Per cortesia ripristinate il 3d di mototopo

bre 8, 2016 posted by Ilaria Bifarini
Blackrock, ancora tu?

Secondo il prestigioso giornale Limes fu proprio l’americana Blackrock a tessere la trama per la caduta del Governo Berlusconi nel 2011. Intanto, con la strategia già conosciuta da Ligresti di tenersi sotto il 5%, sta comprando l’Italia.


Gestisce 4,65 mila miliardi di dollari, circa due volte il famigerato debito italiano, ed è il primo Asset Manager Globale per volumi gestiti: per avere un ordine di grandezze la più conosciuta JP Morgan amministra un ammontare di 1,72 miliardi di dollari. Eppure non tutti sanno chi è Blackrock, il colosso finanziario americano, l’hedge fund nato nel 1988 sulle spoglie del crollo finanziario di Wall Street, e invigorito nel contesto di deregolamentazione finanziario della presidenza Clinton.

Con una strategia a macchia di leopardo la Roccia Nera ha acquisito piccole quantità di azioni in una moltitudine di banche e imprese e le ha poi incrementate. Con un occhio alle dinamiche di orientamento dei mercati finanziari, ha inoltre rilevato quote maggioritarie nelle due principali società di rating internazionali, Standard & Poors e Moody’s. Nel 2009 ha acquisito Barclays Investment Group, che detiene partecipazioni azionarie nelle principali multinazionali. Tra le partecipazioni di spessore Blackrock detiene una quota di circa il 6% di Deutsche Bank.

Come se non bastasse, ha acquisito il 5,8% del motore di ricerca più utilizzato al mondo, Google, e ha un proprio centro studi di eccellenza che studia le dinamiche economiche e sociopolitiche a livello mondiale. Detiene inoltre la piattaforma tecnologica “Alladin”, un sistema che è in grado di tradurre i dati di mercato in scelte di investimento per circa 200 fondi cui si appoggiano centinaia di operatori. Un congegno quasi fantascientifico, tanto che l’Economist lo ha considerato capace di manipolare il mercato e la società, creando “un pensiero unico” dei mercati che si ripercuote sulle politiche di interi Paesi.

BR.jpg


Al momento in Italia è tra i primi azionisti di Unicredit e Intesa San Paolo e detiene ingenti quote di Atlantia (la nuova Autostrade), Telecom. Enel, Banco Popolare, Fiat, Eni e Generali, Finmeccanica, Banca Popolare di Milano, Fonsai, Intesa San Paolo, Mediobanca e Ubi. La strategia seguita è quella di rimanere sotto la soglia del 5% (molte partecipazioni si attestano al 4,99%) in modo da sfruttare l’esenzione dalle comunicazioni, come previsto dall’art.120 del nostro Testo unico della finanza (lo stesso stratagemma già noto a Salvatore Ligresti).

Recentemente è entrato anche nella gestione del risparmio della privatizzata Poste e ha mostrato interesse ad acquisire quote della società del controllo del traffico aereo italiano (Enav) passata in Borsa. Un elenco che non si ferma qui, visti gli ottimi rapporti instaurati con il presidente del Consiglio. Nei giorni scorsi Morelli è andato negli Usa ad incontrare i vertici di Blackrock per decidere il futuro di MPS. Circolano voci che voglia comprare i mutui deteriorati delle nostre banche a prezzi stracciati. Di certo il motto di Blackrock “comprare quando scorre il sangue” trova terreno fertile nella crisi dell’economia italiana.



PS Solo per rifrescare la memoria. Forse non tutti ricordano che per la prestigiosa rivista Limes (del gruppo Espresso-Repubblica, immune quindi dai complottismi) fu il colosso americano Blackrock a contribuire alla caduta del governo Berlusconi architettata nel 2011. Azionista rilevante di Deutsche Bank, “Annunciando la vendita di titoli di Stato italiani, fece esplodere il divario tra Btp e Bund causando la resa di Berlusconi e l’avvento di Monti”. Per avere una conferma bisognerebbe chiedere a Giuliano Amato, che allora ricopriva il ruolo di senior advisor della banca tedesca.



Ilaria Bifarini
 
amicizia che né NATO né UE possono rovinare

Cosa c’è in gioco nelle elezioni degli Stati Uniti?


novembre 8, 2016 Lascia un commento

Oriental Review 8 novembre 2016
constitutionorleostrauss32813_0.jpg
L’esito delle elezioni presidenziali del 2016 dimostrerà che il sistema politico degli USA, come lo conosciamo, cesserà di esistere. Trump non è una di quelle pedine repubblicane che, assieme ai burattini democratici, negli ultimi 40 anni hanno retto la facciata della democrazia statunitense. Sembra proprio sia pronto ad attuare la minaccia di prima della Convention nazionale repubblicana, inviare milioni di sostenitori per le strade. Oggi Trump rappresenta un completamente nuovo partito, costituito da metà dell’elettorato statunitense, pronto all’azione. E qualunque sia l’eventuale struttura politica del nuovo modello, plasma la realtà attuale degli Stati Uniti. Inoltre, non sembra una situazione isolata. Piuttosto sembra l’ultimo capitolo di una vecchia storia, dove trame contorte infine prendono forma e trovano una risoluzione. Le circostanze sempre più ricordano il 1860, quando l’elezione di Lincoln fece infuriare il Sud avviando l’agitazione per la secessione. Trump è oggi il simbolo della vera tradizione statunitense che nella guerra civile (1860-1865), per la prima volta si gettò a capofitto nel liberalismo rivoluzionario. Fino alla prima guerra mondiale, il tradizionale conservatorismo statunitense indossò la maschera dell'”isolazionismo”. Prima della Seconda Guerra Mondiale era noto come “non-interventismo”. In seguito, tale movimento tentò di utilizzare il senatore Joseph McCarthy per combattere la morsa sinistra-liberali. E negli anni ’60 divenne l’obiettivo principale della “rivoluzione contro-culturale”. Il suo ultimo bastione fu Richard Nixon, la cui caduta fu conseguenza dell’attacco senza precedenti della stampa liberale di sinistra nel 1974. E questo è forse l’esempio con cui confrontare Trump e la sua lotta attuale. Tra l’altro, i reati di Hillary Clinton, che non ha protetto i segreti di Stato ed è stata più volte colta a mentire sotto giuramento, superano il Watergate che portò alle dimissioni forzate di Nixon con la minaccia dell’impeachment. Ma i media liberal statunitensi sono silenziosi, come se nulla fosse accaduto. Da tutte le indicazioni, è chiaro che si è in un momento davvero epocale. Ma prima di passare al futuro che ci attende, diamo un rapido sguardo alla storia del conflitto tra liberalismo rivoluzionario e conservatorismo tradizionale bianco negli Stati Uniti.
shachtman.png
Subito dopo la Seconda guerra mondiale, un attacco su due fronti fu lanciato dal partito dell'”espansionismo” (lo chiameremo così). L’Unione Sovietica e il comunismo furono designati nemici numero uno. Nemico numero due (con meno clamore) fu il conservatorismo tradizionale statunitense. La guerra contro l'”americanismo” tradizionale fu condotta contemporaneamente da diverse frange intellettuali. La vita culturale e intellettuale del Paese era sotto il controllo assoluto del gruppo noto come “intellettuali di New York”. La critica letteraria, così come tutti gli altri aspetti della vita letteraria del Paese, era nelle mani di tale gruppetto di curatori letterari emersi dall’ambiente della rivista trotskista-comunista Partisan Review (PR). Nessuno poteva diventare uno scrittore professionista negli USA degli anni ’50 e ’60, senza essere accuratamente filtrato da tale setta. I principi fondamentali della filosofia politica e della sociologia statunitensi furono decisi dalla Scuola di Francoforte, nata tra le due guerre nella Germania di Weimar e che si recò negli Stati Uniti dopo che i nazisti presero il potere. Qui, passò dal comunismo al liberalismo, avviando la progettazione della “teoria del totalitarismo”, unita al concetto di “personalità autoritaria”, entrambi ostili alla “democrazia”. Gli “intellettuali di New York” e i rappresentanti della Scuola di Francoforte divennero amici, e Hannah Arendt, per esempio, fu un’autorevole rappresentante di entrambe le sette. Qui nacquero i futuri neocon (Norman Podhoretz, Eliot A. Cohen e Irving Kristol) acquisendovi esperienza. L’ex-capo della Quarta internazionale trotskista e padrino dei neocon, Max Shachtman, ha un posto d’onore nella “famiglia degli intellettuali”. La scuola antropologica di Franz Boas e il freudismo dominavano il mondo della psicologia e della sociologia al momento. L’approccio di Boas alla psicologia sosteneva che le differenze genetiche, nazionali, razziali e tra gli individui non hanno alcuna importanza (quindi concetti come “cultura nazionale” e “comunità nazionale” sono privi di significato). La psicoanalisi divenne di moda, tendendo principalmente a soppiantare le istituzioni ecclesiastiche tradizionali e a diventare una sorta di quasi-religione della classe media. Il denominatore comune che lega tali movimenti era l’antifascismo. Ma qui qualcosa sembrava puzzare? Il problema era che i valori tradizionali di nazione, Stato e famiglia erano tutti classificati “fascisti”. Da tale punto di vista, ogni cristiano bianco consapevole della propria identità culturale e nazionale è potenzialmente un “fascista”. Kevin MacDonald, professore di psicologia presso la California State University, analizzò in dettaglio il sequestro del quadro culturale, politico e mentale degli Stati Uniti per mano delle “sette liberali”, nel brillante libro “La cultura della Critica”, scrivendo: “Gli intellettuali di New York, per esempio, hanno sviluppato legami con le università d’élite, in particolare Harvard, Columbia, Chicago e Berkeley, mentre psicoanalisi e antropologia si radicarono nel mondo accademico. L’élite intellettuale e morale creata da tali movimenti dominò il discorso intellettuale nel periodo critico del secondo dopoguerra, portando alla rivoluzione controculturale degli anni ’60”. Fu tale ambiente intellettuale che generò la rivoluzione controculturale degli anni ’60. Cavalcando l’onda di tali sentimenti, la nuova legge sull’immigrazione e la nazionalità venne approvata nel 1965, incoraggiando tali fenomeni e favorendo l’integrazione degli immigrati nella società degli Stati Uniti. Gli architetti delle legge volevano utilizzare il melting pot per “diluire” i discendenti “potenzialmente fascisti” degli immigrati europei, facendo uso di nuovi elementi etno-culturali. La rivoluzione degli anni ’60 aprì la porta alla dirigenza politica statunitense ai rappresentanti di entrambe le ali del “partito” espansionista: neo-liberali e neo-conservatori. Assediato dalla stampa liberale di sinistra nel 1974, Richard Nixon si dimise per la minaccia d’impeachment. Nello stesso anno, il Congresso degli Stati Uniti approvò l’emendamento Jackson-Vanik (redatto da Richard Perle), simbolo della “nuova agenda politica” del Paese, la guerra economica contro l’Unione Sovietica con sanzioni e boicottaggi. Nello stesso tempo la “generazione hippie” aderì ai democratici dietro la campagna del senatore George McGovern. Fu allora che il volto sorridente di Bill Clinton apparve sull’orizzonte politico degli Stati Uniti. E i futuri neo-conservatori (allora discepoli del falco democratico Henry “Scoop” Jackson) iniziarono lentamente a volgersi verso i repubblicani.
friedman2.jpg
Nel 1976, Rumsfeld e colleghi neoconservatori resuscitarono la commissione sul pericolo presente, un club inter-partito per falchi politici il cui obiettivo era la guerra totale propagandistica contro l’URSS. Gli ex-trotzkisti e seguaci di Max Shachtman (Kristol, Podhoretz e Jeane Kirkpatrick) e i consiglieri del senatore Henry Jackson (Paul Wolfowitz, Perle, Elliott Abrams, Charles Horner e Douglas Feith) si unirono a Donald Rumsfeld, Dick Cheney e altri politici “cristiani” con l’intenzione di lanciare una “campagna per cambiare il mondo”. Così nacque “l’ideologia nonpartisan” dei neocon, generando il “governo inalterabile degli Stati Uniti”. La politica statunitense acquisì la forma attuale con Reagan. In economia lo si vide nel neoliberismo (la politica guidata dagli interessi del grande capitale finanziario) e in politica estera, la strategia nella tradizione di Nixon-Kissinger (“guerra santa contro le forze del male”, che vedeva Unione Sovietica e Cina normali Paesi con cui è essenziale trovare un terreno comune) fu interamente abbandonata. Il crollo dell’URSS fu il segnale dell’inizio della fase finale della “rivoluzione neocon”. A quel punto il loro protetto, Francis Fukuyama, annunciò la “fine della storia”. Col passare degli anni, l’influenza dei neo-conservatori (in politica) e dei neoliberisti (in economia) si ampliò. Attraverso ogni sorta di comitati, fondazioni, “gruppi di riflessione”, ecc, i seguaci di Milton Friedman e Leo Strauss (dei dipartimenti di economia e scienze politiche presso l’Università di Chicago) penetrò sempre più profondamente nella macchina del potere di Washington. L’apoteosi di tale espansione fu la presidenza di George W. Bush, durante cui i neocon, dopo aver sequestrato i principali strumenti di potere alla Casa Bianca, fecero precipitare il Paese nella follia della guerra in Medio Oriente. Alla fine della presidenza Bush, tale cricca era oggetto dell’odio universale negli Stati Uniti. Ecco perché l’ibrida innocua figura del democratico Barack Obama poté finire alla Casa Bianca per otto anni. I neocon furono dimessi dalle loro tribune al centro del potere e tornarono ai loro “comitati influenti”. E’ probabile che l’elezione abbia per scopo il ritorno trionfale del paradigma neo-conservatore e neoliberista con “una nuova confezione”. Per vari motivi fu deciso di assegnare tale ruolo a Hillary Clinton. Ma sembra che nel momento più critico la fragile confezione si sia lacerata… Cos’è successo? Perché il ritorno trionfale al potere di tale cricca sfocia in un enorme scandalo, questa volta? Probabilmente perché viviamo nell’epoca in cui ciò che era misterioso è improvvisamente diventato chiaro. Probabilmente perché la “maggioranza silenziosa” di Trump improvvisamente ha visto qualcuno che attendeva da molto tempo, un uomo pronto a difenderne gli interessi. Forse anche perché la classe media soffoca per la crescente esasperazione verso la “casta delle élite” che occupa il Paese natio. E, infine, è chiaro ai patrioti statunitensi più sobri delle forze dell’ordine che il ritorno al potere dei responsabili dell’attuale caos globale sarà una grave minaccia per Stati Uniti e resto del mondo. Perché, alla fine, tutti hanno dei figli e nessuno vuole una nuova guerra mondiale. Come sarà la nuova rivolta conservatrice contro l’estremismo delle élite? Trump riuscirà a “prosciugare la palude di Washington, DC” come ha promesso, o sarà la prossima vittima del sistema? Molto presto potremo avere una risposta a queste domande.
30463761622_7911937ac9_b.jpg
Traduzione di Alessandro Lattanzio – SitoAurora
 
Altro


Abbattiamo la Frode Bancaria e il Signoraggio
Ieri alle 11:55 ·
Non ti ci entra proprio in testa! La gente si è rotta i coglioni delle banche, della massoneria e delle guerre!

Napolitano: “La vittoria di Trump uno degli eventi più sconvolgenti della storia del suffragio universale”. Lo ha detto ai microfoni di Radio 1 http://www.riscattonazionale.it/…/vince-trump-napolitano-s…/


Vince Trump, Napolitano sputa sulla democrazia: "Evento sconvolgente nella storia del suffragio" | Riscatto Nazionale
Roma, 9 nov - Napolitano: “La vittoria di Trump uno degli eventi più sconvolgenti della storia del suffragio universale”. Lo ha detto ai microfoni di Radio
riscattonazionale.it

Rimuovi



 
Craig Roberts: primarie truccate, le aveva vinte Sanders
Scritto il 11/11/16 • nella Categoria: segnalazioni Condividi


«Hillary Clinton? Mai s’era visto un candidato peggiore, nell’intera storia delle elezioni presidenziali degli Stati Uniti». E il peggio è che non avrebbe neppure dovuto contendere la Casa Bianca a Donald Trump: «Ci sono le prove che in realtà lei avesse perso le primarie, che erano state vinte da Bernie Sanders. Ma poi l’establishment democratico si è rifiutato di accettare la sua vittoria, perché Sanders è contro l’establishment». Parola di Paul Craig Roberts, economista e analista politico, già viceministro di Reagan e editorialista del “Wall Street Journal”. Dichiarazioni nettissime, le sue, rilasciate – a scrutinio non ancora concluso – a Glauco Benigni, che l’ha intervistato nel corso della lunghissima diretta streaming organizzata da “Pandora Tv” durante l’election-night. Inutile che oggi tutti si strappino i capelli, da Obama al “New York Times” che ammette di aver «perso il contatto con la realtà», dando vincente “obbligatoria” la signora Clinton. Hillary non avrebbe nemmeno dovuto essere in gara, insiste Craig Roberts: al suo posto, contro Trump, ci doveva essere il socialista Sanders, che tanto entusiasmo aveva infatti suscitato durante le primarie.
Hillary? Era «espressione degli oligarchi al potere e del complesso militare-industriale legato a Wall Street», ma anche «della lobby israeliana, del business militare e del comparto energetico estrattivo», ricorda Craig Roberts. Enorme la differenza rispetto a Donald Trump, che «non è stato selezionato dall’establishment, ma dalla popolazione stessa». Come si è arrivati ad avere un candidato come la Clinton? «Era il candidato della classe dominante, che l’ha messa lì», anche a costo di “truccare” le primarie democratiche. Quanto alle fantomatiche “interferenze russe”, a parlarne «è stata solo la propaganda filo-Clinton». Disinformazione costruita ad arte, continua Craig Roberts, «per coprire lo scandalo delle email di Hillary, da cui emerge sostanzialmente che la Clinton è una criminale», a partire dai fondi incassati sottobanco dalla Fondazione Clinton da parte di soggetti di mezzo mondo interessati a ottenere il favore degli Usa, quando Hillary era segretario di Stato.
Lo staff Clinton, aggiunge Craig Roberts, «ha quindi voluto spostare l’attenzione sui russi, e negli ultimi due anni la classe dirigente americana ha voluto ricreare un clima da guerra fredda, con la sequela di accuse e minacce contro la Russia e il suo presidente. Tutto ciò è molto pericoloso». Ora, Trump potrà dialogare con le altre potenze nucleari mondiali: «E’ il politico americano – anzi, lo è diventato – che ha detto che non vuole problemi con la Russia. E ha detto che non vuole problemi nemmeno con la Nato». Chiuderà le orrende “guerre americane” nel mondo, in cui gli Usa sono coinvolti? Craig Roberts è convinto di sì, perché Trump «è un uomo d’affari ma non è coinvolto nell’industria delle armi e in quella della sicurezza. E crede che non ci sia ragione di buttare un trilione di dollari in questioni militari e di sicurezza. Tanto più che gli Usa non hanno nemici, a parte quelli che si sono creati da soli, con i bombardamenti sulle popolazioni civili e le accuse folli contro la Russia e la Cina». Trump ritiene che tutto ciò sia stupido, conclude Craig Roberts, e che sia il caso di fermare questa pericolosa deriva bellicista.
«Hillary Clinton? Mai s’era visto un candidato peggiore, nell’intera storia delle elezioni presidenziali degli Stati Uniti». E il bello è che non avrebbe neppure dovuto contendere la Casa Bianca a Donald Trump: «Ci sono le prove che in realtà lei avesse perso le primarie, che erano state vinte da Bernie Sanders. Ma poi l’establishment democratico si è rifiutato di accettare la sua vittoria, perché Sanders è contro l’establishment». Parola di Paul Craig Roberts, economista e analista politico, già viceministro di Reagan e editorialista del “Wall Street Journal”. Dichiarazioni nettissime, le sue, rilasciate – a scrutinio non ancora concluso – a Glauco Benigni, che l’ha intervistato nel corso della lunghissima diretta streaming organizzata da “Pandora Tv” durante l’election-night. Inutile che oggi tutti si strappino i capelli, da Obama al “New York Times” che ammette di aver «perso il contatto con la realtà», dando vincente “obbligatoria” la signora Clinton. Hillary non avrebbe nemmeno dovuto essere in gara, insiste Craig Roberts: al suo posto, contro Trump, ci doveva essere il socialista Sanders, che tanto entusiasmo aveva infatti suscitato durante le primarie.

Hillary? Era «espressione degli oligarchi al potere e del complesso militare-industriale legato a Wall Street», ma anche «della lobby israeliana, del business militare e del comparto energetico estrattivo», ricorda Craig Roberts. Enorme la differenza rispetto a Donald Trump, che «non è stato selezionato dall’establishment, ma dalla popolazione stessa». Come si è arrivati ad avere un candidato come la Clinton? «Era il candidato della classe dominante, che l’ha messa lì», anche a costo di “truccare” le primarie democratiche. Quanto alle fantomatiche “interferenze russe”, a parlarne «è stata solo la propaganda filo-Clinton». Disinformazione costruita ad arte, continua Craig Roberts, «per coprire lo scandalo delle email di Hillary, da cui emerge sostanzialmente che la Clinton è una criminale», a partire dai fondi incassati sottobanco dalla Fondazione Clinton da parte di soggetti di mezzo mondo interessati a ottenere il favore degli Usa, quando Hillary era segretario di Stato.

Lo staff Clinton, aggiunge Craig Roberts, «ha quindi voluto spostare l’attenzione sui russi, e negli ultimi due anni la classe dirigente americana ha voluto ricreare un clima da guerra fredda, con la sequela di accuse e minacce contro la Russia e il suo presidente. Tutto ciò è molto pericoloso». Ora, Trump potrà dialogare con le altre potenze nucleari mondiali: «E’ il politico americano – anzi, lo è diventato – che ha detto che non vuole problemi con la Russia. E ha detto che non vuole problemi nemmeno con la Nato». Chiuderà le orrende “guerre americane” nel mondo, in cui gli Usa sono coinvolti? Craig Roberts è convinto di sì, perché Trump «è un uomo d’affari ma non è coinvolto nell’industria delle armi e in quella della sicurezza. E crede che non ci sia ragione di buttare un trilione di dollari in questioni militari e di sicurezza. Tanto più che gli Usa non hanno nemici, a parte quelli che si sono creati da soli, con i bombardamenti sulle popolazioni civili e le accuse folli contro la Russia e la Cina». Trump ritiene che tutto ciò sia stupido, conclude Craig Roberts, e che sia il caso di fermare questa pericolosa deriva bellicista.

Articoli collegati
 
FINITA LA SP€NDIBILITA' DELLA BUFALA DELLA GLOBALIZZAZION€ INIZIA LA SOLFA DEL "PROTEZIONISMO-BRUTTO". [/paste:font]



page_1_thumb_large.jpg

Una necessaria premessa introduttiva.
Trump, appena eletto, su domanda di un giornalista, indica, come futuro segretario del Treasury, Steven Mnuchin: questi ha lavorato per 17 anni a Goldman&Sachs, succedendo al padre in una carriera pluridecennale presso la stessa banca. Tra le esperienze lavorative di Mnuchin anche un periodo presso il Soros Fund Management, nonchè la produzione di film, anche importanti, come la serie X-men e Avatar.
Secondo Zerohedge, l'alternativa a Mnuchin sarebbe il "JPMorgan CEO Jamie Dimon": sottolinea il blog che milioni di supporters di Trump sarebbero delusi da nomine del genere, e che "l'unica ragione per cui un banchiere diventa segretario del tesoro è quella di poter vendere tutte le proprie stock options, al momento di assumere la carica pubblica, senza dover pagare alcuna tassa".
Siano indicazioni fondate o meno, quel che è certo è che Trump non parrebbe, allo stato, disporre "delle risorse culturali" sufficienti per svolgere, anche solo in parte, un programma che include la reintroduzione del Glass-Steagall, la monetizzazione del debito (riacquistando quello già emesso), nonché il por fine alla stagione dei grandi trattati liberoscambisti.



E' pur vero che ove neppure tentasse di far ciò entrerebbe in conflitto con la base sociale (la working class) che lo ha eletto: ma, in compenso, come sottolinea Politico, si vedrebbe "riabilitato" da Wall Street e godrebbe di solidi appoggi bi-partisan nelle Camere.
Dunque, che sia lui il liquidatore del globalismo finanziario e il paladino del ritorno a economie nazionali meno aperte, rimane un punto interrogativo, una supposizione tutta da dimostrare.

1. Chissà perché si grida al "severo protezionismo" quando sarebbe in gioco, al più, "solo" (la prospettiva di) un ritorno al modello di financial regulation - o, se preferite, "repressione finanziaria"-, per consentire una razionale de-globalizzazione e un certo qual ripristino del modello di sviluppo che "punta sulla domanda interna"; quel modello che lo stesso Eichengreen definisce Coordinated Capitalism e che fu proprio il sistema prescelto, dopo il 1945 (!), per garantire la pace e il benessere crescenti in Europa e un maggior sviluppo (poi venuto meno con la globalizzazione) nel resto del mondo.
Si crede davvero che la deregulation massima nella circolazione dei capitali, legata alla riduzione del rischio di cambio innestata dalle "monete uniche", sia un modo di garantire la pace, piuttosto che il predominio del capitale nel conflitto sociale e delle economie nazionali più forti su quelle da rendere alla stregua di "colonie"?

2. Questa questione del protezionismo è veramente oggetto di un abuso mediatico-espertologico ormai divenuto intollerabile.
A parte il sopra linkato Chang, che ha offerto i dati della (maggior) crescita "globale" (non solo in Europa), che aveva garantito il sistema pre-globalizzazione, legato per un lungo periodo a "Bretton Woods" e ad un ruolo nettamente diverso svolto dalle politiche tariffarie e dal FMI; a parte un Krugman (forse oggi un po' dimentico di se stesso) che aveva evidenziato la inanità della regola, implicita nel Washington Consensus e nella costruzione €uropea, della competizione tra Stati (qui, p.1), come condizione di effettiva crescita, giova ricordare che "protezionismo" non è affatto un concetto univocamente definibile e privo di adattabilità alle circostanze della democrazia economica.
Ed è questo un punto importantissimo che su cui, nonostante lo "sconvolgimento Trump", già si accumulano pericolosi ritardi mediatico-tecnocratici, sempre più imprudentemente incuranti dei "pericoli di un'ossessione" (per usare le parole di Krugman, sulla cui citazione torneremo).

3. Ed infatti:

Possiamo quindi istituire una prima naturale distinzione che si connette straordinariamente al problema dell'€uropa:

a) Il protezionismo adottato da Potenze imperialiste è l'altra faccia del liberoscambismo, perché ne costituisce l'evoluzione, conservativa delle posizioni dominanti raggiunte e, al tempo stesso, anche l'utile strumento oppositivo alla contenibilità di tali posizioni da parte di altri competitor statuali.

Questa evoluzione (connaturale agli interessi consolidati delle oligarchie che hanno promosso l'imperialismo liberocambista nella fase di conquista) può logicamente preludere al vero e proprio conflitto armato tra potenze imperialiste: ciascuna supportata dalle rispettive nazioni satellite, colonizzate politicamente o economicamente.


b) Il protezionimsmo adottato da ordinamenti nazionali in via di sviluppo, e non dominanti sui mercati internazionalizzati, è invece un ragionevole strumento di crescita del c.d."infant capitalism", come spiegato da Chang ne "I Bad Samaritans" con riguardo a casi non certamente guerrafondai quali la Corea o, oggi, in UE, la "fascista" Ungheria.

Quando, dunque, non si tratti di Stati che, dal loro passato imperialista e colonialista, risultino ossessionati dalla egemonia sugli altri, il "protezionismo" nelle sue varie e modulabili forme, si rivela in definitiva uno strumento di avvio della democrazia economica e socialmente inclusiva; al contempo, se lealmente riconosciuto in funzione delle diverse esigenze di sviluppo della varie società statali, è uno stabilizzatore degli interessi dell'intera comunità internazionale a una convivenza pacifica".

4. Aggiungiamo, perché di questi tempi occorre essere molto precisi con la Storia politica ed economica, grossolanamente messa all'angolo, che il primo tipo di protezionismo è proprio del mercantilismo imperialista e, per via dei vincoli monetari e valutari (BC indipendenti e eurozona, su tutto), è esattamente quello che diffonde un'irrisolvibile crisi occupazionale e di crescita in €uropa. Si tratta di ciò che Joan Robinson (in uno scritto, non casualmente, del 1977) definiva in modo eloquente così:
Free Trade Doctrine, In Practice, Is A More Subtle Form Of Mercantilism”.
La traduzione di questo estratto la affido ai più volenterosi dei commentatori:
"When Ricardo set out the case against protection, he was supporting British economic interests. Free trade ruined Portuguese industry. Free trade for others is in the interests of the strongest competitor in world markets, and a sufficiently strong competitor has no need for protection at home.
Free trade doctrine, in practice, is a more subtle form of Mercantilism".

5. E dato che si parla di uno shock derivante dall'elezione di Trump, ritirando fuori l'accusa guerrafondaia al tipo di protezionismo tutorio delle sviluppo, - che sarebbe una soluzione, (molto temuta negli ambienti finanziari globalisti), alla secular stagnation provocata dal mercantilismo imperialista competizione tra Stati-, è estremamente interessante questo passaggio, tratto dal citato articolo di Krugman e riguardante proprio gli Stati Uniti (e il Messico). Ne sottolineo il "gran finale", sull'idea della "produttività" e circa quella che pare essere proprio l'ispirazione "protezionistica" di Trump (rendendo contraddittoria la fiera opposizione di Krugman al neo-presidente):
"...definire la competitività di una nazione è nei fatti molto più problematico che definire quella di una società per azioni (ndr; laddove K. muove dalla critica al preconcetto, tipico di Maastricht, che sia giovevole una "forte competizione" tra sistemi-Stato, cui venga attribuita la stessa dinamica di "conquista del mercato" internazionale, propria delle società per azioni).
La linea rossa per una società per azioni consiste letteralmente nei suoi confini: se una società per azioni non può permettersi di pagare i suoi lavoratori, i fornitori, i possessori di obbligazioni, uscirà dal business. Quindi quando noi diciamo che una società per azioni non è competitiva, intendiamo dire che la sua posizione nel mercato è insostenibile, ovvero che, se non migliora le sue prestazioni, cesserà di esistere. I Paesi invece non escono dal business. Possono essere contenti o scontenti delle loro prestazioni economiche, ma non hanno una linea rossa ben definita. Di conseguenza, il concetto di competitività nazionale è vago.
...Si potrebbe supporre, ingenuamente, che la linea rossa di un'economia nazionale consista semplicemente nella sua bilancia commerciale, che la competitività possa essere misurata dall'abilità di un paese di vendere all'estero più di quanto comperi. In teoria, come in pratica, un'eccedenza commerciale può tuttavia essere un segno di debolezza nazionale, mentre un deficit può essere un segno di forza.
Per esempio, il Messico fu costretto ad enormi eccedenze commerciali negli anni ottanta per pagare gli interessi sul suo debito estero, dato che gli investitori internazionali si rifiutavano di prestargli altri soldi; ebbe grandi deficit commerciali dopo il 1990 quando gli investitori stranieri recuperarono la fiducia e nuovi capitali cominciarono ad affluire. C'è forse qualcuno che voglia indicare il Messico come una nazione estremamente competitiva durante l'epoca della crisi del debito, o descrivere quello che accade dal 1990 in poi come una perdita in competitività?
...Consideriamo, per un momento, quello che la definizione vorrebbe dire per un'economia che fa poco commercio internazionale, come gli Stati Uniti negli anni cinquanta. Per una siffatta economia, la capacità di bilanciare il suo commercio sta soprattutto nel trovare il giusto tasso di cambio.
Ma siccome il commercio internazionale è un piccolo fattore nell'economia, il livello di cambio influisce poco sugli standard di vita.
In un'economia con poco commercio internazionale, quindi, l'aumento degli standard di vita - e così la "competitività" secondo la definizione di Tyson - sarebbe determinata quasi completamente da fattori nazionali, in primo luogo dal tasso di crescita della produttività.
La crescita di produttività nazionale, punto e a capo, e non la crescita di produttività relativamente agli altri paesi.
In altre parole, per un'economia con poco commercio internazionale, "competitività" finisce per essere un modo curioso di dire "produttività", senza avere niente a che fare con la competizione internazionale".
6. E dunque, che il protezionismo (del ritorno alla crescita), anzi, l'antiglobalismo della competitività basata esasperatamente sulla produttività comparata, appaia, adesso, muovere dal suo epicentro, cioè dal primo potere politico-militare del globo, sarebbe, in realtà, del tutto fisiologico nella dialettica della Storia.
Bastava, da anni, non fingere di non vedere, nell'ipocrisia e nella violenza mediaticamente profusa; non sbandierare le soluzioni di politica monetaria "unconventional" come capaci di ridurre il costo sociale della crisi; non fingere che l'occupazione degli USA fosse tornata al "pieno impiego"; capire che un dollaro sopravvalutato non è accettabile a tempo indefinito da lavoratori precari e a benessere ridotto da decenni...
7. La speranza, non possiamo nascondercelo, è che la linea Trump si riveli netta e capace di dare quella svolta capace di evitare al mondo un ulteriore lungo periodo di inutili sofferenze "globaliste" e, dunque, autoritarie, quali sono ora, proprio in quanto oligarchiche.
Una speranza che avevamo espresso da anni con queste parole, che sintetizziamo per linee essenziali:
"Il problema è che gli USA, non paiono coscienti di quanto in Europa l'operazione di distruzione del welfare, sociale e del lavoro, che pure continuano ad auspicare ("le irrinunciabili riforme strutturali"), conduca ad un assetto di forze che sono poi incontrollabili e, quindi, neppure correggibili con l'introduzione degli strumenti che essi stessi considerano come appropriati.
Non hanno capito che, una volta accettato di non contestare il legame tra limitazioni del deficit pubblico e auspicata destrutturazione definitiva del welfare, le riforme strutturali provocano un effetto politico di rafforzamento delle tendenze mercantiliste che oggi vorrebbero combattere: si tratta sostanzialmente della sindrome "dell'apprendista stregone", (opposta a quella del "questa volta è diverso").

Riusciranno gli USA a fermare tutto questo, se veramente sono interessati a questo tipo di "recupero" delle potenzialità dei mercati UEM?

Per farlo devono comprendere le ragioni profonde della loro stessa crisi sistemica: il neo-liberismo, non è buono se legato alle "nuove" politiche monetarie, mentre diviene "cattivo" se trasposto in Europa in forma di ordoliberismo a matrice mercantilista tedesca.Il liberoscambismo è un blocco unico di tendenze politiche che in Europa poteva affermarsi solo nella forma attuale: diversamente non sarebbe stato possibile fronteggiare e neutralizzare, in modo vincente, decenni di applicazione delle Costituzioni democratiche.

Non si può volere la botte piena e la moglie ubriaca.Ma non è possibile ritenere che un ripensamento di questo genere avvenga, da parte loro, in tempi accettabilmente brevi e senza traumi al loro stesso interno."

8. Ecco, forse, siamo arrivati a questa fase di ripensamento: e già oggi, "non senza traumi".
Ma con la prospettiva, densa di positive speranze, che i costi, per il popolo USA, come per tutti gli altri ad esso interconnessi prima di tutto dalla tensione alla democrazia effettiva, non risulteranno mai così elevati come quelli che sarebbero derivati dalla conservazione della logica della "competizione tra Stati" e della competitività basata sulla domanda estera.
Una concezione che, oggi, aleggia ancora in €uropa, come lo spettro di un imperialismo mercantilista, sempre più goffamente camuffato da aspirazione alla pace.
Mentre è esattamente il suo opposto; mentre il protezionismo dello sviluppo della ricostruzione dei sistemi industriali nazionali, può portare veramente il ritorno alla crescita e alla vera "pace" del veramente "coordinated capitalism".
Coordinato tra democrazie.
E su questo occorre vigilare. Specialmente ora...


Pubblicato da Quarantotto a 19:21 30 commenti: Link a questo post
Invia tramite emailPostalo sul blogCondividi su TwitterCondividi su FacebookCondividi su Pinterest
 

Users who are viewing this thread

Back
Alto