Molti avranno avuto l'esperienza di camminare "cercando di stare" nei segni trovati al suolo (pietre, liste di marmo), o di sperimentare comunque una certa attenzione ai segnali dell'ambiente, anche verticale - alberi, pali, colonne - in rapporto, continuando l'esempio, con i propri passi. Chi non l'avesse mai provato, avrà pero probabilmente almeno visto un bambino che cercava di non pestare mai la giunzione tra due pietroni del lastricato, o viceversa di camminare sopra a tutti questi, non mancandone uno. Pare solo un gioco, ma è chiaro che non è solo ciò, se ci "assale" una simile mania anche da adulti - salvo, per i più, il distaccarsene subito, naturalmente. Credo che questa attitudine dimostri una volontà di difendere l'integrità del proprio io, in qualche modo minacciato da fantasmagoriche aggressioni dell'ambiente. Qui c'è una riga, qui un'altra: e io non le calpesto, so elevarmi sino a questa capacità. Però lo faccio anche "contro" quella costrizione, puramente simbolica, peraltro. Un poco come nei giochi di guerra.
Bene, che c'entra?
Pensiamo a un bambino che vuole completare la sua raccolta di figurine (parlo del passato, di quelle vecchie: del presente, non avendo figli, non saprei). Quale angoscia, quale febbrile ricerca una volta giunto a pochi passi dal traguardo. Non conta più, allora, ciò che si ha, ma ciò che manca! E questo avviene perché l'identità del ragazzo viene da lui collegata con l'integrità della collezione, cioè con la completezza. L'adulto vive qualcosa del genere in occasione di un graffio alla carrozzeria dell'auto: si perde la completezza di qualcosa (di un'identità). La stessa cosa, l'identità, viene messa alla prova nel giochino di "calpestare tutte le righe" - o non calpestarle.
Questi esempi riguardano qualcosa di "chiuso", limitato: la collezione di 200 figurine, la superficie della macchina. Ma con l'arte ci troviamo sull'altro versante, quello opposto, quello della costruzione "aperta". Mi spiego. Normalmente la produzione artistica disponibile è sterminata. Praticamente nessuno può possedere "tutto" di qualcosa, nemmeno di un solo artista (a parte che ... sai che noia - che significa che inconsciamente non accettiamo di identificarci in un solo autore, comprendiamo che in questo ci sarebbe qualcosa di malato, unidirezionale, mentre la vita necessita di varietà). Non potendo possedere tutto, ogni acquisto che si aggiunge alla collezione sarà come un mattoncino che contribuisce a creare la figura immateriale di un proprio io in perpetua evoluzione.
L'album di figurine terminato è il raggiungimento di qualcosa, come lo scudetto per una squadra, la vittoria in torneo per un tennista, il superamento di un esame. Qualcosa che finisce, e dunque ha a che fare da una parte con il concetto di morte, dall'altra con il concetto di felicità (si dice felice viaggio, per intendere che sarà compiuto bene: la felicità in senso stretto si prova solo nel portare a termine qualcosa - non fisicamente, ma psicologicamente, se ogni sera porto avanti con soddisfazione un lavoro vado a dormire felice - e però quando lo termino sarà un altro tipo di felicità che si aggiunge). L'operazione ebbe un esito felice: significa che è finita bene. Una scelta felice: un buon risultato. ecc.
Il collezionista deve trovare una qualche completezza, una fine: certamente lo soddisfa ogni passo in sé, visite a mostre, rivedere un'opera propria. Ma questo ha a che fare con la soddisfazione del giorno, non con la felicità. Peraltro, il collezionista sa di non poter terminare la raccolta. Fuor di metafora, egli non completerà mai la creazione del suo io/immagine. Dovrà dunque, o porsi dei limiti artificialmente scelti (es. solo francobolli di un paese, o di un periodo) oppure avere l'atteggiamento psicologico del lavoratore, dell'artigiano che ogni sera va a dormire soddisfatto. Se non lo fa è condannato al tormento dell'infelicità. Non può, alla lettera, avere un "tutto", per la natura stessa dell'arte. Pertanto il suo lavoro sarà creare un'opera/collezione aperta, un io in continuo divenire. Soddisfazioni magari molte, felicità, se non se la inventa in proprio, mai.
Un personaggio valido dell'altro forum si è dato come metodo, come autolimitazione, la regola di non prendere che una sola opera di ogni autore che gli interessa, e che sia un'opera di alto livello. In tal modo ha trovato un escamotage assai funzionale che gli permette di raggiungere ogni volta, ad ogni acquisto, la felicità che deriva da qualcosa di compiuto. Lo scrivente, peraltro, ha fatto una scelta differente, rinunciando ai piaceri del possesso definitivo e spostando l'aspetto narcisistico dell'acquisto dal possesso al gusto della ricerca. In pratica, istituzionalizzando l'opera aperta (strategia che ha il grosso limite di rendere il cercatore dipendente dalla situazione).
Comunque, nemmeno lo scrivente si considera un vero "collezionista". Conosco invece una coppia in cui lui è appassionato di fotografia, lei di ballo. La loro casa è strapiena di riviste e foto sul ballo, ed ogni volta cercano, comprano e mettono via con le stesse modalità con cui tutti ogni giorno mangiamo: tensione della fame, pranzo, soddisfazione della pancia piena e distensione. Chiaro che mangiare, per il fatto che deve inevitabilmente ripetersi, non può dare la soddisfazione della felicità, solo ripetuto piacere, al massimo. Ora, chi mangia (tutti) non può davvero definirsi collezionista di cibo. Anche per l'importante particolare che egli distrugge il suo oggetto per sempre, mentre il collezionista presta grande attenzione alla conservazione e all'integrità dell'oggetto. Perché la collezione è "per sempre", anche se poi si scambia o si vende: ma non si distrugge mai.