Il mondo deve fare i conti con la Cina (1 Viewer)

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Il mondo deve fare i conti con la Cina
Alfonso Tuor

A pochi giorni dal vertice del G8 che si terrà a San Pietroburgo, che tra le altre cose dovrebbe sbloccare i negoziati commerciali del Doha Round nell'ambito dell'Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), Pechino ha annunciato che in giugno il surplus commerciale cinese ha raggiunto la quota primato di 14,5 miliardi di dollari e che nel primo semestre di quest'anno ha toccato i 61,5 miliardi di dollari con un aumento del 55% rispetto ai primi sei mesi dell'anno scorso.
Questi dati sono in parte sorprendenti. Infatti gli economisti si aspettavano una riduzione dell'attivo commerciale a causa dell'aumento della bolletta petrolifera e dei prezzi delle altre materie prime di cui la Cina è una grande divoratrice. Ciò non è avvenuto a causa della crescita delle esportazioni aumentate in giugno del 23% (a 81,3 miliardi di dollari) rispetto allo stesso mese dell'anno precedente e a causa della sostituzione di molti prodotti finora importati con beni prodotti localmente. Questo nuovo record è dunque destinato ad acuire le tensioni commerciali con i paesi di vecchia industrializzazione e a rilanciare le pressioni occidentali affinché il governo cinese rivaluti ancora lo yuan e garantisca un migliore accesso alle società occidentali. Ci si può quindi domandare se le richieste occidentali siano giustificate e se Pechino sarà disposta ad accettarle. Il surplus commerciale non è di per sè molto elevato e quindi apparentemente non dovrebbe costituire motivo di particolare fastidio.
Analizzando i dati si scopre però che gli scambi commerciali della Cina svolgono di fatto una funzione di grande ridistribuzione dei redditi a livello mondiale. Infatti la Cina accusa dei disavanzi negli scambi commerciali con quasi tutti i paesi in via sviluppo che compensa con grandi surplus negli scambi commerciali con i paesi europei e soprattutto con gli Stati Uniti (ciò non vale per la Svizzera che vanta un attivo negli scambi commerciali con la Cina). Si scopre inoltre che circa la metà delle esportazioni cinesi proviene da multinazionali o società occidentali o giapponesi che hanno trasferito parte dei loro processi produttivi in Cina a causa del basso costo del lavoro. Pechino, che nell'ultimo anno ha già rivalutato lo yuan del 3,5% rispetto al dollaro, sostiene con ottime ragioni che anche un forte apprezzamento della valuta cinese non migliorerebbe la bilancia commerciale americana, perché negli Stati Uniti non vi sono più industrie in grado di sostituire le importazioni cinesi e perché Washington continuirebbe ad impedire l'esportazione di beni tecnologicamente avanzati (che la Cina vorrebbe comprare) per motivi di sicurezza militare. Quindi, la leadership cinese, pur lasciandosi aperta la porta per una nuova modesta rivalutazione, continua a ripetere che la strada migliore per tentare di riaggiustare almeno parzialmente questi squilibri commerciali è quella di aspettare di vedere i risultati della sua politica che mira ad aumentare drasticamente i consumi interni e che quindi farebbe lievitare le importazioni di beni occidentali. Le considerazioni cinesi non sono campate in aria, ma esse mirano, da un canto, a guadagnare tempo e, dall'altro, ad aumentare il grado di interdipendenza economica rendendo estremamente più costosa una «guerra commerciale». Ma vi è di più. Il governo cinese sa di poter contare sul sostegno politico delle multinazionali americane ed europee che operano in Cina e, in caso di necessità, di poter ricorrere alla minaccia di non più continuare a finanziare il disavanzo estero americano con la possibile conseguenza di provocare una crisi del dollaro ed un'impennata dei tassi di interesse statunitensi. Non solo. Le mosse del governo cinese sembrano chiaramente indicare che Pechino ha già previsto una progressiva chiusura dei mercati occidentali alle esportazioni cinesi e che si sta ritagliando un proprio spazio economico per garantirsi, da un canto, l'approvvigionamento di materie prime e, dall'altro, un mercato di sbocco per la propria industria di esportazione oltre ovviamente ad un sostegno politico. Questa strategia è perseguita in modo chiaro e lucido in Africa (dove Pechino usa le proprie riserve valutarie per finanziare ampi progetti infrastrutturali), in America Latina e nel Sud-Est asiatico. Questa politica è aiutata dal fatto che con questi paesi la Cina ha per lo più un disavanzo negli scambi commerciali. Il nocciolo della questione è che la Cina per la velocità della sua crescita economica, per le sue dimensioni e per il suo peso geostrategico non può essere solo considerata un altro paese che fa parte del Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) e che partecipa al libero commercio internazionale. D'altra parte, sia gli Stati Uniti sia l'Europa non sono ancora disposte a trattare un accordo con Pechino che tenga conto del cambiamento delle variabili economiche, commerciali, finanziarie, ambientali e geostrategiche che il boom economico cinese sta provocando. Nel frattempo assisteremo ad un vertice del G8 che per l'assenza dei leaders di Cina, India e Brasile è destinato ad assomigliare ad un incontro delle potenze del passato
 

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