Il "tappo" che Impedisce alla Diga di Crollare

sofferenti? Come se uno che vola da Roma a Los Angeles no stop dovesse per forza tornare brevemente a Chicago per consolidare.
Se però la derivata seconda cambia segno può crearsi nel mercato un certo sbandamento e la correzione, grande o piccola, può avere un senso. Di solito nei momenti d’inversione gli orsi escono correndo dalle caverne con grande rumore di pentole e proclamano alto e forte che è stato tutto un inganno, che ci siamo suggestionati l’uno con l’altro mentre le aziende lottano ancora per sopravvivere e i disoccupati aumentano ogni giorno che passa. I maiali continuano a dormire e a russare forte, ma i tori si interrogano, il rumore di pentole li innervosisce e quando controllano la leva che stanno utilizzando scoprono immancabilmente che è troppo lunga. I tori conoscono il dubbio. Hanno un buon grado di certezza sull’esito finale, ma non sanno mai quanto sarà profonda la correzione. E alleggeriscono.
A loro si uniscono i surfisti che cavalcano tutte le onde, anche le piccole. Di questo, alla fine, sono fatte le correzioni. Nei prossimi giorni si dovrà dunque scegliere, orsi esclusi, se essere tori o maiali, se prendere qualche profitto per rientrare più avanti a livelli più bassi o se tirare dritto e puntare al bersaglio grosso. Potrebbe non essere una scelta facile. Anche se gli indici di diffusione dovessero effettivamente rallentare, vedremmo comunque gli indici di sentiment (fiducia dei consumatori e delle imprese) in miglioramento.
C’è poi un altro elemento più profondo da tenere presente e anche questo rende più difficile la scelta tori-maiali. Consapevoli della derivata seconda negativa che ci accompagnerà per una parte non trascurabile del 2010, accademia e banche centrali si stanno interrogando su come rendere più espansive le politiche monetarie.
Succede infatti che nei comunicati dei
 
andi vertici si parla in modo esteso di exit strategy, ma sotto traccia si discute molto, ad esempio, su come modificare la Taylor Rule (una formula semplice e brillante che calcola il tasso ottimale per avvicinarsi all’inflazione desiderata e ridurre la disoccupazione). Tutte le modifiche proposte portano a un tasso più basso. Nel caso il tasso, come ora, sia già a zero, la politica più espansiva si fa con la banca centrale che acquista ancora più titoli. La Fed di San Francisco continua a produrre studi che arrivano immancabilmente alla conclusione che i tassi, se si intende ridurre la disoccupazione in tempi ragionevoli, dovranno essere profondamente negativi. Non stupisce che, su questa base, la Yellen continui a dirsi preoccupata per il rischio di un’inflazione troppo bassa nei prossimi anni. Ora che Bernake è stato confermato alla guida della Fed non si può più sospettare che la Yellen parli così per acquisire meriti agli occhi del Congresso. Dice quello che dice perché ci crede veramente.
La scelta tori-maiali è dunque difficile. Ma più difficile è una scelta più è indifferente, ex ante, decidere per l’una o per l’altra ipotesi.
 
Come volevasi dimostrare, il G20 di Pittsburgh sarà l’ennesima photo opportunity per i grandi della terra, ma non servirà a nulla se non a buttare al vento qualche miliardo di dollari in organizzazione e sicurezza. La bozza, di fatto resa nota ieri, parla di mantenimento degli sforzi fino alla ripresa e di norme vincolanti sui bonus. Ovvero, altro denaro a pioggia che gonfierà bolle già ben pasciute e inutili manovre populistiche che non faranno altro che ottenere l’effetto contrario a quanto desiderato.

Complimenti. E complimenti anche al commissario Ue agli Affari economici e monetari, Joaquìn Almunia, che ieri ha dichiarato al Parlamento europeo che «non si possono sottrarre gli stimoli troppo in fretta a un'economia che ha ancora le stampelle ma non si possono neanche mantenere troppo a lungo, per evitare di creare le condizioni che hanno portato alla bolla speculativa». Come dire, la pioggia è una rottura di scatole ma anche il troppo caldo dopo un po’ stanca: ecco chi governa le politiche economiche dell’Ue.

«Spero che i temi in agenda al vertice sfocino in un accordo» ha dichiarato ancora Almunia, in particolare per quanto riguarda «il coordinamento delle principali economie mondiali, che deve proseguire definendo strategie d'uscita e i tempi della loro applicazione in modo coordinato». Ci stanno, vi stanno, prendendo sonoramente in giro. Come d’altronde ha fatto l’altro giorno Ben Bernanke, capo della Fed e persona affabile: peccato per un paio di difettucci, veste in maniera impresentabile e soprattutto dice le bugie.

Quando infatti Bernanke ha dichiarato al mondo che «la recessione è finita» ha soltanto cercato di mandare un segnale tranquillizzante, ma ha mentito. Il credito Usa, infatti, si sta contraendo a livelli ben peggiori della Grande Depressione e i principali analisti a stelle e strisce
 
parlano di una recessione a doppia cifra nel futuro prossimo del paese.

Il professor Tim Congdon dell’International Monetary Research ha detto chiaro e tondo che i prestiti delle banche Usa negli ultimi tre mesi si sono contratti del 14%, un qualcosa che non succedeva appunto dai tempi della Grande Depressione e che «sta creando un folle circolo di distruzione dei bilanciamenti monetari nel paese».

La massa monetaria M3 è crollata di oltre il 5% e stando a quanto valutato da David Rosenberg, capo analista alla Gluskin Sheff, le quattro settimane che hanno portato al 24 agosto hanno portato con sé qualcosa di addirittura epico, ovviamente in negativo: ovvero, credito bancario a un -9% su livello annuale, la massa monetaria M2 contratta del 12,2% e quella M1 del 6,5%. «Per la prima volta dalla fine della Seconda Guerra mondiale abbiamo deflazione nel credito, nei salari e negli affitti: è una situazione a dir poco tossica», ha sentenziato Rosenberg.

Uno dei principali motivi scatenanti di questa situazione è la montante pressione presso le banche affinché aumentino i ratios di capitale, un qualcosa di sacrosanto in tempi di boom economico, ma non in tempi di recessione. «Rendere le banche più sane in momenti simili ha il perverso effetto collaterale di far saltare i bilanci di capitale, rafforzando così le forze deflazionarie. Per il prossimo anno dobbiamo attenderci una recessione a doppia cifra», ha concluso Tim Congdon. Insomma, più che ripulire i bilanci per Congdon occorre evitare di gettare soldi e anzi far ritrovare al denaro valore e farlo crescere.

Non la pensa così il numero uno del Fondo Monetario Internazionale, Dominique Strauss-Kahn, che ieri svegliatosi dal torpore garantitogli da questi mesi di prestiti a pioggia e denaro stampato come nelle cantine dei falsari, ha sentenziato che «alcun
 
paesi asiatici stanno guidando la ripresa mondiale, che però resta debole. L'economia mondiale ha iniziato la ripresa. I dati più recenti confermano la stabilizzazione economica globale. Alcuni paesi hanno addirittura ripreso a crescere. L’Asia è più avanti di altri su questa strada ma la situazione sta migliorando anche negli Usa e nell'Europa occidentale. Tuttavia la ripresa resta fragile. La domanda privata è debole, le tensioni finanziarie pesano sui consumi e la disoccupazione continuerà a crescere per un po'. Le nostre previsioni non prospettano una recessione a doppia V. L'economia mondiale si riprenderà alla fine del 2010».

Insomma, l’Asia - cioè la Cina - cresce e questo potrebbe essere un volano per la ripresa, la quale però resta debole ma non andrà incontro a contrazioni a doppia V. Purtroppo, come dimostrano invece le analisi di Congdon e Rosenberg, non solo la recessione sarà a doppia V ma coinvolgerà l’America in maniera devastante: questo non può che portare a un’unica conclusione, ovvero che la Cina non sarà volano per il semplice fatto che renderà sempre più drastica la sua operazione di diversificazione attraverso gli investimenti interni e non l’export, le fonti energetiche rinnovabili e non il petrolio, le riserve auree e monetarie in euro e yen e non più in dollari e soprattutto il graduale , ma netto, sganciamento dal ruolo di sostegno del debito Usa attraverso l’acquisto a pioggia di bonds.

È il nuovo ordine che si prospetta all’orizzonte e, ad occhio e croce, i temi posti in agenda del G20 non paiono all’altezza della gravità di questa situazione: peccato che nessuno sembri voler disturbare il manovratore e tutti plaudano alla ghigliottina verso i bonus dei banchieri. Fosse quello il reale problema, ci sarebbe davvero da tirare un sospiro di sollievo.
 
Il default del secolo? «Stiamo pagando lo scotto non tanto e non solo della crisi in quanto tale, ma di come la crisi è stata gestita». È severo con Barack Obama, Franco Debenedetti: come può il presidente sostenere in modo credibile che non ci saranno più salvataggi da parte dello stato, quando l’amministrazione ha fatto scelte contraddittorie, salvando e non salvando gli istituti a rischio? Non solo: facendo come ha fatto il governo ha dato una grossa mano alla crisi, legittimando prassi di moral hazard. Il buon proposito di evitare nuovi rischi sistemici c’è, ma non basta: tutto sta nel capire come fare e le proposte, per ora, sul piatto non ci sono.

A un anno dal default di Lehman Brothers, ha detto Obama nel suo discorso alla Federal Hall, «non torneremo ai giorni delle azioni sconsiderate e degli eccessi incontrollati alla base della crisi». Ci vogliono le riforme, ha detto, per impedire a una crisi come questa di ripetersi.


Credo che Obama abbia ragione. Non per i motivi che ha detto, però. Il discorso riduce tutto ai rapporti tra Wall Street e Washington. Servirebbe invece adottare una logica più sistemica, e riconoscere che stiamo pagando lo scotto non tanto e non solo della crisi in quanto tale, ma di come la crisi è stata gestita.

Che cosa intende dire?

C’erano due soluzioni “pulite”. Una era quella del fallimento: gli azionisti perdono i loro soldi, il management viene cacciato, i bilanci vengono puliti. Questa è la soluzione di mercato. L’altra soluzione era quella di governo, che consiste nella nazionalizzazione delle banche: anche lì gli azionisti perdono, il management viene sostituito, si decide se e in che misura rimborsare gli obbligazionisti, e poi, rapidamente, il governo rivende le banche ripulite al mercato. È la soluzione svedese.

Il governo Usa però non ha seguito né l’una né l’altra strada…


Infatti. Mi rendo perfettamente conto che sono soluzioni limite, in qualche misura astratte. Le procedure fallimentari, anche negli Stati Uniti, hanno tempi incompatibili con la necessità di fermare la frana in tempi di giorni se non di ore; e i governi non hanno le risorse umane e le competenze per gestire banche, e quindi devono per forza ricorrere ai medesimi manager. Inoltre la nazionalizzazione presenta il pericolo che ci sia qualcuno che ci pigli gusto, che le banche non vengano più restituite al sistema privato e che quindi si finisca in un sistema di banche pubbliche. Noi italiani ne sappiamo qualcosa. Si é inondato il mercato di liquidità: l’incendio è stato spento, le banche ricominciano a guadagnare, ma la qualità degli attivi dei loro bilanci è in buona parte quella di prima.

Abbiamo visto pesi e misure differenti: Lehman è stata lasciata fallire, mentre il colosso delle assicurazioni Aig, per esempio, è stato salvato.


Obama, quando dice che nessuno dovrà più illudersi che ci siano salvataggi da parte dello stato, come può pretendere di essere creduto? Con l’eccezione di Lehman, l’amministrazione Usa non ha fatto mancare a nessuno il sostegno diretto o indiretto, esplicito o implicito. Ha legittimato l’azzardo morale: e adesso dice che non lo farà più? Eliminare il problema alla radice, impedendo sul nascere che si formino situazioni che presentano rischi sistemici é un buon proposito, ma chi vigilerà e lancerà l’allarme? Avrà la visione per individuarli, e i poteri per smontarli?

Il presidente ha garantito una svolta. «Il lavoro di recupero prosegue - ha detto - le tempeste dei due anni passati stanno iniziando a calmarsi».


Sarebbe masochista non riconoscerlo. Ma sarebbe compiacente non essere avvertiti dei pericoli che hanno prodotto proprio le misure di contrasto della crisi, cioè la massa di danaro con cui si è inondato il mercato. Quanto alle misure per “non tornare alle misure sconsiderate”, per citare la fase di Obama, le proposte che si fanno sono anche giuste, ma o non sono molto efficaci, o sono difficili da applicare. Ad esempio: chi devono essere i nuovi supervisori? Una sola o più autorità?

Joseph Stiglitz ha detto che Wall Street è ancor più fragile, perché le banche sono più grosse di un anno fa e le regole ancora non ci sono. È così?


Ha ragione anche lui: se ci sono banche “too big to fail” nessuno crederà che lo stato non interverrà a salvarle. E poi, quando é che una banca diventa troppo grossa? Lehman non era tra le più grosse, e Aig non era neppure una banca. Cosa vuol dire che non ci deve essere un rischio sistemico? Giustissimo, ma in base a che cosa si valuta se c’è un rischio sistemico oppure no? Ci vuole una strategia per gestire le emergenze, dice il governo. Benissimo. Quale? Anche perché le emergenze hanno la pessima abitudine di non presentarsi due volte nello stesso modo.

Esiste un provvedimento per ridurre i rischi sul quale c’è un consenso unanime: quello di aumentare i requisiti patrimoniali delle banche.


Ottimo, ma intanto diamo alle banche dei messaggi contraddittori: da un lato diciamo loro di aumentare gli impieghi, di prestare più soldi, dall’altro di ridurre la leva. Diciamo che devono rafforzarsi e le rimproveriamo se ricominciano a guadagnare. Il Fmi ha calcolato che per arrivare ai rapporti di patrimonializzazione di metà anni ’90 ci vorrebbero a livello mondiale 1700 miliardi di dollari. Alla fine l’unica cosa sulla quale ci si trova facilmente d’accordo è di mettere un tetto agli stipendi dei banchieri.

Lasciamo tutto così com’è, compresi i superbonus?


Alcuni bonus erano e sono scandalosi, l’indignazione è giustificata. Riportarli alla decenza è legittimo, anche se non lo sono tutti i mezzi proposti. L’importante è non pensare che siano stati i bonus la causa della crisi, e che quindi ridurli serva a evitare crisi future. Un discorso analogo vale per gli impieghi: vogliamo che Passera guadagni di meno o che vengano dati prestiti alle aziende che lo meritano e che possono restituirli?

A un anno dal crack secondo lei prevalgono i fattori di sofferenza - i fallimenti che continuano per le banche regionali più piccole, o i titoli tossici ancora in possesso della Fed per esempio - o i segnali positivi?


Sicuramente ci sono segnali positivi. Ma i problemi non sono stati risolti. E il pericolo che con l’inondazione di capitale immesso nel sistema si crei un’altra bolla è reale.
 
continuo il grafico che avevi postato
come si fa a non cagnare
rispengo il pc visto che porta bene
addio
 

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