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Forumer storico
La tassa di Obama sulle banche
Un piccolo obolo da versare quale ringraziamento
16 gen 2010
di ALFONSO TUOR
La tassa sulle banche annunciata giovedì scorso dal presidente americano Obama risponde ad una necessità politica. Dal momento del suo insediamento, poco meno di un anno fa, l’amministrazione democratica insieme alla Federal Reserve ha fatto tutto quello che Wall Street chiedeva, con il risultato che le banche hanno ripreso ad annunciare utili stramiliardari, mentre la disoccupazione continuava e continua ad aumentare e l’economia è ancora in forti difficoltà. Quindi il presidente Obama, sempre più contestato anche da ampi settori del suo partito, ha giocato la carta di questa tassa sulle maggiori banche, poiché è consapevole che la sua popolarità, già in sensibile calo, senza questa mossa subirebbe un ulteriore e pesante contraccolpo nei prossimi giorni quando i grandi di Wall Street annunceranno, oltre agli utili, anche la distribuzione di bonus miliardari. A dimostrazione di questa tesi è utile ricordare che il presidente americano ha espressamente affermato che i bonus elargiti dal settore finanziario sono «osceni». Si può dunque sostenere che questa tassa è una testimonianza, seppur indiretta, dell’atteggiamento dell’opinione pubblica americana nei confronti del settore finanziario e delle sue generose remunerazioni. Questa lettura è tuttavia riduttiva: la proposta di Obama è anche il risultato della mancanza di volontà o dell’incapacità dell’amministrazione di svolgere un ruolo guida nella definizione di nuove regole di funzionamento del sistema finanziario e degli organismi di sorveglianza. Finora il Ministero del tesoro statunitense e la Federal Reserve non hanno presentato un piano credibile di nuove regole, con il risultato di essere scavalcati dallo stesso Congresso, dove si moltiplicano le proposte di riforma delle regole di funzionamento del sistema finanziario e delle autorità di sorveglianza: dall’idea, che raccoglie ampie adesioni da parte di deputati e senatori, di spogliare la Federal Reserve del compito di sorveglianza del sistema bancario alla proposta di legge bipartisan presentata al Senato dall’ex candidato alla presidenza, il repubblicano John McCain, di reintrodurre la separazione tra banche commerciali e banche di investimento. Questo accavallarsi di proposte parlamentari e la crescente perdita di credibilità del ministro del Tesoro, Tim Geithner, e del presidente della Fed Ben Bernanke, stanno diventando sempre più un fattore di grande disturbo. In questo contesto, l’idea della tassa sulle banche può essere letta come una scomposta e tardiva reazione di un’amministrazione democratica che finora ha saputo solo piegarsi ai voleri di Wall Street.
Il prelievo ipotizzato si fonda sul principio di far pagare al settore finanziario i costi della crisi sostenuti dai contribuenti. Infatti il presidente Obama ha detto che con questa nuova tassa «lo Stato federale vuole recuperare i soldi dei cittadini». Quanti? Qui sorge il problema di definire i costi della crisi imputabili alle banche. Evidentemente non ci si dovrebbe limitare ai costi del salvataggio dei singoli istituti. Occorre ricordare che la maggior parte delle banche americane ha restituito i capitali statali ottenuti tramite il programma Tarp, varato dall’amministrazione Bush per evitare il collasso del sistema finanziario. Se ci si limitasse a questi costi, il settore finanziario sarebbe chiamato a restituire i capitali dati a General Motors e a Chrysler e a pochi altri istituti. Se invece si considerassero tutti i costi della crisi scaricati sul contribuente americano, si dovrebbero tenere in considerazione i 700 miliardi di dollari del pacchetto di rilancio dell’economia, i buchi delle agenzie Freddie Mac e Fannie Mae, i costi della disoccupazione e via dicendo. In tal caso il gettito previsto di questa tassa, che dovrebbe aggirarsi attorno ai 90/100 miliardi dollari, sarebbe assolutamente insufficiente.
L’amministrazione sostiene di aver valutato diverse opzioni e di essere giunta alla conclusione che la soluzione migliore è tassare le attività bancarie non coperte dall’assicurazione sui depositi dei maggiori istituti, ossia una cinquantina con una cifra di biliancio superiore ai 50 miliardi di dollari. Il risultato è che alla cassa saranno chiamate anche le banche estere che operano negli Stati Uniti, come UBS e Credit Suisse, ma che non hanno e che sicuramente non avrebbero mai potuto beneficiare di iniezioni di capitali pubblici americani.
Non stupisce che Wall Street non sia finora salita sulle barricate per osteggiare la proposta di Obama. I banchieri americani sanno che si tratta di un piccolo obolo che devono versare quale ringraziamento all’amministrazione democratica e quale pedaggio ad un’opinione pubblica americana sempre più insofferente.
Un piccolo obolo da versare quale ringraziamento
16 gen 2010
di ALFONSO TUOR
La tassa sulle banche annunciata giovedì scorso dal presidente americano Obama risponde ad una necessità politica. Dal momento del suo insediamento, poco meno di un anno fa, l’amministrazione democratica insieme alla Federal Reserve ha fatto tutto quello che Wall Street chiedeva, con il risultato che le banche hanno ripreso ad annunciare utili stramiliardari, mentre la disoccupazione continuava e continua ad aumentare e l’economia è ancora in forti difficoltà. Quindi il presidente Obama, sempre più contestato anche da ampi settori del suo partito, ha giocato la carta di questa tassa sulle maggiori banche, poiché è consapevole che la sua popolarità, già in sensibile calo, senza questa mossa subirebbe un ulteriore e pesante contraccolpo nei prossimi giorni quando i grandi di Wall Street annunceranno, oltre agli utili, anche la distribuzione di bonus miliardari. A dimostrazione di questa tesi è utile ricordare che il presidente americano ha espressamente affermato che i bonus elargiti dal settore finanziario sono «osceni». Si può dunque sostenere che questa tassa è una testimonianza, seppur indiretta, dell’atteggiamento dell’opinione pubblica americana nei confronti del settore finanziario e delle sue generose remunerazioni. Questa lettura è tuttavia riduttiva: la proposta di Obama è anche il risultato della mancanza di volontà o dell’incapacità dell’amministrazione di svolgere un ruolo guida nella definizione di nuove regole di funzionamento del sistema finanziario e degli organismi di sorveglianza. Finora il Ministero del tesoro statunitense e la Federal Reserve non hanno presentato un piano credibile di nuove regole, con il risultato di essere scavalcati dallo stesso Congresso, dove si moltiplicano le proposte di riforma delle regole di funzionamento del sistema finanziario e delle autorità di sorveglianza: dall’idea, che raccoglie ampie adesioni da parte di deputati e senatori, di spogliare la Federal Reserve del compito di sorveglianza del sistema bancario alla proposta di legge bipartisan presentata al Senato dall’ex candidato alla presidenza, il repubblicano John McCain, di reintrodurre la separazione tra banche commerciali e banche di investimento. Questo accavallarsi di proposte parlamentari e la crescente perdita di credibilità del ministro del Tesoro, Tim Geithner, e del presidente della Fed Ben Bernanke, stanno diventando sempre più un fattore di grande disturbo. In questo contesto, l’idea della tassa sulle banche può essere letta come una scomposta e tardiva reazione di un’amministrazione democratica che finora ha saputo solo piegarsi ai voleri di Wall Street.
Il prelievo ipotizzato si fonda sul principio di far pagare al settore finanziario i costi della crisi sostenuti dai contribuenti. Infatti il presidente Obama ha detto che con questa nuova tassa «lo Stato federale vuole recuperare i soldi dei cittadini». Quanti? Qui sorge il problema di definire i costi della crisi imputabili alle banche. Evidentemente non ci si dovrebbe limitare ai costi del salvataggio dei singoli istituti. Occorre ricordare che la maggior parte delle banche americane ha restituito i capitali statali ottenuti tramite il programma Tarp, varato dall’amministrazione Bush per evitare il collasso del sistema finanziario. Se ci si limitasse a questi costi, il settore finanziario sarebbe chiamato a restituire i capitali dati a General Motors e a Chrysler e a pochi altri istituti. Se invece si considerassero tutti i costi della crisi scaricati sul contribuente americano, si dovrebbero tenere in considerazione i 700 miliardi di dollari del pacchetto di rilancio dell’economia, i buchi delle agenzie Freddie Mac e Fannie Mae, i costi della disoccupazione e via dicendo. In tal caso il gettito previsto di questa tassa, che dovrebbe aggirarsi attorno ai 90/100 miliardi dollari, sarebbe assolutamente insufficiente.
L’amministrazione sostiene di aver valutato diverse opzioni e di essere giunta alla conclusione che la soluzione migliore è tassare le attività bancarie non coperte dall’assicurazione sui depositi dei maggiori istituti, ossia una cinquantina con una cifra di biliancio superiore ai 50 miliardi di dollari. Il risultato è che alla cassa saranno chiamate anche le banche estere che operano negli Stati Uniti, come UBS e Credit Suisse, ma che non hanno e che sicuramente non avrebbero mai potuto beneficiare di iniezioni di capitali pubblici americani.
Non stupisce che Wall Street non sia finora salita sulle barricate per osteggiare la proposta di Obama. I banchieri americani sanno che si tratta di un piccolo obolo che devono versare quale ringraziamento all’amministrazione democratica e quale pedaggio ad un’opinione pubblica americana sempre più insofferente.