Credito tricolore/ Banche nel mirino dei big stranieri. I conti stimolano gli appetiti esteri
Venerdì, 16 novembre 2012 - 15:07:00
Doppiato lo scoglio dei risultati dei primi nove mesi dell'anno, che quadro emerge per il settore bancario italiano e che prospettive sembrano attendere i principali istituti tricolori alla luce dell'attuale scenario macroeconomico e di politica monetaria nel vecchio continente? Anzitutto a scorrere i dati delle relazioni pubblicate e a guardare la valutazione espressa dai mercati, salta all'occhio come se si tolgono
Intesa Sanpaolo (20,14 miliardi di euro di capitalizzazione)
e UniCredit (19,36 miliardi),
gli istituti italiani più che "pesi piuma" sembrino dei nanetti al confronto con la stazza dei concorrenti europei.
Anche non tenendo conto dei tre "campionissimi" come
Barclays (che ormai viaggi attorno ai 147,6 miliardi di capitalizzazione),
Hsbc (oltre 143 miliardi di euro di capitalizzazione per il maggior istituto del vecchio continente in termini di asset)
e Credit Suisse (sopra i 102,5 miliardi),
i due campioni italiani possono sperare di battersi ad armi pari giusto con
Societe Generale (18,62 miliardi di capitalizzazione),
Credit Agricole (13,78 miliardi)
o Commerzbank (7,31 miliardi) in caso di future operazioni di fusione o acquisizione a livello continentale, mentre in tutti gli altri casi lo scontro sarebbe impari (il Bbva, il più "piccolo" tra le "grandi" d'Europa, capitalizza comunque oltre 28,8 miliardi di euro).
Alle spalle di UniCredit e Intesa Sanpaolo la situazione è ancora più deprimente: Ubi Banca è ormai la terza banca italiana per capitalizzazione con 2,45 miliardi,
avendo scavalcato Mps (2,3 miliardi),
Banco Popolare (1,95 miliardi),
Banca Carige (1,41 miliardi),
Bper (1,36 miliardi),
Popolare Sondrio (1,25 miliardi),
Bpm (1,21 miliardi)
e il Credem (che con 1,08 miliardi chiude la corta classifica di istituti italiani che capitalizzano oltre il miliardo di euro).
Ancora più in giù il Credito Bergamasco (circa 882 milioni),
per poi cadere col Credito Valtellinese, Banco di Sardegna e Banco Desio rispettivamente attorno ai 386, ai 364 e ai 248 milioni.
Bruscolini per istituti delle dimensioni del
Santander (52,41 miliardi),
Bnp Paribas (49,24 miliardi)
o Ubs (43,83 miliardi), c
he con Deutsche Bank (30,33 miliardi)
restano dunque i potenziali predatori nel momento in cui, passata la crisi, dovesse tornare di moda il "risiko" bancario all'interno del vecchio continente.
Prima che ciò avvenga, peraltro, passeranno probabilmente ancora diversi trimestri visto che i conti dei nostri istituti (e di quelli europei) per quanto in progressivo miglioramento mostrano ancora parecchi punti di debolezza, eredità della fase di espansione che ha preceduto al crisi del 2008-2009 e poi del debito sovrano europeo, crisi che ha portato gli istituti a restringere il credito e tagliare la leva finanziaria.
Un processo, quello del deleveraging, che sembra dover durare ancora a lungo visto l'andamento dei crediti deteriorati (ossia in sofferenza, incagliati, o ristrutturati e scaduti/sconfinanti) e il rapporto tra depositi e prestiti.
Se a livello di sistema siamo arrivati a 117,6 miliardi di sofferenze a fine settembre,
le prime sei banche presentavano alla stessa data crediti deteriorati per 113 miliardi di euro, pari all'8,66% dei propri crediti totali.
Via Nazionale sembra per ora escludere un approccio sistemico al problema: non vi è alle porte alcuna "bad bank" sull'esempio di quella spagnola, insomma, ma eventuali interventi mirati banca per banca (anche perché al momento il mercato delle cessioni di portafogli in sofferenze è bloccato).
Nel dettaglio in casa
Intesa Sanpaolo i crediti deteriorati nel complesso valgono 27,266 miliardi (il 7,27% dei 375 miliardi totali), valore in crescita del 20,1% rispetto ai 22.696 milioni del 31 dicembre 2011 (mentre il totale dei crediti è in calo dello 0,5% rispetto alla stessa data),
mentre
per UniCredit siamo a 45,8 miliardi netti (+4,7% rispetto a giugno), l'8,15% rispetto a crediti totali risaliti a 561.875 milioni a fine settembre (con 80,4 miliardi di crediti deteriorati lordi, in crescita di 2,7 miliardi, ossia del 3,5%, rispetto a fine giugno, pari al 14,31% dei crediti totali).
Non stanno messi molto meglio neppure gli altri istituti italiani:
Mps conta 17 miliardi di crediti deteriorati (il 12% circa dei 145 miliardi di crediti totali),
Banco Popolare vede gli attivi deteriorati salire a 15,8 miliardi (il 16,1% dei 98 miliardi di impieghi lordi),
Ubi Banca arriva a quota 7,77 miliardi, pari all'8,19% dei crediti netti,
in casa Bpm i crediti deteriorati sfiorano i 3,88 miliardi (l'11,09% rispetto a 34,95 miliardi di crediti complessivi),
in Carige siamo a 3,2 miliardi lordi (2,37 miliardi netti), pari all'11,2% dei crediti totali (all'8,6% al netto delle rettifiche).
Altro punto dolente è il rapporto depositi/impieghi:
scongiurata la "fuga" dei depositi anche grazie all'intervento della Bce, se Intesa Sanpaolo, indubbiamente la migliore banca italiana al momento, vi è un sostanziale equilibrio (373,4 miliardi di depositi, 374,8 miliardi di crediti),
UniCredit registra 420,37 miliardi di depositi (0,75 volte circa i 561,87 miliardi di impieghi),
Mps vede i depositi scendere sui 135,3 miliardi (0,93 volte i crediti verso clientela),
Banco Popolare è sui 96,57 miliardi (superando dunque i 93,78 miliardi di crediti erogati alla clientela),
Ubi Banca è a quota 56,36 miliardi (meno di 0,6 volte i crediti alla clientela),
Bpm sfiora i 24,55 miliardi di depositi (poco più di 0,7 volte i 39,94 miliardi di crediti),
Carige si ferma a 16,05 miliardi (0,58 volte i crediti verso clientela).
In conclusione, se dai conti è emerso una discreta tenuta dei margini, grazie all'azione di "repricing" attuata dagli istituti, la rischiosità del credito appare ancora elevata, il che, in un mercato che fatica a tornare a ragionare di utili (e di dividendi: certi per Intesa Sanpaolo, probabili per UniCredit, in forse per quasi tutti gli altri istituti italiani) e resta concentrato sugli aggregati patrimoniali e sull'andamento delle ristrutturazioni in corso (che banche d'affari come Morgan Stanley pronosticano essere ben distanti dall'essere terminate e poter anzi cambiare radicalmente volto al settore nei prossimi anni), significa che i titoli del comparto resteranno a lungo una "proxy" dell'andamento dei titoli di stato italiani, di cui continuano ad aver pieni i portafogli. Con eventuali appeal speculativi, come quello di recente sperimentato da UniCredit, legati a scorpori e cessione di asset, riaggregazioni, passaggi del controllo da un azionista di riferimento all'altro.
Luca Spoldi