoltre non sembra accordarsi con i successivi studi sierologici,
come quello nazionale Istat-Iss del 2,5% della popolazione.Taroccato ??????



Come spiega Apolone, “la prevalenza si riduce quando si guarda ai casi validati del test di neutralizzazione, pari a 6 positivi, di cui 4 in ottobre.

Il dato rilevante è questo, non la proporzione di positivi, comunque suggestiva data la corrispondenza con le note prevalenze regionali”.


“Già da novembre del 2019, molti medici di medicina generale hanno iniziato a segnalare

la comparsa di gravi sintomi respiratori in persone anziane e fragili con bronchite bilaterale atipica,

che è stata attribuita, in assenza di notizie sul nuovo virus, a forme aggressive di influenza stagionale”,


fa presente lo studio. La sindrome respiratoria in questione era la Covid-19, ma ancora non lo sapevamo.
 
La proposta di Lucas Guttenberg – vicedirettore del Jacques Delors Centre di Berlino –
riguardante lo smantellamento del Mes pesa come un macigno negli animi di coloro
che speravano di ingabbiare le nazioni dell’Europa meridionale ai voleri dell’Eurogruppo.

La riforma del Mes, sul tavolo dei ministri delle Finanze comunitari approssimativamente da un anno,

non avrebbe alcun risvolto positivo in un’Europa che, volente o nolente, si è evoluta conseguentemente alla crisi economica attualmente in corso.



I Paesi membri appartenenti alla fascia meridionale dell’Europa hanno più volte chiarito
che non avrebbero considerato come soluzione valida alla ripartenza il Mes, a causa delle temute condizionalità
che hanno da sempre contraddistinto il Meccanismo con sede a Lussemburgo,
supervisionato dal temibile Eurogruppo e controllato da un manipolo di funzionari tedeschi.


Una delle prime mosse dell’Unione europea in risposta alla crisi economica causata dalla prima ondata di Covid-19
è stata quella di istituire una nuova linea di credito del Mes, cosicché gli Stati membri potessero richiedere prestiti fino al 2% del Pil con tassi di interesse prossimi allo zero.


Roberto Gualtieri si è da subito prodigato per chiarire l’attuabilità di un prestito che ci sarebbe costato qualche centinaio di milioni di euro in dieci anni,

omettendo appositamente – per non fomentare il senso crescente e giustificato di euroscetticismo – di chiarire la cessione di sovranità

che avremmo dovuto scontare in caso di utilizzo del Fondo
.


Il piano di controllo dell’Ue

Come ha affermato il lussemburghese Yves Mersch – membro del Comitato esecutivo della Banca centrale europea dal 2012 –
la Bce dovrebbe agire in ottemperanza ai provvedimenti economici ideati dall’Eurogruppo – Sure, Recovery Fund e Mes in primis
al fine di evitare di vanificare i piani di investimento dell’Europa stessa.


In risposta alla crisi economica, infatti, la banca centrale ha istituito un nuovo programma di acquisti Pepp,
più flessibile e slegato dal “capital key”, ossia il principio che lega gli acquisti dei titoli di Stato alle quote di partecipazione al capitale dell’Eurotower,
permettendo ai Paesi con un alto debito e con una forte crisi economica in corso – come Italia, Spagna e Portogallo –
di rilanciare le loro economie senza richiedere i prestiti ideati da Bruxelles.

Se la Bce dovesse introdurre, a dicembre, dei cambiamenti sui criteri di acquisto delle obbligazioni sovrane,
gli investitori non percepirebbero più quell’aura di sicurezza a cui hanno assistito negli ultimi mesi,
finendo col vendere in massa i titoli di Stato italiani, spagnoli e portoghesi, costringendo implicitamente i governi ad accedere ai prestiti di Bruxelles.


L’Unione Europea è disposta a tutto pur di non vanificare gli investimenti fatti, utili ad ingabbiare i Paesi membri nel lungo termine.
 
Nonostante le promesse del governo, le pmi continuano a pagare il prezzo più alto nella crisi economica che stiamo vivendo.

Questo è un tema che è stato affrontato spesso, ma, quasi ogni giorno, abbiamo la conferma che nessuno vuole invertire la rotta. Andiamo con ordine.


Come tutti sappiamo il governo fa di tutto per dimostrare il suo appoggio a tutte le categorie colpite dalla crisi ed in particolar modo, alle pmi. Nonostante questo, però, le piccole e medie imprese continuano ad essere fortemente penalizzate non solo dal fisco e dalla burocrazia ma soprattutto dalle inadempienze degli enti locali e della Pubblica amministrazione in genere.


Nella “Relazione sul rendiconto generale dello Stato 2019”, pubblicata lo scorso giugno, anche la Corte dei Conti denuncia la gravità di questa situazione.

La magistratura contabile sottolinea

“Negli ultimi tempi gli enti pubblici stanno tendenzialmente onorando con puntualità le scadenze di importo maggiore,

ritardando invece premeditatamente il pagamento di quelle più modeste”.


Ovviamente
gli appalti affidati alle pmi non raggiungono cifre esorbitanti e quindi i “piccoli imprenditori” dovranno attendere pazientemente il loro turno.

Così, però, molte aziende rischiano di chiudere senza poter saldare dipendenti e fornitori.

Inoltre, chi lavora per queste aziende quest’anno rischia di rimanere senza tredicesima, nonostante abbia lavorato.

Insomma, si alimenta un circolo vizioso che mina la tenuta del nostro sistema economico.


L’ultimo rapporto della Cgia di Mestre ci dimostra che i debiti non vengono pagati non per carenza di liquidi ma perché manca la volontà di farlo.


Il governo Conte ha stanziato 12 miliardi di euro per consentire alle Asl, alle regioni e agli Enti locali il pagamento dei debiti commerciali scaduti entro il 31 dicembre 2019.


“Ebbene – sottolineano gli artigiani mestrini – solo poco più di 2 miliardi sono stati richiesti da questi soggetti pubblici alla Cassa Depositi e Prestiti per saldare i propri creditori”.


Dopo il flop del primo decreto il nostro premier ha riaperto i termini per accedere al prestito:

dal 21 settembre fino allo scorso 9 ottobre gli enti territoriali hanno avuto una nuova possibilità per usare le risorse stanziate dall’esecutivo.


Risultato? Il totale delle richieste ammonta a 110 milioni di euro.


Pertanto le regioni non solo non sanno spendere i soldi che hanno,
ma non hanno neanche voglia di richiederli se servono per pagare i debiti con le pmi
.

Eppure il prestito sarebbe vantaggioso: con una durata di 30 anni e un tasso dell’1,22%.


Non stupisce, dunque che

“secondo i dati presentati dall’ Eurostat nell’ottobre scorso,

negli ultimi 4 anni i debiti commerciali nel nostro Paese di sola parte corrente sono in costante aumento.

Nel 2019 lo stock ha toccato i 47,4 miliardi di euro. Nonostante le promesse politiche e gli impegni di spesa

presi dalle Amministrazioni pubbliche, le imprese fornitrici faticano sempre più a farsi pagare”.


La Cgia, inoltre denuncia che nessuno sa a quanto ammonta ufficialmente il debito commerciale complessivo della nostra Pubblica amministrazione,

“sebbene da qualche anno le imprese che lavorano per il pubblico abbiano l’obbligo di emettere la fattura elettronica”.



Detto ciò, se l’esecutivo non vuole soffocare le pmi deve usare le maniere forti: consentire per legge

“la compensazione secca, diretta e universale tra i debiti della Pa verso le imprese e le passività fiscali e contributive in capo a queste ultime”.


A dirlo è Paolo Zabeo coordinatore dell’Ufficio studi della Cgia, a farlo dovrebbe essere il governo

“per ristabilirebbe un principio di civiltà giuridica:
le forniture di merci o le prestazioni di servizio devono essere onorate dal committente pubblico così come previsto dalla legge;
entro 30 giorni o al massimo 60 in determinati settori, come quello sanitario”.
 
Il direttore sanitario dell’Inmi Spallanzani di Roma, Francesco Vaia, lancia un appello quanto mai opportuno in questo periodo, si direbbe di buon senso.

Immaginiamo, purtroppo, che sarà anche inascoltato.

Secondo Vaia, citato dall'Adnkronos,

"c’è troppa violenza e si consumano ancora troppe battaglie politiche e personali sul virus.

Soprattutto in questo momento nel quale ritroviamo segnali, seppur ancora deboli ma incoraggianti specie in alcune Regioni.

Abbiamo necessità che il nostro ‘esercito’ in campo non si divida e metta da parte le pur legittime differenze di visione, politica e scientifica.

Abbiamo bisogno in questo tempo di rigore ma anche e soprattutto di serenità.

No quindi a stress continui, no ai proclami e alle visioni catastrofiche, sì alla ragione ed alla pacatezza".


Per Vaia non c'è bisogno di terrorizzare la popolazione, ormai diventata capro espiatorio
, in quanto,

"i cittadini sanno benissimo che siamo in un periodo particolare, non hanno bisogno che qualcuno gli ricordi,

con toni minacciosi che quest’anno possono fare a meno del Natale e della gioia di rivedere, magari dopo tanto tempo ed in sicurezza, i loro cari."



Infine, il direttore sanitario dello Spallanzani, conclude il suo appello, ricordando, in questa fase, piccole ma utile prescrizioni:

"Io ho fiducia nel popolo italiano e sono certo che sapremo ancora una volta uscirne.

Ma oggi, e mi rivolgo a tutti, la risposta matura e spero collettiva a questo dibattito sguaiato e oscurantista

deve essere quella di applicarci ancor di più: mascherine, distanziamento, igiene personale, soprattutto lavaggio delle mani”.
 
Quanto sta avvenendo negli Stati Uniti d’America dal 3 novembre scorso non ha solamente a che fare con lo scontro elettorale,
senza dubbio importante, che deciderà chi sarà il 46° presidente statunitense.

Esso rappresenta lo spaccato della crisi sociale, economica e politica che attraversa la principale potenza mondiale.
Le conseguenze di tale conflitto toccheranno l’intero pianeta ed influenzeranno la vita di tutti noi.


Per questo motivo, è opportuno inquadrare i termini della contesa anzitutto da un punto di vista di classe,
per poi accennare a quelle che potrebbero essere le principali conseguenze geopolitiche.


Negli Stati Uniti, Democratici e Repubblicani rappresentano gli interessi del grande capitale finanziario, fusione di quello industriale e bancario.

Nei fatti, si tratta di un partito “unico” dai due volti, i cui interessi possono anche momentaneamente divergere dando luogo a scontri durissimi,
come quello a cui stiamo assistendo, ma senza mai uscire da una cornice ben delineata che coincide con quella di chi vive di plusvalore.


Donald Trump, membro dell’elite del suo paese, ma figura non riconducibile al cosiddetto Deep State Usa,

è colui che si è posto come riferimento politico di coloro i quali hanno subito le conseguenze nefaste delle politiche liberiste

implementate, sia da Bill Clinton e Barack Obama, sia da George W. Bush, nel corso delle ultime tre decadi.

Quelle stesse politiche sono state nel contempo applicate, in alternanza o congiuntamente, dai partiti socialisti e dai popolari nei paesi membri dell’UE.


Indipendentemente dall’esito elettorale, non verrà meno quella che l’economista Emiliano Brancaccio ha definito
“la personificazione della crisi della liberaldemocrazia” incarnata da Trump.


Quand’anche quest’ultimo uscisse effettivamente sconfitto dall’esito elettorale, “l’ideologia che incarna è destinata a sopravvivergli”,

mentre la stessa pandemia acuirà le disuguaglianze tra gli Stati e soprattutto, all’interno degli Stati.



L’attuale fase capitalistica della globalizzazione – caratterizzata dalla frammentazione della produzione –
muterà nella direzione di una più marcata regionalizzazione, le cui filiere produttive andranno ricostruite non più sulla base del solo costo del lavoro,
bensì tenendo conto dei fattori strategici e ideologici degli Stati coinvolti (per la prima volta dall’89-91).

Questo processo riguarderà soprattutto, gli Stati Uniti d’America, la Cina e la Germania.

Tenuto conto che la Cina esprime il 28,5% della manifattura mondiale (era il 5% nel 1995), mentre gli Stati Uniti il 17,2%,
se il neo Presidente Usa ha realmente intenzione di riequilibrare il deficit delle Partite Correnti (Bilancio Commerciale in primis)
potrà farlo, adottando politiche protezionistiche e/o di dumping fiscale.


Così facendo, inevitabilmente aumenterà le tensioni con la Cina.


La stessa politica neo mercantilista tedesca permane insostenibile per qualsiasi attore globale.

Per questo motivo, in attesa che la deflazione salariale incrementi ulteriormente la povertà

e le tensioni sociali in seno all’eurozona, anche l’elezione di un presidente democratico

non riavvicinerà le due sponde dell’Atlantico così come era avvenuto durante l’era Obama


(con l’UE in posizione di totale subalternità), dopo i contrasti che avevano caratterizzato l’era G. W. Bush (guerra in Iraq su tutti).


A settembre, l’import cinese di made in Italy è aumentato del 33% rispetto all’anno precedente.

Questo dato riassume la contraddizione che il nostro paese dovrà sciogliere:

rimanere ancorati alle vecchie logiche della Guerra Fredda oppure sostenere concretamente la Via della Seta,

l’unico progetto infrastrutturale e manifatturiero presente a livello globale che si discosti dalla finanza (anche quella cosiddetta Green)?



Il 3 aprile 2020, Henry Kissinger – già Segretario di Stato e Consigliere per la Sicurezza Nazionale nelle amministrazioni Nixon e Ford –
scrisse un articolo su Il Journal di Wall Street dal titolo:

La pandemia da Coronavirus altererà per sempre l’ordine mondiale1.


Kissinger avvertì con lucidità e lungimiranza la crisi di egemonia dell’Occidente e in particolare, degli Stati Uniti d’America.

Per questo motivo, esplicitò la necessità di unirsi a livello globale per affrontare la pandemia da covid-19
e a ripensare il sistema economico nel post covid-19.

In particolare, mise in luce la necessità di “salvaguardare i principi dell’ordine mondiale liberale”.


Il presidente della Federazione Russa, Vladimir Putin, pare sia particolarmente consapevole del reale significato politico di tali affermazioni.

Non a caso, nel suo intervento al Club di Valdai del 26 ottobre, ha aperto all’alleanza militare con la Cina “per evitare brutte sorprese”.



Il messaggio era parimenti rivolto ad “asini” ed “elefanti”.
 
Ahahahahahahah che ridere.


Dopo un paper del think tank Delors di Berlino sull’”impraticabilità politica” del Mes

il presidente del Parlamento Ue, Sassoli (Pd), ha detto:

“Oggi quale paese con il Recovery, l’allentamento del Patto, Sure ed Eurobond si avvarrà del Mes? Nessuno“.



In politica, come più in generale nella vita, è ovviamente possibile cambiare opinione.

Con un’unica avvertenza: almeno salvare le apparenze provando a chiedere scusa se, fino ad un attimo prima, si è sostenuto esattamente il contrario.

Ma pare che né il presidente del Parlamento Europeo David Sassoli, né l’ex presidente del Consiglio Enrico Letta, abbiano questa sensibilità.


Oggi il primo ha dichiarato, in un’intervista a Repubblica, che il Mes è “ormai è anacronistico” e che “l’Europa deve cancellare i debiti per Covid”.

Ha poi aggiunto che “il Mes è da riformare. Lasciare nel congelatore 400 miliardi sarebbe intollerabile.
Va creato un Tesoro a livello europeo, i bond del Recovery devono diventare un modello definitivo
”.
E ancora: “Oggi quale paese con il Recovery, l’allentamento del Patto, Sure ed Eurobond si avvarrà del Mes? Nessuno“.
Quindi, “per rendere utile il Mes serve discontinuità: è necessario riformarlo e renderlo uno strumento comunitario, non più intergovernativo”.


Il secondo ha invece commentato su Twitter che “Fondi Mes sanità si sarebbero potuti usare a mio avviso.
Ma Stati e opinioni pubbliche non si fidano. Prenderne atto e riformare radicalmente il tutto,
trasferendo quei 400 miliardi alla Commissione che li può usare bene contro la recessione
”.


A Letta facciamo subito rilevare che non è una questione di “fiducia”.

Non siamo al banco della frutta e non stiamo dubitando della maturazione dei pomodori.

Qui si tratta di uno strumento che ha ben determinati vincoli giuridici,
non cancellabili con una pacca sulla spalla di Gentiloni o Dombrovskis,
finalizzata ad assicurare che andrà tutto bene.


Sarebbe l’ora di smetterla di considerarci dei creduloni.


Sassoli è invece lo stesso che da marzo ad oggi ha fatto almeno una decina di dichiarazioni pubbliche a favore del Mes, anche con toni piuttosto ultimativi.



Lo ricordiamo il 13 aprile a “Che tempo che fa” sfoderare tutta la sua sicumera affermando che “stare a discutere sul Salvastati è inutile, non c’è più, è sospeso”.

Il 6 giugno si esibiva sul quotidiano Avvenire dichiarando che “il Mes mette a disposizione fino a 37 miliardi, un’enormità per il sistema sanitario italiano,
allo 0,1% di interessi e con scadenze di minimo dieci anni. Non ci sono condizioni capestro o Troika. Sono meravigliato di un dibattito che è solo italiano
”.

Ancora il 25 luglio, presentava il Mes come “un’opportunità insuperabile”. E potremmo proseguire a lungo.


Cos’è accaduto a Sassoli?

Ha improvvisamente studiato qualche documento?

Attività che lo avrebbe portato, come facciamo noi da mesi, a concludere che il Mes è uno strumento impraticabile?


Difficile, direi quasi impossibile.


È molto più prosaicamente accaduto che mercoledì 11, un sancta sanctorum della religione europeista,
come il think tank Jacques Delors di Berlino, ha pubblicato un paper ad opera del vice direttore il giurista Lucas Guttenberg,
che prende atto dell’”impraticabilità politica” del Mes così com’è ora,
suggerisce di mettere da parte la proposta di riforma tuttora in discussione
e propone di reinventarlo del tutto all’interno del perimetro legale della Ue.


Insomma un ordine di riposizionamento – del quale non è difficile individuare la matrice politica risalendo fino a Parigi –

a cui Sassoli ha docilmente e, quasi alla lettera, obbedito.



Ancora più imbarazzante l’uscita sulla cancellazione del debito.

Sassoli non è un quisque de populo e non può non sapere che gli attuali acquisti di titoli di Stato da parte della Bce
sono eseguiti sotto una serie di condizioni che li rendono compatibili, salvo incursioni della Corte tedesca di Karlsruhe, con l’articolo 123 del TFUE.

Quindi se proprio ci tiene – e noi qui siamo da tempo a favore della detenzione in perpetuo sui libri della Bce dei titoli acquistati sin dal 2015 -
cerchi di convincere prima la Signora Lagarde che, sul punto è stata estremamente chiara e poi ritorni munito di argomenti più solidi.
 

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