La politica nei confronti di quest’ultima, invece, nei suoi compiti più importanti
(a parole
rituali: istruzione, università, ricerca pubbliche, servizio sanitario pubblico e sua provvista di personale specializzato,
sistema pensionistico e sue modalità organizzative di gestione, da sempre incompiute, a tacer d’altro)
è stata improntata, da quasi tre decenni, sul concetto-perno che la (mai ben definita: altro
meme espressionista)
meritocrazia
consista nell’incessante riordino dei già complicati sistemi di assunzione e di progressione in carriera,
con la creazione di status plurimi, incoerenti, sovrapposti tra loro, e spesso discriminatori tra categorie di dipendenti che esercitano le medesime attività.
E tutto questo, senza voler/poter risolvere il vasto fenomeno del
precariato (dal quale abbiamo ricavato una serie plurima di condanne da parte del giudice europeo);
ciò, essenzialmente a causa degli stringenti vincoli di bilancio che
emergenzialmente, ma con puntualità annuale ripetitiva, conducono alle politiche a costo zero.
E, ancor più, replicano
sine die politiche di sostanziale
blocco delle assunzioni e degli investimenti in conto capitale,
con conseguente depauperamento delle competenze, vecchie e nuove, e del capitale fisso, trovandocisi così
nel progressivo deterioramento personale e strumentale della funzione pubblica: uno dei più facili settori “per fare cassa” (praticamente all’infinito).
Ma attenendoci alla notazione iniziale sulla suggestione ecologico-ambientalista delle politiche fiscali preannunziate,
spicca la previsione
Green New Deal e transizione ecologica del Paese.
Che tale imminente legislazione sia fortemente costosa, – potendosi agevolmente dedurre che porterà, per cittadini, imprese e enti territoriali coinvolti,
una serie di oneri finanziari e di adeguamento operativo che determineranno notevoli esborsi dal (sempre più magro) reddito disponibile-,
abbiamo la certezza: in uno slancio ammissivo inequivoco, si implica che una parte di questi oneri possano essere sostenuti dallo Stato,
rendendocisi conto, che la loro non attenuata imposizione a carico del tessuto produttivo e sociale, potrebbe rivelarsi troppo pesante per la crescita,
per i consumi e per gli investimenti (quelli non vincolati dagli standard aggiuntivi ambientali e prevalentemente corrispondenti a importazioni, ovviamente).
Ed infatti, “
il Governo intende presentare alla Commissione Europea una richiesta di flessibilità per il 2020
in ragione di spese eccezionali per il contrasto dei rischi derivanti dal dissesto idrogeologico
e per altri interventi volti a favorire la sostenibilità ambientale del Paese, quantificabili nell’ordine di 0,2 punti percentuali di PIL”.
Orbene, scindendo da questa flessibilità la quota-parte delle spese eccezionali per il contrasto ai rischi idrogeologici
(che appare comunque un ammontare risibile di fronte alla quantificazione del fabbisogno complessivo:
secondo l’ANCE-Cresme la spesa per una soluzione strutturale indispensabile
ammonta a oltre 40miliardi, cioè circa 3 punti di Pil! ),
pare oggettivo che
la quota parte di flessibilità (del tutto imprecisata) destinata all’adeguamento all’emergenza ambientale
e al “cambiamento climatico” (un postulato tra i più scientificamente e crescentemente controversi), diviene talmente “
esile”
da rendere vieppiù indispensabile la (tutt’ora latitante)
quantificazione, settore per settore, e per ogni categoria degli attori onerati,
dell’impatto delle nuove misure e standard ambientali.
In assenza di questa valutazione preliminare di impatto, prima di tutto sulla crescita (per via di un aumento dei costi-prezzi di impresa,
di una diminuzione dei consumi
ordinari, “spiazzati” dalla decurtazione del reddito disponibile,
di un altamente presumibile aumento di beni e servizi importati determinato dagli obblighi legali di
compliance ambientale),
arriviamo a un altro aspetto critico del NADEF: cioè, finisce per divenire
del tutto incerto il già velleitario quadro di crescita
quantificata allo 0,4 per il 2020 (e allo 0,8 e all’1% nei due anni successivi).
La descrizione, compiuta nel NADEF, del previsto andamento delle varie componenti del Pil, infatti, è ontologicamente legata a
previsioni che,
già di per sé, presumono la continuità di andamenti incorporati in modelli di tendenze puramente statistiche e non possono per definizione ritenersi affidabili;
specie perché, allo stesso tempo, si ammette che le esigenze fiscali – specialmente relative a nuove entrate – implicano una compressione della domanda interna.
E ciò;
- a)sui consumi, rispetto a cui si prevede un semplice non-effetto derivante dalla disattivazione della clausola di salvaguardia IVA, ma senza calcolare in modo chiaro, e sufficientemente analitico, il concomitante effetto dei vari strumenti di parziale copertura tributaria, nonché in termini di revisione del livello della spesa pubblica, di tali entrate;
- b)sul saldo delle partite correnti, ritenuto in ripresa, in modo tanto ottimistico quanto non perspicuamente motivato;
- c)sugli investimenti e sulla capacità produttiva, anticipandosi un aumento della propensione al risparmio e un supposto aumento degli investimenti, la cui debolezza, in presenza di tali incertezze sugli oneri sistemici da sopportare a seguito delle riforme Green e della crisi del commercio internazionale, potrebbe ragionevolmente accentuarsi piuttosto che riprendersi.
6.1. Per il 2020, è poi previsto un
aumento “ricostitutivo” delle scorte (rispetto al pessimo 2019), e quindi della crescita del prodotto,
che presupporrebbe appunto il venir meno, altrettanto meramente
sperato, delle tensioni geo-politiche, ma anche finanziarie,
sul commercio internazionale:
poco più di una scommessa, visti gli elementi che vengono pure considerati nell’esposizione della congiuntura economica internazionale
(
guerre daziarie in via di inasprimento, sopravvenuta inefficacia delle politiche espansive delle varie banche centrali,
sintomi crescenti di gravi crisi bancarie sistemiche internazionali, a loro volta legate all’andamento dell’economia reale in paesi a forte vocazione esportativa, come la Germania).
Insomma, le ragioni del proseguire di una stagnazione globale (nella migliore ipotesi che non intervengano traumi finanziari e bancari),
vengono esaminate e scartate come in una sorta di
wishful thinking non ancorato ad alcuna prudenziale certezza.
Considerati gli elementi fin qui considerati, il saldo del 2,2 per il 2020 appare un proposito governato da un livello di incertezza
che soltanto
un’inspiegabile e contraddittorio atteggiamento della Commissione– che già in pratica dovrebbe accettare una rinuncia italiana
alla correzione del saldo di 0.6 imposto dalle regole sulla sorveglianza di bilancio-
potrebbe far passare.
Contraddittorio e inspiegabile, proprio perché la Commissione dovrebbe recedere dalla posizione assunta con la chiusura della procedura
di (pre)infrazione avvenuta a luglio; cioè accettando per buone delle indicazioni, sui saldi strutturali e sull’indebitamento,
(e quindi sull’andamento debito/Pil), che presuppongono:
i) un livello di crescita che, ridotto alla sua essenza,
scommette su una tenuta della variazione immediata del surplus commerciale, e
ii) su una rinata
fiducia di consumatori e investitori privati nazionali che, invece, si troveranno di fronte a una situazione di scarso,
se non nullo incentivo (fiscale, pro-ambientalistico, e congiunturale internazionale) a mutare le attuali tendenze di comportamento.