Idee e grafici. - Cap. 2

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Bce, cosa vuol dire farsi commissariare da Mario Draghi: le conseguenze per l'Italia


08 agosto 2014

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Renzi accetta il diktat dell'Europa e ammette: "Ho fatto un errore"









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Giù la spesa o via le detrazioni. Altre alternative non ce ne sono. «La revisione della spesa deve essere efficiente anche perché viceversa si andrebbe alla revisione delle agevolazioni e delle detrazioni fiscali per garantire un miglioramento dei conti pubblici di 3 miliardi nel 2015, 7 nel 2016 e 10 nel 2017». Parole di Pier Carlo Padoan, minsitro dell’Economia, ed omissioni del governo. Perchè il 2014 sta finendo e la spending review non porterà più di 1,5 miliardi sui sette previsti. Senza contare che una buona fetta dei tagli del 2015 si sarebbero già dovuti mettere in cantiere. I dati negativi sul Pil finiranno col deprimere le stime sul deficit e soprattutto creeranno nuove tensioni e speculazioni sul nostro debito pubblico. ieri Draghi ha assicurato che i tassi di cambio in Europa resteranno a lungo vicini allo zero, ma le mosse della Federal Reserve spingeranno l’inflazione globale e per noi sarà più difficile mantenere un export più competitivo. Con tali nubi all’orizzonte che cosa dobbiamo aspettarci? Chi metterà le mani nei portafogli degli italiani? E quando?

La Cgia di Mestre ha calcolato ieri che scattando le clausole di salvaguardia previste dal governo Letta partiranno in automatico 30 miliardi di imposte aggiuntive. Di cui verosimilmente 20 andranno sotto la voce di tagli alle detrazioni e l’altra decina di nuove imposte. «In altre parole, a fronte del mancato taglio della spesa, i contribuenti saranno chiamati a sopportare un aggravio fiscale di 3 miliardi di euro già il prossimo anno, a seguito - sostiene la Cgia - della riduzione delle agevolazioni/detrazioni fiscali e all'aumento delle aliquote, mentre i ministeri dovranno razionalizzare la spesa per un importo di 1,44 miliardi di euro». Nel 2016 l’impegno sarà ancora più importante. E nel 2017 e 2018, calcola ancora la Cgia, le risorse già impegnate dal taglio della spesa pubblica ammontano rispettivamente a 11,9 e 11,3 miliardi di euro. In caso contrario l’aumento della tassazione per i cittadini sarà di 10 miliardi di euro nel 2017 e di altri 10 nel 2018. Una buona parte di queste nuove tasse nel progetto del governo assumeranno un aspetto completamente diverso. Il taglio delle detrazioni così come immaginato dal Tesoro conterrà una serie di rimodulazioni «popular». Saranno infatti eliminate sui redditi più alti e nel possibile alzate sulle fasce più basse. In modo da creare un effetto di marketing politico stile bonus 80 euro. che però non avrà effetti concreti. E soprattutto non andrà a impattare su contesti e scenari europeo e globale.

L’Italia non galleggia in una bolla, bensì sarà sempre più legata - come ha detto chiaro e tondo ieri Mario Draghi - alla politica europea. Da un lato i mercati e i fondi hedge torneranno a scommettere allo scoperto sui titoli di Stato italiani con la speranza che la nostra economia peggiori e le loro plusvalenze aumentino. Con l’effetto non trascurabile di uno spread sul bund sempre più sfavorevole. Dall'altra parte proprio perché nessuno teme il fallimento dell’Italia, ma ne prevede il lento declino, i partner europei, per salvaguardare le loro economie dal calo dei consumi italiani, inizieranno il pressing per le riforme.

Anche questo è stato detto chiaramente ieri da Draghi. Per evitare che nuove tasse ammazzino le nostre aziende e gli stipendi dei lavoratori, gli stessi partner Ue - Germania in testa - offriranno tramite il Fmi monetario e oltre istituzioni internazionali un assegno contenente un pacchetto di aiuti. La cifra dei 30 miliardi potrebbe essere verosimile. L’importo eviterebbe nuove tasse e autorizzerebbe i creditori a sedersi al tavolo delle riforme. A quel punto non sarebbe più possibile approcciare le istituzioni estere come dei commissari alla spending review qualunque. A quel punto si aprirà uno scenario simile alla Spagna o alla Grecia. La prima ha accettato di seguire il diktat Ue sulle riforme. La seconda non è stata in grado di getsirlo e ha ceduto in toto la propria sovranità.

di Claudio Antonelli
 
Ddl Boschi, ecco come cambia il Senato. Via il ping pong, ma manca il limite anagrafico: senatori anche a 18 anni

08 agosto 2014

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In Senato a 18 anni? Da oggi si può, merito della riforma a tappe forzate voluta dal governo. Nel ddl Boschi, che verrà approvato entro oggi pomeriggio, 8 agosto, come promesso a fine luglio da Matteo Renzi e dal suo ministro delle Riforme, manca infatti ogni limite anagrafico per i futuri senatori: più che una svolta, pare una dimenticanza. Anzi, una gaffe clamorosa.

Il pasticcio: senatori con le braghe corte - Nel testo della riforma del Senato infatti non sono contemplati i limiti in vigore sia per l'elettorato attivo (si può votare a partire dai 25 anni) sia per quello passivo (si può essere eletti a partire da 40 anni compiuti). Il motivo è semplice: la norma era stabilita nell'articolo 58 che verrà eliminato del tutto. "Serviva più tempo per approfondire la questione e invece hanno voluto accelerare", ha spiegato a La Stampa il senatore dei 5 Stelle Stefano Battista, che è entrato a Palazzo Madama quando aveva superato i 40 da un mese e che è il senatore più giovane di questa legislatura. Dunque, passata la riforma, al Senato siederanno consiglieri regionali e sindaci che possono, loro sì, essere eletti non appena maggiorenni. Il pasticcio di questi giorni di bagarre ha fatto dimenticare ai senatori di tarare la norma anagrafica con quella della Camera, dove rimane invece il limite dei 25 anni. Un paradosso che molti, soprattutto tra i grillini vorrebbero "riequilibrare" abbassando la soglia anche a Montecitorio.

Addio ping pong - Per il resto, il Senato che verrà è già delineato. Sarà composto da 100 senatori: 95, come detto, saranno consiglieri regionali, mentre 5 verranno scelti dal presidente della Repubblica. La Camera Alta (ex?) non dovrà più votare la fiducia al governo ma avrà il compito di votare le leggi regionali, alcuni provvedimenti di garanzia, il capo dello Stato insieme alla Camera e alcuni giudici costituzionali. Soprattutto, il ddl Boschi segna la fine del cosiddetto "ping pong", il rimpallo di una legge tra Camera e Senato per la doppia approvazione. Palazzo Madama conserverà infatti la facoltà di proporre modifiche (su richiesta di un terzo dei senatori) ma gli emendamenti dovranno essere votati entro 30 giorni, per evitare l'effetto-palude. Sulla legge di bilancio, i tempi di intervento per i senatori sono ancora più limitati: 15 giorni. Come nel caso precedente, sarà la Camera ad esprimersi in maniera definitiva, anche negativa.

Taglio agli stipendi - Sul fronte stipendi e indennità, verranno aboliti da subito i contributi ai gruppi consiliari e i consiglieri regionali non potranno guadagnare di più del sindaco del capoluogo di Regione. Oggi un Senatore senza cariche particolari arriva a percepire 14mila euro al mese: tagliando questi emolumenti, il governo risparmierà 50 milioni di euro l'anno.

Novità per i referendum - In attesa del referendum propositivo di indirizzo (per averlo servirà una legge costituzionale con doppia lettura di Camera e Senato, quindi con tempi lunghi), la riforma introduce un doppio quorum per i referendum abrogativi: con 500mila firme servirà la metà più uno dei votanti aventi diritto per farlo passare, mentre con 800mila firme basterà la maggioranza dei votanti alle ultime politiche. Per le leggi popolari serviranno invece 150mila firme, il triplo dello "sbarramento" attuale. In cambio, però, il Parlamento dovrà procedere con l'esame della proposta di legge in "tempi certi".

Province, Cnel e Quirinale - Il ddl Boschi sancisce anche la cancellazione delle province e del Cnel. Cambiano, infine, anche le regole per l'elezione del presidente della Repubblica. Il quorum dei due terzi sarà necessario per le prime quattro votazioni (oggi vale per i primi tre scrutini), quindi i tre quinti nei successivi quattro voti e maggioranza semplice al nono scrutinio.
 

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