Chi è Gianfranco Carbonato, alla guida degli industriali torinesi: un ingegnere che ha fondato e gestisce Prima Industrie, tra i primi tre gruppi mondiali nella realizzazione di apparecchiature laser, con un fatturato di 500 milioni di euro in cui la Fiat pesa solo per l'1%
«Facciamo cose che solo cinque o sei aziende al mondo riescono a fare e in questa ristretta graduatoria siamo al terzo posto, davanti a noi ci sono solo un gruppo tedesco e uno giapponese». Niente male, con l'aria che tira, è una bella eccezione. Ma Gianfranco Carbonato ne parla come se fosse la cosa più n a t u r a l e d e l mondo. Racconta senza enfasi la sua azienda che si chiama Prima Industrie e produce laser di precisione. E' orgoglioso del primato ma senza ombra di megalomania. E' nel suo carattere. L'uomo, che da qualche anno è anche presidente degli imprenditori torinesi, posto che fu tra l'altro di Carlo De Benedetti e Sergio Pininfarina, è fatto così. Ricorda un po' quegli industriali che, negli anni del boom economico, fecero della provincia italiana l'avamposto di un mondo allora ancora ignoto, sfidando i «grandi» di cui non avevano soggezione, mantenendo con la politica frequentazioni di rispetto e mai di sudditanza, tenendo col sindacato rapporti duri suggellati con la lealtà della stretta di mano dopo aver parlato in modo chiaro e non ambiguo. E' fatto di quella stoffa. Con la differenza che è un ingegnere, generazione dei sessantenni, e non uno di quei self- made-men ruspanti che avevano l'Italia e al massimo l'Europa come orizzonte e a cena con l'amante ordinavano «garçon une bouteille de champignon». Sicuramente è un personaggio da «miracolo industriale» senza che questo debba collocarlo tra i padroni d'altri tempi. Sulla strada di Francia in quel reticolo di aziende e aziendine che hanno sostituito con gli anni le boite artigianali tributarie della grande industria dell'auto, affollando una periferia nella quale si confondono i confini di Torino con quelli di Collegno, Prima Industrie è la roccaforte materializzata di quella tecnologia di cui l'Italia avrebbe bisogno per liberarsi dalle sempre più incombenti paure del declino. Il suo anno di nascita col nome di Prima Progetti è il 1977, tempo di crisi della Fiat, di terrorismo e di agonia annunciata del modello Torino. Ricorda Carbonato: «Eravamo un gruppo di ingegneri senza soldi ma che sapevamo fare cose che pochi allora sapevano fare e cioè coniugare meccanica, elettronica, informatica. L'obiettivo era l'evoluzione dei prodotti. Una volta venne uno della Necchi e ci disse che voleva qualcosa che in America la Singer aveva già realizzato e noi gli allestimmo una versione elettronica della famosa macchina per cucire». All'inizio sono non più di una trentina di ingegneri molti dei quali arrivano dalla Dea, azienda che già si è affacciata sulla scena delle nuove tecnologie. Anche Carbonato proviene dalla Dea e ha scartato rispetto alla tradizione di famiglia: figlio di un dirigente finanziario della Pininfarina non segue il padre in carrozzeria ma sceglie l'avventura industriale per conto proprio. «E ci siamo persino divertiti» dice ricordando quella fase pionieristica «quando nel 1978 realizzammo la prima macchina laser tridimensionale per tagliare gli stampi degli interni delle portiere delle automobili che allora venivano tagliate dalle operaie. Usavano coltelli a caldo, con risultati non proprio eccellenti per il prodotto e qualche problema per la loro salute». In una cascina della campagna di Moncalieri alle porte di Torino l'azienda si chiama allora Prima Progetti, funziona, l'idea è buona. Decolla nei primi anni Ottanta: macchine laser e robot di misura avevano avuto successo e c'era stata anche un'acquisizione dalla Riv-Skf. Ma si avvertono dei limiti che Carbonato descrive così: «Non avevamo in comune un mercato. Disponevamo di tecnologia per fare oggetti distinti che finivano su mercati diversi. Eravamo internazionali ma con un orizzonte europeo anche se vendevamo licenze ai giapponesi e agli americani e con i soldi ci finanziavamo i progetti. Mancava una visione strategica, insomma facevamo troppe cose ma con risultati economici limitati». Un senso pratico e un desiderio di far valere quella capacità di creatività tecnologica a fine anni Ottanta suggeriscono la specializzazione nei laser. «Era la strada più nuova, perciò abbiamo disinvestito vendendo alcune attività come la metrologia ceduta alla Elsag e la robotica alla ABB, mentre i giapponesi hanno preso le macchine per lamiere. Noi abbiamo investito nei laser con l'obiettivo di fare prodotti e commercializzarli». Dalla metà degli anni Novanta è questa la strada di Prima Industrie. Risultato? Da allora a oggi il fatturato è passato da 25 miliardi di lire ai 300 milioni di euro. Nel 1999 la quotazione in Borsa. Ma dove può andare un'azienda così sofisticata? Carbonato risponde con l'ausilio di alcuni depliant eleganti che esibiscono un mercato mondiale, dalle Americhe alla Cina, passando per l'Europa. Tra i clienti ci sono i nomi più prestigiosi dell'industria mondiale dell'automobile (tra il 10 e il 15% del fatturato di cui 12% Fiat), dell'aerospazio (dalla Nasa alla Boeing) e dell'energia, e ancora camion, macchine per l'agricoltura, acciaierie e tutto ciò che ha a che fare con l'alta tecnologia. I dipendenti sono 1350, di cui 500 a Torino e 150 nel resto del paese; in Finlandia dopo l'ultima acquisizione sono 300 e oltre 200 in Usa. I 250 cinesi sono contabilizzati a parte di una joint venture. E la crisi? Abituato da oltre trent'anni ad andare in giro per il mondo tra mercati vecchi e nuovi, Gianfranco Carbonato, sa che anche i momenti peggiori non sono eterni e perciò non trucca le carte piangendo miseria. «Nel 2009 abbiamo perduto 9 milioni ma nei tre anni precedenti ne avevamo guadagnati 32, con un fatturato calato del 37% ci può stare. A novembre 2010 gli ordini hanno avuto una ripresa sfiorando quelli del gennaio 2008. Insomma si comincia a vedere un po' chiaro». Anche questo senso di pratico ottimismo fa parte del numero uno degli industriali torinesi. Che se però allunga lo sguardo poco lontano da Collegno, verso Torino e il resto del Piemonte vede una situazione non esattamente identica a quella di u n a « p i c c o l a - g r a n d e » azienda sulla quale, come sull'impero di Carlo V, non tramonta mai il sole. Ma è convinto che passerà perché pensa che se si è tanto bravi da stare tra i primi cinque del mondo al massimo si può rallentare, non fermarsi.