In Lombardia, la battaglia collettiva al Covid19 si combatte con l’iniziativa personale. E si vince solo se si ha la fortuna d’incontrare dei medici disponibili, che si prestano a fare quello che nessuno in Regione si organizza per fare: seguire i pazienti che si sono fatti la malattia a casa.
Sono in isolamento volontario per sospetto Covid dal 17 marzo. Ho già avuto tutti i sintomi classici – tosse, febbre, anosmia – e, su consiglio del medico curante, mi appresto a terminare la quarantena quando, il giorno di Pasqua (12 aprile), leggo che l’assessore al Welfare della Lombardia Giulio Gallera paventa di allungare la quarantena da 14 giorni a 28 perché “molte persone poi sono ancora positive, quindi a garanzia di tutti allunghiamo il periodo”.
Non vedo l’ora di poter uscire e tornare dalla mia famiglia, ma come faccio a essere sicuro di non essere più contagioso al termine della reclusione? Mi metto al telefono per cercare di capire. Il mio medico di base non sa nulla delle nuove disposizioni.
“Ho letto anch’io, ma di comunicazioni ufficiali dalla Regione non ne sono arrivate. Al momento le indicazioni per la quarantena restano 14 giorni”. A sentire Gallera, però, con buona probabilità potrei essere ancora una bomba virale, ufficialmente autorizzata a uscire, pronta per infettare tutti quelli che incontro per la strada.
Martedì 14 aprile chiamo nell’ordine:
- il 1500,
- l’Ats,
- il numero verde regionale,
- la clinica La Madonnina,
- il San Raffaele,
- il San Giuseppe,
- il Niguarda
- e il Policlinico.
Mi risponde gente più o meno affabile. Ma tutti con lo stesso messaggio: il tampone, a me, non lo possono fare.
Il numero nazionale dice che spetta al medico di base, il medico di base che spetta all’Ats, l’Ats alla Regione. I rappresentanti di queste ultime due, sono gli unici che cercano anche di giustificare l’impossibilità di fare i tamponi a chi è a casa. “
Non servono, sono solo una fotografia del momento”, m’informa un’infermiera dell’Ats.
“Siamo ancora in emergenza”, mi dice il centralinista della Regione che, per dare più peso alla sua opinione, si qualifica come tecnico di laboratorio prestato come volontario al call center.
“Ma scusi, ma visto che Milano e province sono ormai rimaste le uniche a registrare numeri di contagi così alti, non si potrebbe smistare il carico di lavoro ad altri laboratori in giro per l’Italia?”, domando. Risposta: “Evidentemente ci sono altre priorità”.
Alla fine, sempre il 14 aprile chiamo l’ospedale Sacco. Spiego la mia storia, che credo sia simile a quella di migliaia di persone che hanno avuto i sintomi del virus, si sono diligentemente chiuse in casa senza che nessuno venisse a visitarle, sono guarite e ora aspettano di uscire. Faccio presente che a giorni dovrebbe finire la mia quarantena.
Ma che l’affermazione dell’assessore Gallera mi ha confuso. “
Sarò ancora positivo al termine dei 14 giorni?”.
Mi risponde una donna molto gentile. Mi chiede di aspettare in linea, si consulta con un collega e alla fine mi dice: “
E’ una situazione assurda. Venga qui che le facciamo il tampone”.
Al Sacco trovo personale disponibile e professionale. Ci passo 10 ore e mi fanno tampone, esami del sangue, elettrocardiogramma, lastre, ecografie. I raggi rivelano che l’infezione da virus c’è stata, ma l’ecografia dice che non è più in atto. Il peggio è passato e mi lasciano andare a casa, in attesa dei risultati del tampone. Congedandomi il medico mi fa firmare le carte in cui m’impegno all’isolamento e mi dice: “
Potrebbe essere ancora positivo, non si può sapere”.
Il giorno dopo, 15 aprile, arriva il risultato: negativo. Al telefono mi dicono che, al termine della quarantena posso tornare a uscire. Resta che, se non mi fossi incaponito, a sei settimane dall’inizio dell’emergenza, nessuno si sarebbe preoccupato di verificare le mie condizioni, lasciandomi libero di andare in giro, anche se infetto.
Se il contagio non arretra, come avviene nelle altre Regioni d’Italia, forse chi ha la responsabilità delle politiche sanitarie in Lombardia, dovrebbe cominciare a cercare strategie alternative, come seguire i pazienti a casa e testare quelli che sono teoricamente guariti, anziché incolpare falsamente i cittadini di andarsene in giro disobbedendo alle direttive.
Business insider/Nicola Scevola