CAPIALIA è IN "BUONA" COMPAGNIA
http://www.panorama.it/economia/investire/articolo/ix1-A020001035083
Ecco chi piangerà sul latte versato
di Francesca Folda e Angelo Pergolini
28/2/2006
Enrico Bondi, ex commissario straordinario e ora amministratore delegato del gruppo Parmalat
Nove mesi di azzardi, operazioni in derivati ad alto rischio e 380 milioni di euro bruciati dalla Parmalat già in agonia. Con l'aiuto, interessato, di otto grandi banche d'affari. Perché la Capitalia di Geronzi non è la sola banca nel mirino dei pm. E di Bondi.
Dopo le accuse da parte della procura di Parma, e soprattutto l'interdizione disposta dal giudice, fra Cesare Geronzi, presidente della Capitalia, da un lato, e la magistratura che indaga sul crac del gruppo Tanzi, dall'altro, è ormai guerra aperta. In realtà, quello che sta covando a Collecchio è una sorta di tsunami giudiziario pronto a investire, dopo la Capitalia, alcune fra le più blasonate banche italiane e soprattutto internazionali.
Enrico Bondi, ex commissario della Parmalat e ora amministratore delegato del gruppo di Collecchio, sta ancora valutando tutte le carte che ha in mano. Ma, secondo quanto risulta a Panorama, sarebbe fortemente orientato a scatenare, nei prossimi giorni, la «madre di tutte le battaglie» contro un imponente schieramento di istituti di credito. Poiché li ritiene responsabili del reato forse più infamante, di sicuro il più costoso in termini di immagine e reputazione, di cui possano macchiarsi una banca e un banchiere: l'usura.
A essere nel mirino del manager che ha salvato l'azienda fondata, e affondata, da Calisto Tanzi sono sette grandissime banche internazionali: Merrill Lynch, Morgan Stanley, Ubs, Jp Morgan, Citibank, Deutsche Bank e Csfb. In compagnia di un solo istituto italiano, l'Ubm, banca d'affari del gruppo Unicredito. Fra il gennaio e il novembre 2003 avrebbero fatto da sponda alla tesoreria della Parmalat in una girandola di operazioni basate sulla compravendita di derivati strutturati, cioè di strumenti finanziari ad altissimo rischio. Operazioni che consentirono alle banche di incassare milioni di commissioni, e che aprirono un'ulteriore voragine nelle disastrate casse della Parmalat spingendo l'azienda alla bancarotta. Ecco la storia.
All'inizio del 2003 la situazione finanziaria di Collecchio è drammatica. Il debito (il conto delle imprese di Tanzi & company sarà, alla fine, superiore ai 14 miliardi di euro) appare fuori controllo. La redditività industriale è modesta (circa il 2 per cento del fatturato contro una media del settore di circa il 10 per cento), nemmeno sufficiente a pagare i soli interessi. E la pacchia dei bond (l'emissione continua di obbligazioni che convogliava nelle casse sempre a secco di Collecchio un fiume di denaro) è ormai terminata. Mentre «quasi tutte le banche» ricorda Tanzi in un interrogatorio, proprio allora «cominciano a chiedere il rientro dalle esposizioni».
Da destra: Callisto Tanzi con i suoi legali Filippo Sgubbi e Giampiero Biancolella durante un'udienza del Processo Parmalat
Le email che in quelle settimane si scambiano Fausto Tonna, artefice numero uno della «finanza creativa» di Collecchio, e il tesoriere del gruppo, Franco Trauzzi, testimoniano un clima di disperazione. Non c'è un soldo per rimborsare le obbligazioni che vengono a scadenza. Collocare nuove emissioni sembra impossibile. Quanto alle banche, fino a quel momento così generose, ad aprire ancora i cordoni della borsa non ci pensano nemmeno. Il rischio è quello del default. Immediato. Come uscire dall'angolo? Trauzzi tenta una mossa: decide di ricorrere ai derivati strutturati. In pratica, trasforma la tesoreria della Parmalat in una sorta di casinò. Con l'appoggio delle banche d'affari, più che felici di imporre commissioni e prezzi superlativi, non in linea con il mercato.
La Parmalat, del resto, con l'acqua alla gola non può che pagare senza fiatare. Per nove mesi le operazioni, che sono in sintesi vendite di opzioni, cioè pure scommesse sull'andamento di tassi e valute senza una adeguata copertura del rischio, procedono a valanga. In questo modo, Collecchio riesce a rastrellare 160 milioni. Ma infila anche una serie di operazioni dall'esito disastroso: al momento del crollo le perdite «da derivati» risulteranno superiori ai 380 milioni.
Per il sostegno dato alla Parmalat in questa attività finanziaria Bondi pensa che
a carico degli istituti di credito coinvolti si possa ipotizzare il reato di usura. E se anche la procura fosse dello stesso parere, lo scontro Parmalat-banche (su cui si accendono i riflettori al tribunale di Milano il 1° marzo, quando comincerà l'udienza preliminare contro
Ubs, Citibank, Deutsche Bank, Morgan Stanley oltre alla Nextra, accusate di aggiotaggio) si farebbe incandescente. Diventando rovente come quello che contrappone l'azienda di Collecchio e i magistrati di Parma alla Capitalia di Geronzi.
Per una intricata storia imperniata sull'acquisizione di un'azienda decotta di acque minerali, la
Ciapazzi, e di finanziamenti bruciati nella fornace Parmatour,
il presidente della banca romana era già stato accusato di usura. La procura di Parma ha deciso di aggiungere un nuovo provvedimento a suo carico: l'interdizione dalle cariche societarie.
La decisione è stata presa sulla base di una relazione della Guardia di finanza di Bologna che analizza dieci anni di rapporti d'affari fra la banca romana e il gruppo di Collecchio, e motivata con il pericolo di «reiterazione del reato» e di «inquinamento delle prove». Mossa, quella della magistratura, del tutto inaspettata, alla quale Geronzi ha reagito con veemenza: impugnerà un provvedimento per il quale si è detto «indignato». Ma il banchiere sembra dover mettere comunque in conto, visti i tempi procedurali, almeno un mese di inattività forzata.