Per cortesia ripristinate il 3d di mototopo

1 | SE LO SCOPO DELLE PARTI È UNA DONAZIONE



SCRITTURA PRIVATA DI DONAZIONE DI SOMMA TRA FAMILIARI

Con la presente scrittura privata, redatta in duplice originale, tra

il signor ……… nato a ……… (…) il ……… e residente in ……… in via ……… n. …, codice fiscale ………, (donante);

ed il signor ……… nato a ……… (…) il ……… e residente in ……… in Via ……… n. …, codice fiscale ………, (donatario),

premesso che tra il donante ed il donatario intercorre il seguente rapporto di parentela: ………

si conviene e stipula quanto segue:

Art. 1. OGGETTO

1.1. Il donante dà al donatario, che accetta con animo grato, la somma di euro ……… (in lettere ………) che versa a mezzo assegno bancario n. ……… tratto sulla Banca ……… Filiale ……… o tramite bonifico bancario con versamento dal conto n. ……… (Banca ………) di titolarità di ……… in favore del conto n. ……… (Banca ………) di titolarità di ………. Detto bonifico avviene (o avverrà) in data ……… (o all’atto della redazione della presente scrittura).


Art. 2. GRATUITÀ

2.1. Il donante dichiara che tale somma viene versata a mero scopo di liberalità e senza quindi obblighi di restituzione. Il donatario accetta la liberalità.


Art. 3. SCOPO

3.1. La somma oggetto del presente contratto di donazione è consegnata al donatario affinché questi possa disporne nel seguente modo (indicare eventuali beni da acquistare o necessità di spese imminenti, di far fronte a debiti, ecc.).


Luogo e data

Donante Donatario



2 | SE LO SCOPO DELLE PARTI È UN PRESTITO (MUTUO)


SCRITTURA PRIVATA DI PRESTITO INFRUTTIFERO TRA FAMILIARI ex art. 1813 codice civile

Con la presente scrittura privata, redatta in duplice originale, tra

il signor ……… nato a ……… (…) il ……… e residente in ……… in via ……… n. …, codice fiscale ………, (mutuante);

ed il signor ……… nato a ……… (…) il ……… e residente in ……… in Via ……… n. …, codice fiscale ………, (mutuatario),

premesso che tra il mutuante ed il mutuatario intercorre il seguente rapporto di parentela ………

si conviene e stipula quanto segue:

Art. 1. OGGETTO

1.1. Il mutuante dà in mutuo al mutuatario, che accetta la somma di euro ……… (in lettere ………) che versa a mezzo assegno bancario n. ……… tratto sulla Banca ……… Filiale ……… o tramite bonifico bancario con versamento dal conto n. ……… (Banca ………) di titolarità di ……… in favore del conto n. ……… (Banca ………) di titolarità di ………. Detto bonifico avviene (o avverrà) in data ……… (o all’atto della redazione della presente scrittura).

Art. 2. DURATA

2.1. Il mutuatario ritira la somma mutuata e si obbliga a restituirla entro la data del ……… al mutuante.

Art. 3. SCOPO

3.1. La somma oggetto del presente contratto di mutuo è consegnata al mutuatario affinché questi possa disporne nel seguente modo (indicare eventuali beni da acquistare o necessità di spese imminenti, di far fronte a debiti, ecc.).
Art. 4. RESTITUZIONE ANTICIPATA

4.1. È ammessa, da parte del mutuatario, la restituzione anticipata della somma mutuata.

Art. 5. INTERESSI

5.1. Il mutuante e il mutuatario, in considerazione del rapporto di parentela indicato in premessa, convengono che il presente prestito non è fruttifero di interessi neppure nella misura dell’interesse legale.


Art. 6. LUOGO DELL’ADEMPIMENTO

6.1. Il mutuatario eseguirà i pagamenti per la restituzione del capitale al domicilio del mutuante presso la sua residenza (come indicato sopra). Potrà farlo anche in rate anticipate rispetto alla scadenza.

Luogo e data

Mutuante Mutuatario

note
Autore immagine: 123rf com
 
Pagina 12622 di 12622
  1. Messaggi:
    7.629
    Alle radici dell’infamante Seconda Repubblica: il biennio 1992-1993 (parte II)
    Scritto il 2 marzo 2017 by Federico Dezzani
    Twitter: @FedericoDezzani

    Se il 1992 è l’anno in cui lo Stato “salta in aria”, investito dalla doppia deflagrazione di Tangentopoli e delle bombe di Capaci e Via D’Amelio, il 1993 è l’anno in cui le “menti raffinatissime” passano al saccheggio: “tempo sei mesi e vi vendiamo tutto”, avevano promesso sul Britannia. La DC frena però le privatizzazioni messe in cantiere dal governo Amato: il referendum abrogativo del 18 aprile, promosso dai radicali e caldeggiato dall’alta finanza, è colto al volo per seppellire “la partitocrazia”, abbattere “lo Stato-padrone” e, soprattutto, formare il primo governo tecnico della storia repubblicana, presieduto da Carlo Azeglio Ciampi. Per superare le forti resistenze parlamentari alla svendita dei gioielli di Stato, il processo di privatizzazione è lubrificato con le autobombe che scandiscono tutto il 1993, commissionate dalle “menti raffinatissime”, confezionate dai “servizi deviati” ed imputate alla mafia.

    1993: i notabili del Britannia privatizzano, accompagnati dalla fanfara delle bombe “mafiose”
    Segue dall’articolo precedente.

    La “cupola” di cui parla Bettino Craxi, quell’oligarchia atlantica decisa a plasmare il mondo a sua immagine e somiglianza dopo il collasso dell’Unione Sovietica, ha ottenuto indubbi risultati nel corso del 1992: il Pentapartito è stato decimato dalle inchieste del pool di Milano, Giulio Andreotti è stato estromesso dal Quirinale, il segretario del PSI è stato dimezzato con l’avviso di garanzia, le riserve di Bankitalia sono state taglieggiate dai bucanieri dell’alta finanza, il governo Amato ha trasformato le imprese statali in Spa, primo passo verso la privatizzazione. Tuttavia, il lavoro non è stato certamente completato: dodici mesi, seppur scanditi da stragi e clamorose inchieste giudiziarie, non sono sufficienti per radere al suolo un sistema economico e politico ben radicato, che in 50 anni ha elevato l’Italia da Paese semi-industriale a quinta economia mondiale.

    L’operazione di demolizione avviene in due fasi: se nel 1992 lo Stato “salta in aria”, nel 1993 si espugna una Prima Repubblica ormai indifesa e ci si abbandona finalmente al saccheggio del patrimonio pubblico. La cricca del Britannia, gli Andreatta, i Draghi, gli Spaventa, i Prodi, etc. etc., entra nella stanza dei bottoni grazie al governo Ciampi, accompagnata da una fanfara di bombe e stragi, utili a tenere sotto pressione il Paese e lubrificare quelle privatizzazioni che stentano a decollare a cause delle resistenze parlamentari. Al termine del 1993, la DC sarà scomparsa, lo smantellamento dello “Stato-padrone” ben avviato e le “menti raffinatissime”, placate con affari miliardari, porranno fine allo stragismo “mafioso”: la mancata deflagrazione dell’autobomba in viale dei Gladiatori nei pressi dello Stadio Olimpico, una strage potenzialmente molto più sanguinaria delle precedenti, segnerà la fine della strategia della tensione.

    Procediamo con ordine, sviscerando quel 1993 che segna il definitivo tramonto della Prima e l’incipit di quella Seconda Repubblica oggi agonizzante.

    L’anno si apre apparentemente sotto i migliori auspici: il 15 gennaio è arrestato a Palermo il capo di Cosa Nostra, Totò Riina, alias la “Belva di Corleone” o “Totò u curtu”, il superboss cui sono imputati l’assassinio dell’eurodeputato Salvo Lima, la strage di Capaci e quella di Via D’Amelio. “Non sono un mostro, sono solo un povero vecchio, signor giudice…”1, si difende l’allora 63enne Riina in tribunale. C’è del vero nelle parole di Riina, perché “la belva” si è sicuramente sporcata le mani di sangue nella seconda guerra di mafia tra la fine degli anni ‘70 ed i primi anni ‘80, quella che vede Riina salire ai vertici di Cosa Nostra con la benedizione dei servizi atlantici, ma non è certamente il registra delle efferate stragi che hanno scosso l’Italia nel 1992: dietro l’omicidio di Falcone e Borsellino, si nascondono le “menti raffinatissime” che impiegano la mafia per i loro scopi e, dopo averla spremuta a sufficienza, reputano che perfino “Totò u curtu”, poco più che un’anticaglia, sia ormai superfluo e consegnabile alla giustizia. La strategia della tensione prosegue indisturbata e c’è sempre un boss latitante, nella fattispecie Matteo Messina Denaro, cui attribuire le bombe, piazzate, sì, per scopi “mafiosi”, ma da una cupola molto più raffinata e cosmopolita della malavita siciliana. È la cupola che il 20 gennaio 1993, festeggia l’insediamento alla Casa Bianca di Bill Clinton, il presidente che, dalla destabilizzazione della Somalia alle guerre in Jugoslavia, dall’abolizione dello Glass-Steagall Act all’ingresso della Cina nel WTO, edifica il Nuovo Ordine Mondiale, anno dopo anno.

    L’euforia per l’arresto di Riina non dissolve la cappa di ansia ed inquietudine che grava sul Pentapartito, conscio che l’assalto contro le vecchie formazioni della Prima Repubblica, diventante improvvisamente d’intralcio, è destinato a proseguire nel corso dell’anno: il segretario del PSI ha ricevuto l’avviso di garanzia nel dicembre precedente e, il 27 marzo 1993, è la volta di Giulio Andreotti, inquisito per concorso in associazione a delinquere di stampo mafioso. Il “Divo Giulio”, che nemmeno un anno prima ambiva alla carica di Capo dello Stato, è “sospettato di essere stato il terminale di una serie di interessi che partivano dalla Sicilia. Interessi economici, interessi giudiziari, interessi politici. Gli interessi della mafia.2 Poco importa se, dopo nove lunghi anni di estenuanti e diffamanti processi, il senatore a vita sarà assolto nel 2004 dall’accusa di contiguità con la mafia: la priorità in quel momento è eliminare politicamente un politico che può intralciare l’avvento del “nuovo”. Un’intervista rilasciata da Andreotti nel mese di marzo, pochi giorni prima dell’avviso di garanzia, descrive lucidamente la manovra in atto3:

    “Dal 1946 siamo il partito di maggioranza relativa e molti non amano ciò. Vorrebbero essere i nostri successori. So, come accadde al momento delle Br, che c’ è chi non ama la prospettiva di una Italia più serena, più giusta, con minori squilibri, e minori diseguaglianze sociali. Siccome sanno che la Dc invece mira proprio a questo e questo è il suo programma è chiaro che siamo il primo obiettivo. Però non bisogna avere paura La Democrazia cristiana, ha più tardi affermato, non giocherà in difesa ma in attacco.”

    Già, la DC: una vera palla al piede. Sebbene il partito dello scudo crociato possa annoverarsi a buon diritto tra i vincitori della Guerra Fredda, è ora un ostacolo all’attuazione dei progetti economico-politici che l’élite anglofona ha in serbo per l’Italia e l’Europa: la deindustrializzazione, il neoliberismo e le politiche lato offerta di chiaro stampo neo-malthusiano.

    Il premier Giuliano Amato ha immesso l’Italia sul binario auspicato dall’alta finanza, ma la DC ed i suoi ministri frenano, rallentando lo smantellamento dell’industria pubblica (IRI ed ENI in testa), che ha giocato un ruolo di primo piano nel decollo economico del Paese. “Privatizzazioni in frigorifero”4 titola la Repubblica nel marzo del 1993, raccontando il violento scontro in corso dentro al governo sul delicatissimo tema delle dismissioni: da un lato la vecchia la guardia della DC ed il ministro dell’Industria e delle Partecipazioni Statali, Giuseppe Guarino, dall’altro i “sacerdoti delle privatizzazioni”5, incarnati di Piero Barucci, Paolo Baratta e Beniamino Andretta, gli anglofili formati all’università di Cambridge, illustri ospiti del Britannia. Guarino è fautore di un riordino delle partecipazioni e della conseguente creazione di due o più holding, da aprire poi al capitale privato, la cricca di Barucci ed Andreatta è fautrice della vendita pezzo per pezzo delle imprese pubbliche, mettendo subito sul mercato quelle più appetibili, ossia le aziende in utile, e conservando in capo allo Stato quelle “da ristrutturare”, cioè in perdita. Il premier Amato parteggia, ovviamente, per lo spezzatino delle partecipazioni statali e si adopera per depotenziare Guarino, trasferendo a Baratta con un decreto legge i poteri in materia di dismissioni: ne nasce un braccio di ferro che paralizza l’attività di governo, procrastinando sine die le vendita delle partecipate. Sarà lo stesso Amato a raccontare, a distanza di pochi mesi, il violento scontro6:

    “La questione posta da Guarino che mi portò al decreto Baratta (con l’ istituzione di un apposito ministero per le privatizzazioni ndr) è la stessa questione che mi portò a fargli rimangiare le superholding a luglio perché lui ripropose esattamente la stessa cosa in un documento che presentò a febbraio. Non ero convinto di una tesi in cui vedevo più un rafforzamento del pubblico e non una privatizzazione. (…) Guai a conservare oltre la sua stagione l’ industria pubblica. Questa è una tipica ossessione della sinistra in termini ideologici e dei maneggioni pratici.”

    Che fare? Come uscire da questa irritante impasse che rischia di far saltare la tabella di marcia della City e di Wall Street? In provvidenziale soccorso giungono Marco Pannella ed il suo Partito Radicale che, fin dalla nascita, altro non sono che una quinta colonna dei poteri atlantici in Italia, già impiegata con successo nel giugno del 1978 quando una violenta campagna dei radicali portò il presidente della Repubblica Giovanni Leone alle dimissioni. Cavalcando il clima di anti-politica che si respira nel Paese, sapientemente alimentato da Tangentopoli e dai grandi media, Pennella promuove otto referendum che, tra gli altri punti, contemplano:
 

  1. Alle radici dell’infamante Seconda Repubblica: il biennio 1992-1993 (parte II)
    Scritto il 2 marzo 2017 by Federico Dezzani
  2. l’abrogazione delle norme bancarie del 1938 che attribuiscono al Tesoro, anziché ai consigli di amministrazione, il potere di nomina dei presidenti e dei vicepresidenti degli istituti bancari;
  • l’abrogazione del finanziamento pubblico ai partiti;
  • l’abrogazione del Ministero delle Partecipazioni Statali istituito nel 1956;
  • l’abrogazione delle legge elettorale vigente al Senato, così da introdurre il maggioritario.
  1. Sfruttando l’umore dell’opinione pubblica ed il martellante battage dei grandi media contro i partiti, Marco Pannella propone di una serie di referendum abrogativi che combaciano perfettamente con l’agenda dell’oligarchia finanziaria: liberare le banche dal controllo pubblico in vista della loro quotazione in borsa, rendere la politica dipendente dai potentati economico, facilitare lo smantellamento dell’economia mista tanto odiata dall’establishment liberal, introdurre il bipolarismo di facciata tanto caro agli anglosassoni. In un clima avvelenato ed allo stesso tempo euforico per la distruzione dell’ordine esistente, presentato come marcio, vecchio e corrotto, gli italiani si recano così alle urne per dare il loro personale contributo all’abbattimento della Prima Repubblica, sotto la sguardo sorridente e compiaciuto della City e di Wall Street. Già, perché l’oligarchia finanziaria tifa ovviamente per la vittoria del “sì” al referendum e promette i soliti sfracelli di borsa nel caso in cui “il rinnovamento” promosso dai referendum dovesse fermarsi.

    La lira prende vigore ed aspetta il referendum” scrive La Repubblica il giorno prima del referendum, prevedendo “un consolidamento intorno a quota 950 sul marco se vince il sì (con possibili ribassi dei tassi), nuovi capitomboli se vince il no”. Nell’articolo “Il Bel Paese dove suono il sì” possiamo leggere7:

    “In sintesi, il successo del “SI”, sul quale scommette la finanza internazionale, dovrebbe segnare la rinascita dell’ Italia (…) C’ è la ripresa, la lira tiene, la Borsa va su, i soldi in fuga tornano a casa, gli stranieri ci incoraggiano, i turisti tedeschi ci invadono come ai bei tempi. Sembra un miracolo. Ma c’ è qualcosa che può rompere questo clima da paradiso ritrovato? Sì. I pericoli, spiegano i ragazzi della City di Londra, sono almeno tre. Se il “SI”, domenica, non dovesse vincere con più del 60 per cento, questo sarebbe considerato un bruttissimo segno, e bisognerebbe mettere nel conto sia un nuovo crollo della lira che della Borsa. Se Mani Pulite venisse in qualche modo fermata o bloccata, gli stranieri tornerebbero a essere diffidenti, e a vendere lire e azioni italiane.”

    Gli italiani si comportano come da copione ed il “sì” ai quattro quesiti in questione vince con percentuali bulgare che vanno dall’80% al 90%. La Prima Repubblica, un sistema “fossilizzato in una condizione di non ricambio interno, e quindi di ignoranza, impotenza e progressiva corruzione”8, è travolta, “la partitocrazia” uccisa, lo “Stato-padrone” finalmente ridotto all’impotenza. “Plebiscito affonda baraccone PsSs” titola gaudente la Repubblica, riferendosi a quel ministero delle Partecipazioni Statali che, raccogliendo l’eredità economia del regime fascista, regalò al Paese il primo benessere nell’immediato dopoguerra:

    “Dopo trentasette anni di vita il ministero delle Partecipazioni Statali viene cancellato a furor di popolo. Un risultato scontato per un dicastero che prima dei milioni di voti di ieri era stato affossato dalla storia e dagli scandali che negli ultimi mesi hanno investito l’ industria pubblica (…). Un ministero che ha rappresentato il simbolo della commistione tra politica ed economia e che sancì, negli Anni Cinquanta, la nascita della grande alleanza tra Dc e industria di Stato sotto gli auspici di Enrico Mattei e Amintore Fanfani.”

    Mattei e Fanfani, avete visto? Alle fine hanno i vinto i soliti noti, tanto pazienti quanto determinati nel soffocare ogni forma di ribellione…

    Il referendum del 18 aprile è uno spartiacque: l’oligarchia atlantica ed i suoi scherani nazionali colgono al volo l’occasione per imprimere una svolta al processo di smantellamento della Prima Repubblica. Il premier Amato si dimette come anticipato, così da lasciare spazio a “un governo istituzionale, sostenuto da forze politiche che abbiano come collante le proposte sulla nuova legge elettorale”:9 ma sarà davvero solo la riforma delle legge elettorale lo scopo del nuovo governo istituzionale?

    Da subito circolano diversi nomi per la presidenza del Consiglio: l’europeista Leopoldo Elia, l’ex-presidente dell’IRI Romano Prodi (nonché discepolo dell’onnipresente Beniamino Andretta) ed il governatore di Bankitalia, Carlo Azeglio Ciampi. Sarà proprio quest’ultimo ad emergere, formando così il primo esecutivo della storia repubblicana presieduto da “un tecnico” anziché da un politico: si può discutere sull’integrità morale di Ciampi, se fosse o meno animato da buone intenzioni, resta però il fatto il suo governo porterà a compimento quel processo di depauperamento industriale ed economico avviato da Amato e caldeggiato dall’alta finanza. Nel nuovo esecutivo che giura il 29 aprile 1993, i personaggi che dieci mesi prima erano saliti sul Britannia occupano ora Ministeri chiave: Beniamino Andretta agli Esteri, Luigi Spaventa al Bilancio ed il “sacerdote delle privatizzazioni” Piero Barucci al Tesoro, in sostituzione dell’odiato Guarino e delle sue folli idee di holding pubbliche. La stampa anglosassone ed il Fondo Monetario gioiscono per la nomina di Ciampi10, (“il guardiano della lira” che, seduto a Palazzo Koch, ha regalato 30.000 miliardi di lire a George Soros &co.) e la Repubblica si dice sicura che il neo-premier sarà finalmente libero dalla vecchia partitocrazia:

    “Come i suoi 51 predecessori, è vestito di blu. Ma per il resto non assomiglia a nessuno di loro. Carlo Azeglio Ciampi non è un politico, non è un parlamentare, non ha intenzione di consultare i segretari di partito per la stesura del suo programma di governo. Neanche per la scelta dei ministri? Soprattutto per la scelta dei ministri. (…) Non assisteremo dunque alla solita sfilata di segretari e di capigruppo davanti ai microfoni delle tv, all’uscita dai colloqui con il presidente incaricato. Non ascolteremo più le sibilline dichiarazioni dalle quali si doveva capire se un segretario di partito avrebbe appoggiato o no l’ incaricato leggendo in filigrana le sue parole, i suoi se e i suoi ma. Decisa questa straordinaria novità, che è ovviamente dettata dal carattere tecnico e dunque super partes del gabinetto Ciampi, il presidente incaricato si è trovato improvvisamente con un’ agenda assolutamente vuota. Dovrà scrivere il programma nel suo splendido isolamento, nella sua aurea solitudine.”

    Basta con la partitocrazia, basta con le noiose consultazioni dei partiti, basta con le sibilline dichiarazione dei democristiani! Salutiamo il nuovo governo super partes, svincolato dai legacci della vecchia politica: finalmente un tecnico a Palazzo Chigi, libero di scrivere l’agenda di governo nella sua aurea solitudine, nel suo splendido isolamento. Sarebbe un’immagine perfino poetica, se non celasse un’oscura verità: Carlo Azeglio Ciampi si è svincolato dai vecchi partiti, ma il suo destino è quello di assoggettarsi al Leviatano dell’alta finanza, un mostro più pericoloso e spietato del Pentapartito. La sua missione è quella di riuscire dove Amato ha fallito: archiviare l’economia mista, spezzettare e vendere le ex-imprese pubbliche, aprire il sistema creditizio alla confraternita delle JP Morgan e Goldman Sachs. Tutta l’azione del governo Ciampi, sin dai primi passi, ha come unica stella polare le privatizzazioni e si muove di conseguenza: Romano Prodi torna alla presidenza dell’IRI il 20 maggio e, a distanza di due settimane, otterrà anche i poteri di amministratore delegato, cosicché possa gestire la svendita del patrimonio industriale pubblico senza restrizioni o impedimenti.

    Il governo Ciampi deve accelerare le privatizzazioni, non “limitarsi all’ olio d’oliva e ai gelati” come lamenta il New York Times11, offrendo a Mammona i piatti più prelibati: la galassia dell’ENI, al cui vertice è stato provvidenzialmente collocato nell’autunno del 1992 Franco Bernabè, e soprattutto il ghiottissimo sistema bancario, una vera miniera d’oro tra consulenze, commissioni e prospettive di utili futuri. C’è però la solita scocciatura del Parlamento: è vero che Ciampi scrive l’agenda nel suo aureo silenzio, ma deve pur sempre incassare il sostegno dei partiti che sostengono il governo, DC, PSI, PDS, etc. etc.

    Non tutti sono venduti come Andretta e Prodi: qualche “anticaglia” della Prima Repubblica, fedele alla vecchia economia mista, è sopravvissuta e rischia nuovamente di frenare le dismissioni della partecipazioni statali, proprio come hanno già fatto la DC ed il ministro Guarino. Rientra allora in scena lo stragismo “mafioso”, ormai completamento slegato dalle vicende di Cosa Nostra come testimonia il passaggio fisico del terrorismo dalla Sicilia al “continente”: è la classica strategia della tensione, una spada di Damocle che pende sul Parlamento, un coltello puntato alla schiena dei partiti, un assist ai “sacerdoti della privatizzazioni” ed agli illustri ospiti del Britannia. Privatizzate o piazziamo le bombe, vendete o uccidiamo, la borsa o la vita: è la vera mafia, quella della CIA, dell’MI6 e di George Soros, non quella pittoresca e semi-analfabeta di Totò u curtu”.

    Il 13 maggio 1993 una Fiat Uno imbottita di esplosivo salta in aria in Via Fauro, nel centralissimo quartiere dei Parioli, ferendo una ventina di persone: è la mafia, come la vulgata sostiene ancora oggi? Fin da subito sono in molti a pensare che dietro l’attentato, prontamente rivendicato dalla solita e misteriosa Falange Armata, non si nasconda Cosa Nostra. Dice Bettino Craxi alla stampa12:

    “Siamo arrivati agli attentati. Ma l’ avevo previsto, mi pare. L’ avevo detto che si sarebbe giunti anche a questo, e puntualmente ci siamo. Temo che ci saranno altre bombe, dopo quella in via Fauro. Perché? Perché oltre a una giustizia a orologeria politica, in Italia esistono anche le bombe a orologeria politica. Basta riandare indietro nel tempo. Negli ultimi trent’anni siamo vissuti in Italia, no? Bene, in questi trent’anni sono esplose bombe di cui non s’ è mai saputo né chi le ha messe né chi erano i mandanti… Bombe alle quali sono state date cinquanta spiegazioni diverse, e cioè nessuna. (…) Ma cos’è poi questa mafia? Sono quelli che hanno preso in Sicilia? Ma quelli mi danno la sensazione di essere dei poveracci… Quanto alla bomba in via Fauro, io non escludo che avesse come obiettivo Maurizio Costanzo. Ma tendo a non crederci, alla pista mafiosa. C’ è dell’altro. E’ una bomba che ha l’obiettivo di stabilizzare, non di destabilizzare. Questa è una bomba a orologeria politica.”

    Altre bombe, strategia della tensione, mafiosi ridotti al rango di poveracci, attentanti per stabilizzare il governo Ciampi: l’ex-segretario del PSI, sottoposto un mese prima all’infamante lancio di monetine fuori dall’hotel Raphael, ha come sempre le idee chiare e le espone con parole nitide e precise. Non si sbaglia.

    Nella notte tra il 26 ed il 27 maggio è la volta della strage di via dei Georgofili, Firenze: un’autobomba uccide cinque persone e getta nello scompiglio l’opinione pubblica nazionale e mondiale danneggiando gravemente uno dei più famosi simboli del patrimonio artistico italiano, la Galleria degli Uffizi. E poi i soliti strascichi della strategia della tensione: decine di falsi allarmi alimentano l’ansia e la paura, segnalando ordigni a Milano, Roma, Livorno, Torino, etc. etc13. A rivendicare l’attentato è sempre la Falange e nell’articolo di La Repubblica “Ma chi si nasconde dietro la sigla Falange Armata” del 28 maggio si può leggere:

    Da anni la “Falange armata” rivendica omicidi, attentati e rapine in tutt’Italia. Una telefonata giunge puntuale, solitamente almeno una mezz’ora dopo che il fatto è stato diffuso dai media. (…) E la “Falange” si è fatta viva anche dopo gli omicidi di Falcone e Borsellino, dopo quello di Salvo Lima e del giudice Antonio Scopelliti. Il 1 agosto del 1991 la “Falange” inneggiò alla strage di Bologna del 1980, definendola “una delle pagine più gloriose della lotta armata”. Firmati “Falange” anche gli omicidi della Uno bianca. Fino alla cronaca più recente: la bomba del 14 maggio in via Fauro viene prontamente rivendicata con le solite modalità. Proprio in occasione della bomba in via Fauro, il ministro Mancino, sottolineando la necessità di individuare “chi si cela dietro questa sigla”, dirà che “è gente che opera sempre in orario di ufficio”.

    Gente che opera in orario di ufficio? E’ lecito pensare ai soliti servizi “deviati”, le filiazioni italiane della CIA e dell’MI6. Ma perché rivendicare con una strampalata sigla le stragi “di Cosa Nostra”, se non per inviare un esplicito ed arrogante messaggio al governo ed al Parlamento? Datevi una mossa, perché vi teniamo in pugno: è questo il pizzino della City e di Wall Strett inviato all’Italia con l’autobomba di via Georgofili. Le privatizzazioni stentano a decollare e la mafia finanziaria è sempre più impaziente.

    Il governo Ciampi, complice e/o succube, capisce l’antifona: ai primi di giugno tutti i poteri dell’IRI passano a Prodi che, a tambur battente, detta le linee per “spaccare in tre pezzi” la SME (Cirio-Bertolli-De Rica, Italgel ed Autrogrill), nonostante le forti resistenze della politica e dei lavoratori. Uniliver e Nestlé ringraziano, ma non è sufficiente, perché come fa notare il Financial Times14:

  2. 20 Marzo 2017 alle 19:25 Modifica Elimina Segnala
 

  1. “Bonn ha fatto progressi, Londra sta andando avanti nella privatizzazione della British Telecom, mentre il governo francese ha sbalordito tutti per la speditezza del piano di dismissioni. L’ Italia invece nello stesso tempo appare immobile, con le stesse aziende sempre in vendita e le stesse tabelle di marcia ripetute ma mai riviste”.

    Il 30 giugno, il premier Ciampi “confeziona quella che probabilmente è l‘ ultima chance per le privatizzazioni italiane: un comitato di “consulenza e garanzia” che nel giro di trenta giorni dovrà avviare le procedure per la dismissione totale di Enel, Ina, Comit, Credit, Imi, Stet e Agip. I veri e unici gioielli dello Stato padrone. Da chi è presieduto questo super-comitato per le privatizzazioni, cui spetta il compito di vendere i diamanti dello Stato-padrone, lasciandogli solo le imprese decotte? Chi è incaricato di scrivere il calendario per la veloce ed inflessibile dismissione delle ex-imprese pubbliche, perché “ulteriori ritardi potrebbero compromettere definitivamente le ambizioni privatizzatorie del nostro Paese15 ? Ma ovviamente il direttore generale del Tesoro, Mario Draghi, lo stesso che è, sì, salito sul Britannia, ma poi è sceso prima della crociera…

    Non perde tempo il “comitato di consulenza” diretto da Draghi ed entro 30 giorni presenta effettivamente il piano per le cessioni: Comit, Credit, Imi da privatizzare entro l’anno, Ina, Enel, Stet e Agip entro il 1994. Chi valuterà le aziende, si occuperà del loro collocamento sul mercato e (in barba a qualsiasi conflitto d’interessi) ne acquisterà anche importanti percentuali? Il fior fiore della finanza anglofona, gli stessi che hanno consumato sul Britannia un luculliano pranzo a base di “mousse di gamberi, cotolette d’agnello alla menta, anatra farcita al miele e sufflé al limone ghiacciato guarnito con salsa di lamponi”16 in compagnia di manager di Stato e vertici del Tesoro italiano: Goldman Sachs, S.G. Warburg, Schroders-Fox Pitt, Kleinwort Benson, Salomon Brothers, Morgan Stanley, J.P. Morgan, Wasserstein Perella, etc. etc. Il fior fiore della City e di Wall Street, “le menti raffinatissime” che hanno demolito la Prima Repubblica con Tangentopoli e tengono sotto scacco il Parlamento con le stragi “mafiose”.

    Già, il Parlamento: quel rudere dove la DC, il PSI e parte del PDS ancora si oppongono al processo di privatizzazione. Nell’articolo “Lo Stato vende” pubblicato da la Repubblica il 25 luglio 1993 si legge17:

    Il Parlamento riprende l’esame del documento del governo per le privatizzazioni. Martedì prossimo, infatti, le commissioni bilancio, tesoro, finanze ed attività produttive della Camera proseguiranno l’ esame delle indicazioni che, nell’aprile scorso, l’ esecutivo aveva presentato adempiendo ad una precisa indicazione parlamentare. In quell’occasione, oltre ad approfondimenti sul piano di dismissioni mobiliari, sarà forse possibile avere indicazioni precise sull’entità finanziaria che il governo conta di realizzare a breve, ad intero sollievo del debito.”

    Martedì prossimo”, il giorno in cui il Parlamento torna a discutere di privatizzazioni, è il 27 luglio 1993, lo stesso giorno in cui in via Palestro, nel cuore di Milano, esplode una Fiat Uno presso la Galleria d’arte moderna, uccidendo cinque persone. È lo stesso giorno in cui a Roma, verso la mezzanotte, esplode una seconda Fiat Uno nei pressi di San Giovanni in Laterano (devastando l’appartamento del cardinale Camillo Ruini18 che, nella veste di presidente della Cei, si è molto speso in difesa della DC), ed una terza Fiat Uno davanti alla facciata della Chiesa di San Giorgio in Velabro, provocando il crollo del porticato. A rivendicare gli attentati, è stessa la sempre sigla: Falange Armata. Il clima in Italia è sempre più cupo e teso. È tale la tensione che perfino il Ministro degli Interni, Nicola Mancino, si abbandona a qualche ammissione19:

    “E’ la stessa mano, la medesima strategia. Identica la tecnica, stessa quantità di esplosivo, come obiettivi luoghi simbolici di sicura risonanza mondiale. Ci sono affinità fra gli attentati della scorsa notte e quelli compiuti in via Fauro a Roma, in via dei Georgofili a Firenze, in via D’ Amelio a Palermo, e al treno 904. E’ stata utilizzata la stessa miscela esplosiva. Le ricostruzioni fatte finora condurrebbero alla matrice terroristico-mafiosa, ma nessuna pista sia all’interno che all’esterno viene trascurata…”

    Più esplicito ancora è il segretario del PDS, Achille Occhetto, che accusa esplicitamente i “servizi deviati” ed il “governo corrotto e criminale” che opera a fianco di quello ufficiale.

    Chi si nasconde quindi dietro questa misteriosa “Falange Armata”, l’organizzazione che ha rivendicato l’omicidio di Salvo Lima, confezionato l’ordigno che ha ucciso Borsellino, imbottito di esplosivo le tre Fiat Uno che esplodono il 27 luglio e, tornando indietro nel tempo, ha pianificato dell’attentato sul rapido 904, la prima strage “mafiosa” costata la vita a 16 persone il 23 dicembre 1984? La miglior risposta è fornita da Francesco Paolo Fulci, ambasciatore e capo del Cesis (Comitato esecutivo per i servizi di informazione e sicurezza) tra il 1991 e il 1993. Intervenendo nel 2015 al celebre processo sulla trattativa Stato-mafia, Fulci dichiara20:

    “C’era questa storia della Falange Armata e allora incaricai questo analista del Sisde, si chiamava Davide De Luca, di lavorare sulle rivendicazioni (…). Dopo alcuni giorni De Luca venne da me e mi disse: questa è la mappa dei luoghi da dove partono le telefonate e questa è la mappa delle sedi periferiche del Sismi in Italia, le due cartine coincidevano perfettamente, e in più De Luca mi disse che le chiamate venivano fatte sempre in orario d’ufficio. (…) Sono convinto che tutta questa storia della Falange Armata faceva parte di quelle operazioni psicologiche previste dai manuali di Stay Behind, facevano esercitazioni, creare il panico in mezzo alla gente e creare le condizioni per destabilizzare il Paese. (…) All’interno dei Servizi c’è solo una cellula che si chiama Ossi, che è molto esperta nel fare guerriglia urbana, piazzare polveri, fare attentati”.

    È quindi “una cellula” dentro al SISMI, alle dirette dipendenze dei servizi segreti atlantici, quella che compie gli attentati più complessi come la strage di Capaci e di Via D’Amelio. È questa “cellula” che confeziona gli ordigni poi piazzati dai vari Spatuzza, Graviano e Brusca. È questa “cellula” che attua la strategia della tensione necessaria per “oliare” le privatizzazioni. E la famosa mafia? Il temutissimo “Totò u curtu”? Come dice Craxi: “mi danno la sensazione di essere dei poveracci…”. Utili idioti impiegati dalle “menti raffinatissime” per obiettivi che vanno persino oltre il loro intelletto.

    Nonostante le insistenti proteste di alcuni deputati della DC che lamentano l’opacità delle privatizzazioni in corso, l’assenza di procedure trasparenti e definite per legge e, soprattutto, la mancata istituzione di una commissione autorevole e indipendente nei confronti di gruppi di pressione, delle società privatizzande, dei potenziali acquirenti e dello stesso governo, con il compito di determinare il valore delle imprese pubbliche da cedere21, gli attentati del 27 luglio imprimono nuovo slancio alle dismissioni delle partecipate.

    Il 27 agosto 1993, ad un mese esatto di distanza dagli attentati, il governo Ciampi abroga le legge bancaria del 1936, introducendo così la banca universale tanto cara alla finanza anglosassone, e, a distanza di pochi giorni, la Repubblica scrive: “Comit-Credit, Prodi spinge sull’acceleratore”22. Il presidente dell’IRI ha una grande fretta di disfarsi delle due maggiori banche italiane, da gettare sul mercato (piuttosto freddino in quel periodo) con un’offerta pubblica di vendita. È una fretta contagiosa, tanto che persino il presidente del Consiglio ne è affetto: nell’articolo “Ciampi ha fretta di vendere”23 del 6 ottobre 1993 si legge:

    Il governo tenta di forzare il fronte delle privatizzazioni. Ieri il Presidente del Consiglio, Carlo Azeglio Ciampi, insieme ai ministri competenti ha ricevuto a Palazzo Chigi il presidente dell’ Iri, Romano Prodi, e l’ amministratore delegato dell’Eni, Franco Bernabè. Due riunioni convocate per mettere a punto ogni iniziativa utile all’accelerazione delle dismissioni dello ‘Stato padrone’ che, a tutt’oggi, hanno riservato ben pochi successi all’esecutivo. Obiettivo di Ciampi è di chiudere l’ anno portando a casa almeno una privatizzazione: quella dell’Imi sembra ormai in dirittura, ma a quanto si apprende il governo vorrebbe chiudere in bellezza il ’93 con il collocamento sul mercato anche del Credito Italiano.”

    Perché forzare le privatizzazioni? Perché accelerare improvvisamente le dismissioni? Perché è così importante vendere in fretta il Credito Italiano, uno dei dossier più appetitosi, seguito non a caso da JP Morgan e Goldman Sachs?

    Il 29 ottobre 1993 il consiglio di amministrazione del Credit approva la dismissione del 40% del pacchetto azionario in mano all’Iri tramite un’offerta pubblica di vendita. Due giorni dopo, domenica 31 ottobre 1993, si scoprirà a distanza di un decennio24, sarebbe dovuta esplodere un’autobomba parcheggiata in via dei Gladiatori, a due passi dallo stadio Olimpico, quando gli spettatori della partita Lazio-Udinese fossero usciti.

    Non è certo il mancato funzionamento del telecomando in mano ai mafiosi ad evitare la strage, ma l’ordine impartito ai servizi segreti “deviati” di sospendere l’operazione, perché “le menti raffinatissime” hanno finalmente ottenuto ciò che vogliono. L’uscita dello Stato-padrone della banche e la privatizzazione delle banche. Finisce così, con quella bomba inesplosa di cui non c’è traccia sui giornali dell’autunno ‘93, la stagione delle bombe “mafiose”: la strategia della tensione si conclude perché il governo Ciampi ed il Parlamento si sono piegati alla Mafia con la “emme” maiuscola, quella della City e di Wall Street, la stessa che nel 1991 ha ucciso servendosi della RAF il tedesco Detlev Karsten Rohwedder, capo della holding pubblica che raccoglie tutte le imprese della ex-DDR, colpevole di ritardi nelle privatizzazioni.

    Il 1993 volge così al termine: la DC si è sciolta il 26 luglio 1993, Bettino Craxi è ormai in procinto di lasciare il Paese e, di tanto in tanto, nelle pagine degli interni si legge il nome di un imprenditore televisivo che medita di scendere in politica: Silvio Berlusconi. Il primo novembre è anche nata ufficialmente l’Unione Europea, fino all’altro ieri CEE. Sul fronte economico il Credit è in fase di privatizzazione, la Comit e l’IMI seguono a stretto giro, il Nuovo Pignone è stato ceduto alla General Electric tra proteste e scioperi, la SME è stata spezzettata ed ceduta in parte alla Nestlé. Totale degli introiti: 4.400 miliardi25, circa il 10% dei 30.000 mld dilapidati un anno prima dalla Bankitalia di Carlo Azeglio Ciampi. Ma l’Italia è più fragile e meno indipendente, più povera e meno industrializzata, come auspicato dall’oligarchia atlantica: la lunga stagione di decadenza, che sta toccando oggi lo zenit, è appena iniziata.

    Siamo agli albori della Seconda Repubblica: una repubblica infamante, costruita sul fango e sul sangue, sul sacrificio di due fedeli servitori dello Stato come Borsellino e Falcone, sul saccheggio del risparmio degli italiani e delle imprese pubbliche, sull’avvilente sudditanza agli angloamericani, sulla connivenza tra “sinistra” e banchieri, sulla deindustrializzazione, sulla speculazione, sulla rapina e sullo stragismo. Beniamino Andreatta è morto da anni, ma molti protagonisti di questo racconto sono ancora vivi e occupano tuttora posizioni di prestigio e potere: Mario Draghi, Romano Prodi, Giuliano Amato, Giorgio Napolitano, Mario Monti, Franco Bernabè, etc. etc. Faranno in tempo ad assistere al crollo della loro creatura e, soprattutto, a pagarne le conseguenze.

  2. Vedere quello che hai davanti al naso richiede una lotta costante”. (George Orwell;)
 
Orizzonte48


Le Istituzioni riflettono la società o esse "conformano" la società e ne inducono la struttura? In democrazia, la risposta dovrebbe essere la prima. Ma c’è sempre l'ombra della seconda...il "potere" tende a perpetuarsi, forzando le regole che, nello Stato "democratico di diritto" ne disciplinano la legittimazione. Ultimamente, poi, la seconda si profila piuttosto...ingombrante, nella sintesi "lo vuole l'Europa". Ma non solo. Per capire il fenomeno, useremo la analisi economica del diritto.































venerdì 24 marzo 2017
60 ANNI DAL TRATTATO DI ROMA: L'€UROPA E' STATA UN PIENO SUCCESSO [/paste:font]


bolli-compiuti-missione-25651581.jpg


1. Mentre sale la tensione per i problemi di ordine pubblico che potrebbero verificarsi in una Roma super-blindata mentre va in scena la paradossale commemorazione dei 60 anni del Trattato CEE, è un esercizio diffuso sui media italiani quello di interrogarsi su cosa potrà venire fuori dall'incontro tra capi di Stato e capi di governo europei che si radunano in una città che, almeno nelle intenzioni, (ri)diverrebbe un "simbolo" dell'€uropa unita.

2. In fondo, pur nella sua versione allargata, la situazione è la medesima che si prospettava per il vertice di Ventotene dello scorso agosto.
La imminente formalizzazione del recesso del Regno Unito ai sensi dell'art.50 del Trattato e la crisi di governo italiana conseguente all'esito del referendum, non hanno mutato sostanzialmente il quadro e né potevano farlo: ognuna delle dinamiche in atto non molti mesi fa si è confermata e, semmai, rafforzata.
La stessa novità dell'atteggiamento degli Stati Uniti, legata all'elezione di Trump, non pare decisiva in un senso o nell'altro, dato che non si è manifestata in decisioni formali dell'Amministrazione USA, e né, comunque, ha innescato atteggiamenti nuovi da parte delle potenze €uropee che guidano l'eurozona (il cuore di tutta la vicenda, com'è del tutto evidente).
E se ne ha sostanziale conferma nell'esito trapelato del summit Trump-Merkel (che ha al più vagamente aperto il fronte dell'equilibrio interno al trattato NATO, secondo un'evidente applicazione del principio rebus sic stantibus - non solo nei confronti della Germania, peraltro- da parte del contraente più importante dell'accordo multilaterale).

3. Riassumiamo in estrema sintesi la situazione storica, politica ed ideologico-economica che ha caratterizzato il processo della "costruzione europea", appunto in coerenza con quanto era già stato segnalato nello scorso agosto (p.1):
"La costruzione €uropea, - contrariamente a quanto ritengono gli z€loti che vivono di luoghi comuni, facitori e vittime della propaganda neo-ordo-liberista -, è stata guidata dalla volontà USA di governare l'intero Occidente (qui p.2 e qui, per la traduzione della fonte ufficiale), assicurandosi, per la sua parte più importante (cioè il "vecchio" continente), due certezze considerate imprescindibili:
a) ancorare il continente "madre" (o "padre") all'economia di mercato, in contrapposizione a ogni cedimento "socialista" al bolscevismo sovietico, e trascinarlo in tutte le successive evoluzioni economico-ideologiche del "mercatismo", preparatorie e posteriori alla "caduta del muro" (in particolare il Washington Consensus);
b) agevolare il conseguente perseguimento delle strategie geo-politiche ritenute opportune dagli USA stessi - o meglio dal suo establishment sentitosi trionfatore della guerra fredda e emblema della "fine della Storia"-, in quanto naturali leaders di questo blocco omogeneo di paesi trasformati in sinergici ausiliari "liberal-liberisti": l'agevolazione consentita dall'€uropa è quella di avere un interlocutore unico allorquando occorra garantire un coordinamento politico, ossequioso della linea stabilita al centro dell'Impero, verso le aree diverse da questo blocco (come insegna la vicenda dell'Ucraina e, in misura più incerta, quella dei Balcani, della Libia e del Medioriente...).


3.1. Ancor più importante, è la precisazione della posizione cui la Germania, e i paesi che economicamente, (ma anche in proiezione militare, ormai), sono da considerare come suoi "satelliti" (p.3):
"...la Germania non sente di essere in crisi e, comunque, segue le politiche che le sono congeniali nel proprio irrinunciabile interesse nazionale (qui pp. 2-3).
L'UE, e ovviamente più ancora l'euro, sono solo strumenti di potenziamento di questo interesse nazionale che possono essere accettabili, a norma della sua stessa Costituzione, solo a condizione che tale convenienza rafforzata sia effettivamente raggiunta.
Gli altri paesi, su tutti l'Italia, - che rappresenta(va) allo stadio più avanzato il modello costituzional-keynesiano e che quindi andava normalizzata, a colpi di "riforme", più e prima di ogni altro Stato "nazionale" europeo, rivestendo ciò un prioritario valore simbolico per gli stessi USA- versano invece in una sempre più grave crisi strutturale, posta in relazione di dipendenza inversa con la "prosperità" perseguita dalla Germania.
Perciò l'esito del summit di Ventotene era già scritto.
...
Leaders disabituati a decidere perchè parte di classi politiche guidate da decenni di strategia behind the scene degli USA, che restringe ogni possibile azione di governo alle riforme neo-liberiste-supply side (sperimentate per prime dal FMI sui paesi in via di sviluppo); leaders ormai persino nati e cresciuti dentro la "addiction" dei parametri rigidi e degli automatismi di cui l'ordoliberismo strumentale ha infarcito trattati immodificabili (prima ancora che inaccettabili per qualsiasi democrazia sostanziale), non hanno alcuna attitudine a risolvere i problemi derivanti dall'eurozona: per essere in grado di farlo, se non altro, dovrebbero rinnegare se stessi apertamente e, implicitamente, le politiche seguite ottusamente per oltre 30 anni dai ranghi partitici da cui provengono.
Dovrebbero perciò sopportare un costo altissimo in termini politici e personali: quello di guidare una sostanziale rivoluzione - perché a questo corrisponderebbe una modifica dei trattati in senso veramente risolutivo della crisi di crescita e di identità sociale che hanno provocato con la loro applicazione.
Insomma, dovrebbero realizzare nella sostanza un vero e proprio cambiamento di classi dirigenti, mettendo in discussione, prima di tutto, la propria stessa esistenza politica.
Perché in ciò e solo in ciò consiste una "rivoluzione" e non una messa in scena cosmetica da dare in pasto ai media addomesticati o, nella migliore delle ipotesi, ormai deprivati delle risorse culturali per interpretare il presente (che essi stessi hanno decisivamente contribuito ad alterare sul piano della percezione culturale)".


4. Una ricostruzione storica la potete trovare nella serie di post di Arturo (a partire da questo) che riassumono sia gli impulsi genetici al federalismo europeo provenienti dagli Stati Uniti (fatto storico documentato con una tale ampiezza di fonti dirette e di studi che non pare seriamente dubitabile), sia la strategia della gradualità "stealthy", cioè "nascosta", "inavvertita", con cui l'intero processo è stato costantemente concepito.
Al post "Maastricht: era già tutto previsto" ho aggiunto un'ulteriore conferma tratta da un articolo di Evans-Pritchard, fondato sempre su fonti documentali, e che, in questa sede, vi traduco:
"E' stata Washington a guidare l'integrazione europea nei tardi anni '40, finanziandola in modo "coperto" tramite le Amministrazioni Truman, Eisenhower, Kennedy, Johnson e Nixon.
Sebbene talvolta irritati, gli USA hanno fatto affidamento sull'unione europea da allora per dare ancoraggio agli interessi regionali americani accoppiati nella NATO...
La dichiarazione Schuman che segnò la riconciliazione franco-tedesca - e che avrebbe condotto alla Comunità europea nei suoi vari stadi- fu preparata dall'allora Segretario di Stato Dean Acheson nel summit di Foggy Bottom (ndr; un nome in sé già presago dei contorni indefiniti, per le opinioni pubbliche, dei disegni perseguiti). "E' cominciato tutto a Washington" dichiarò il capo dello staff di Schuman.
...Fu l'amministrazione Truman che "forzò" i francesi a cercare un modus vivendi con la Germania nel primo dopoguerra, arrivando persino a minacciare di tagliarle i fondi del Piano Marshall in un acceso meeting coi leader francesi che recalcitravano nel 1950.
...Negli anni che seguirono vi furono gravi errori di valutazione, naturalmente. Un "memo" datato 11 giugno 1965, impartisce al vicepresidente della Commissione europea l'istruzione di perseguire l'unione monetaria in modo "innavvertito" (dalle opinioni pubbliche: "by stealth"), sopprimendo il dibattito fino a quando "l'adozione di tale proposta non fosse divenuta praticamente ineludibile"...
 
Orizzonte48

5. E in effetti è andata proprio così. Abbiamo la documentazione circa l'origine (da oltreoceano) del "metodo" che viene variamente attribuito:
- a Monnet

C7nPL3_X0AA4u0-.jpg

(la cui fonte più prossima, in ordine all'attribuibilità, che peraltro non v'è ragione obiettiva di ritenere inverosimile, la potete rinvenire qui)
- ad Amato (tratto da una notissima intervista del 2000 rilasciata a Barbara Spinelli)
"Non penso che sia una buona idea rimpiazzare questo metodo lento ed efficace - che solleva gli Stati nazionali dall'ansia mentre vengono privati del potere- con grandi balzi istituzionali...Perciò preferisco andare lentamente, frantumando i pezzi di sovranità poco a poco, evitando brusche transizioni dal potere nazionale a quello federale. Questo è il modo in cui ritengo che dovremo costruire le politiche comuni europee...".
- al collimante "metodo Juncker"
"prendiamo una decisione e la mettiamo sul tavolo, aspettando di vedere quali reazioni susciterà; se non vi sono resistenze perchè nessuno ci ha capito nulla, andiamo avanti fino al punto di non ritorno...".
- fino alla complementare affermazione di Prodi, che si collega al già visto sistema "stealthy" di imposizione della moneta unica e che, come abbiamo visto ne "La Costituzione nella palude", era stato grosso modo già programmato nelle stesse proiezioni del primo progetto ufficiale di moneta unica, contenuto nel Rapporto Werner del 1971 (qui, p.2):

C7HYjhlXQAAKq8P.jpg

5.1. Mentre, sempre Prodi, ci fornisce la descrizione pratica delle linee di politica socio-economica che comunque hanno caratterizzato lo "stato di attuazione", rebus sic stantibus, della moneta unica e i suoi limiti di applicabilità:

senza-titolo.png


6. Ma, chiarita questa serie di premesse storico-politiche indispensabili, torniamo alle prospettive del super-vertice di Roma. Ancora una volta, è lo stesso Prodi a fornirci una chiave di lettura che va comunque decifrata.
I punti salienti ci paiono questi:
"Un progetto che, dalla bocciatura francese e olandese del referendum costituzionale nel 2005, si è interrotto e, con esso, si è interrotto il processo di creazione di una federazione fra Stati uguali. L’entusiasmo genuino e popolare che aveva accompagnato ogni traguardo raggiunto, si è spento e si è trasformato in diffidenza e paura. La solidarietà che era il fondamento della casa comune europea, che ci ha consentito di vivere in pace per tre generazioni, che ha fatto dell’Europa la «casa delle minoranze», oggi arretra e abdica di fronte agli egoismi nazionali e alla paura che mina le fondamenta stesse della nostra Unione.
Forti e isolati
Siamo sempre più deboli e divisi: di fronte all’arretramento francese, alla recente uscita della Gran Bretagna, l’unica nazione alla quale tutti fanno oggi riferimento è la Germania. Forte per le sue virtù e per i suoi meriti, la Germania sta tuttavia esercitando la sua leadership senza quello sforzo di condivisione con gli altri Paesi membri che è necessario perché la leadership sia accettata in modo coesivo.
Si pensi alle tensioni che si sono accumulate intorno al problema greco per il fatto che esso è stato affrontato non in un dialogo tra Bruxelles e Atene ma, sostanzialmente, tra Berlino e Atene.
In conseguenza di questa nazionalizzazione dell’Unione, la Commissione Europea ha perduto progressivamente di potere. Ne è prova il fatto che, nel recente Libro bianco che prepara l’incontro di Roma, il presidente Juncker avanza ben 5 proposte di possibili scenari futuri ma non ne sceglie nemmeno una, manifestando così la grande difficoltà politica nella quale oggi si trova la Commissione. (Le cinque opzioni, "vanno da un'unione sempre più stretta fino ad un'alleanza puramente commerciale")."


7. Noi sappiamo, invece, che la "solidarietà" tra Stati-membri è prevista nei trattati in modo che, - se posta sul piano finanziario e fiscale, l'unico proprio di un'unione che voglia caratterizzarsi come politica e, in concreto, anche democratica-, essa sia esplicitamente vietata, non solo "non contemplata", come risultava coscientemente nel rapporto Werner: e abbiamo visto come tale divieto di solidarietà corrisponda a una precisa e coessenziale visione, politica prima ancora che economica, affermata dalle istituzioni UE-M senza mezzi termini:
Con la Risoluzione sull'Unione Economica e Monetaria (doc. A 3-99/90) il Parlamento Europeo:
“A) considerando che l'Unione economica e monetaria costituisce un obiettivo della Comunità dichiarato reiterato dal 1969 fino al suo inserimento nel Trattato CEE mediante l'Atto Unico ed esplicitamente ribadito dai Consigli europei di Hannover, Madrid e Strasburgo,
B) considerando che un'armonica realizzazione di tale obiettivo è strettamente legata a un'accelerazione dell'Unione politica della Comunità, con una revisione dei trattati che determini un rafforzamento del ruolo del PE; considerando che l'Unione politica s'impone tanto più in considerazione della riunificazione della Germania e degli sviluppi in corso nei paesi dell'Europa orientale…
C) considerando che il completamento del grande mercato interno non potrà produrre in maniera costante e permanente tutti i vantaggi che si aspettano i cittadini se non verrà rapidamente consolidato da un'Unione economica e monetaria in cui l'uso progressivo di una moneta comune (l'ECU) finirà per portare a una moneta unica…
G) considerando che l'Unione monetaria deve garantire la stabilità monetaria e favorire il progresso economico e sociale, e che tali finalità potranno essere garantite attraverso un SISTEMA EUROPEO DI BANCHE CENTRALI, la cui autonomia dovrà fondarsi su basi giuridiche chiare,
H) considerando che il Sistema europeo di banche centrali (SEBC) DEVE GODERE DEL PRIVILEGIO ESCLUSIVO DELLA CREAZIONE MONETARIA e quindi della capacità di utilizzare, senza alcuna autorizzazione preventiva, tutti gli strumenti di cui le grandi banche centrali moderne dispongono oggi par influenzare i mercati monetari…”
E soprattutto:
“M) considerando che, PER EVITARE CHE LE AUTORITÀ NAZIONALI NUOCCIANO ALL'OBIETTIVO DELLA STABILITÀ MONETARIA e alla convergenza delle politiche macroeconomiche degli Stati membri, DEVONO ESSERE ADOTTATE NORME SEVERE CHE LIMITINO RIGOROSAMENTE il finanziamento monetario dei disavanzi pubblici E PROIBISCANO IL SALVATAGGIO AUTOMATICO, da parte della Comunità, DEGLI STATI MEMBRI IN DIFFICOLTÀ FINANZIARIA…"
 
Orizzonte48 …"

5. PLAUDE alla decisione delle autorità degli Stati membri DI PROIBIRE IL FINANZIAMENTO MONETARIO DEL DISAVANZO PUBBLICO E L'INTERVENTO AUTOMATICO DELLA COMUNITÀ IN SOCCORSO DEGLI STATI MEMBRI CHE VERSANO IN DIFFICOLTÀ DI BILANCIO…
...9. considera necessario creare un sistema europeo di banche centrali che decida autonomamente come attuare gli obiettivi della politica monetaria definiti dal Consiglio e approvati dal Parlamento…; onde evitare che le autorità nazionali nuocciano all'obiettivo della stabilità monetaria e della convergenza delle politiche macroeconomiche degli Stati membri, DOVRANNO ESSERE ADOTTATE SEVERE NORME CHE LIMITINO RIGOROSAMENTE IL FINANZIAMENTO MONETARIO DEI DISAVANZI PUBBLICI E PROIBISCANO IL SALVATAGGIO AUTOMATICO DELLA COMUNITÀ, DEGLI STATI MEMBRI IN DIFFICOLTÀ…”.

Queste cose, queste "risoluzioni" ufficiali e pienamente esplicative delle concrete previsioni vincolanti dei trattati, Prodi dovrebbe conoscerle: e infatti, la sua affermazione sullo smantellamento progressivo del welfare all'interno della moneta unica, che è una versione solo un po' meno meno drastica della "durezza del vivere" auspicata dal ministro del suo governo Padoa-Schioppa, è più coerente con tale consapevolezza.

8. D'altra parte, se cade la premessa solidaristica, cade tutto il resto del discorso sulle prospettive di riavvio del processo in forme solidali (ma come? Volute e esplicitate da chi?) che, nella realtà giuridico-istituzionale dell'eurozona non si sono mai presentate e neppure sono mai state contemplate. Non è la "nazionalizzazione" il problema che porta alla crisi dei rapporti tra paesi aderenti alla moneta unica e, in realtà, a maggior ragione, con quelli che non vi aderiscono. E' proprio l'ordinario agire applicativo dei trattati.

La verità che trapela prepotente da tutto questo quadro pare oggettivamente essere un'altra.
La Germania, abbiamo visto potenza vincitrice della competizione commercial-industriale cui ha portato l'assetto esplicitamente antisolidaristico dei trattati, non si considera "in crisi".
E, con essa, al netto del problema cultural-sociologico dell'immigrazione, neppure l'Olanda, come conferma il senso ultimo delle contestate dichiarazioni di Djisselbloem, appunto endorsed da Schauble senza alcuna riserva.
E dunque, i vincitori, all'interno del processo europeista che, data l'importanza decisiva dei rapporti di forza che i trattati internazionali tendono inevitabilmente ad amplificare, tenderanno ad affermare ulteriori evoluzioni in senso ancora più stringente verso l'affermazione del "loro" modello di "integrazione".
La stessa "europa a due velocità" non è altro che un modo di affermare che i paesi "irrevocabilmente" (come lo stesso Draghi ha tenuto a ri-precisare) dentro l'eurozona sono il vero e unico bersaglio pratico delle prospettive di accelerazione del modello attuale. Senza alcun compromesso possibile.

9. E non è che questa sia una mera speculazione deduttiva: al di là delle probabilmente inconcludenti discussioni che si svolgeranno a Roma il 25 marzo, infatti, la precisa formalizzazione di quel che le istituzioni europee, e non certo i "rapporti nazionalizzati", sono capaci di esprimere in termini di revisione dei trattati, assume una caratteristica ben precisa (certo, le istituzioni europee, nei loro processi decisionali, sono soggette alla prassi ed ai rapporti di forza affermatisi e amplificatisi in base ai trattati stessi: ma questo è un fenomeno, per l'appunto, inevitabile e inscindibile proprio da questa natura istituzionale di un'organizzazione internazionale essenzialmente liberoscambista).
Ed infatti, l'unica prospettiva ufficialmente formalizzata, in quanto passata già per una deliberazione del parlamento europeo e, appunto, motivata dalla presa d'atto della Brexit in connessione con l'esigenza di "completare l'unione politica e monetaria", in raccordo con la "relazione dei cinque presidenti" e in vista di un "accordo interistituzionale con Comissione e Consiglio UE", è quella che si trova nei tre reports positivamente votati dallo stesso parlamento. Eccovi i relativi links:
1) Report sulla Capacità fiscale dell'Eurozona
RELAZIONE sulla capacità di bilancio della zona euro - A8-0038/2017
2) Possibile evoluzione e adeguamento dell'attuale struttura istituzionale dell'Unione europea:
RELAZIONE sulle evoluzioni e gli adeguamenti possibili dell'attuale struttura istituzionale dell'Unione europea - A8-0390/2016
3) Miglioramento del funzionamento dell'Unione europea sfruttando le potenzialità del trattato di Lisbona:
RELAZIONE sul miglioramento del funzionamento dell'Unione europea sfruttando le potenzialità del trattato di Lisbona - A8-0386/2016
10. Un commento di sintesi della pletorica (come di consueto) serie di misure e di considerando che nascondono, appunto "stealthy", una precisa volontà negoziale e dispositiva del destino di centinaia di milioni di cittadini degli Stati coinvolti:
"Si parla nel "complesso dei tre report" di istituire un bilancio dedicato per la zona Euro, da finanziare non si sa bene con quali modalità e risorse, ma di sicuro non con trasferimenti di risorse dalle economie forti in surplus (che godono di una moneta tagliata su misura per la loro economia, leggasi Germania e Olanda) a sostegno delle aree depresse. Questa proposta è quindi il cavallo di Troia per ricattare sistematicamente i Paesi in difficoltà imponendo - in cambio di "aiuti" (id est: restituzione di ciò che gli stessi Stati hanno dovuto versare in forma di maggiorato contributo al bilancio "federale")- condizionalità asfissianti con riforme strutturali e vari programmi di aggiustamento economico.
Si insiste sul "normare" il trattamento riservato alla Grecia in termini di distruzione del welfare, precarizzazione del lavoro, impoverimento generale del popolo e privatizzazioni selvagge. Naturalmente sotto ricatto.
Si parla d'istituzionalizzare il MES - il mostruoso fondo salva-Stati di cui vi abbiamo già parlato - in varie forme: inserendolo direttamente nei trattati e quindi rendendolo "irreversibile". Oppure trasformarlo in un Fondo Monetario Europeo che erogherà aiuti imponendo riforme neoliberiste folli e anacronistiche, distruggendo di fatto il Paese che dovrà attuarle.
C'è addirittura la pretesa di creare ad hoc un super-ministro delle finanze per l'Eurozona, fondendo le figure del presidente dell'Eurogruppo e del commissario europeo agli affari economici e sociali. Fuori da qualsiasi controllo democratico questa figura diventerebbe lo spin-doctor del potere tecnocratico tedesco e avrebbe la facoltà d'imporre il rispetto religioso del patto di stabilità e crescita e, ancora, del Fiscal Compact".

11. Insomma, spentisi i riflettori sulla mega-kermesse romana, e magari trascorsi alcuni giorni di discussioni mediatiche basate su curiose e pretesamente "commiserative" rivendicazioni "contro" (i populismi, i razzismi, la xenofobia, la perdita dello slancio ideale e...solidale), basate su problematiche in parte immaginarie e in parte relative ad effetti di decisioni istituzionali UE che non "potranno" mai essere rimesse in discussione, l'agenda ricomincerà inevitabilmente a correre sulle basi costituite da questi tre reports.
Ma questa realtà, è una dimensione di rapporti di forza che nessuna crisi di consenso elettorale pare poter smuovere: e d'altra parte, ciò è coerente con la consueta diffidenza e ostilità verso i parlamenti nazionali, visti come espressione distonica della disfunzionalità del suffragio universale, - esercizio delle sovranità popolari-, a garantire ciò che è visto esclusivamente come "efficienza allocativa", esclusivamente conseguibile dall'ordine sovranazionale del mercato (qui, p.4, nella definizione di Karl Polanyi).

11.1. E questa realtà è e rimane l'unica proiezione storico-politica ed economica in cui si sono manifestati i trattati europei. Senza che si sia mai posta alcuna alternativa. Finora.
Ma è praticamente impossibile che qualcosa cambi per forze di autocorrezione endogena.
Il fatto è che l'€uropa, dal punto di vista delle sue premesse politico-ideologiche, è stata un pieno successo: la crisi attuale può soltanto essere vista come un episodio, tutto sommato scontato e superabile, di resistenza del "vecchio" ordine (disfunzionale) delle democrazie nazionali e del capitalismo collaborativo (così definito da Eichengreen in relazione ai rapporti che si instaurarono nel dopoguerra prima che prendesse definitivamente il sopravvento la restaurazione dell'ordine sovranazionale del mercato) che i trattati sono inesorabilmente volti a sopprimere.
Irreversibilmente
 
Le Istituzioni riflettono la società o esse "conformano" la società e ne inducono la struttura? In democrazia, la risposta dovrebbe essere la prima. Ma c’è sempre l'ombra della seconda...il "potere" tende a perpetuarsi, forzando le regole che, nello Stato "democratico di diritto" ne disciplinano la legittimazione. Ultimamente, poi, la seconda si profila piuttosto...ingombrante, nella sintesi "lo vuole l'Europa". Ma non solo. Per capire il fenomeno, useremo la analisi economica del diritto.































martedì 3 maggio 2016
USA for Italy[/paste:font]
maxresdefault.jpg

the-shrines-of-italy1a-logo.jpg


1. Una delle lamentele più frequenti di quella minoranza composita che cerca di comprendere la realtà della situazione italiana, magari nella legittima speranza che possa risolversi positivamente (e su cosa significhi ciò già iniziano divergenze non secondarie), è che l'Italia non abbia, neppure in passato, goduto di piena sovranità.
Da qui partono tutta una serie di diagnosi, derivanti da diverse selezioni e valutazioni del dato storico, che si imperniano su un hard fact: gli USA avrebbero pesantemente condizionato, nel bene e nel male, gli assetti sociali e le politiche economiche e di sviluppo praticabili in Italia, dato che questa, come potenza sconfitta nella seconda guerra mondiale, rimane in un certa misura in una dimensione (para)coloniale.
Poi, su questo hard fact si fanno elaborazioni, più o meno ragionate, circa i termini innovativi di tale "colonizzazione" rispetto alla realtà geo-politica anteriore alla seconda guerra mondiale: non mi inoltrerò ulteriormente su questo versante del problema.
Mi limito a dire che la mia idea è molto meno deterministica, e meno assolutoria delle responsabilità nazionali della nostra classe dirigente, ben evidenti anche nella fase anni '80 della costruzione €uropea, di quanto non derivi da questa vulgata, spesso asserita in preda alla sindrome di Dunning-Kruger.
2. Si può però convenire, per quanto anche ciò richieda una certa applicazione, spesso al di là dell'auto-convinzione di sapere già tutto, che la "costruzione (federale) europea" sia un sistema promosso e sviluppatosi sotto il controllo e per la convenienza degli Stati Uniti: in ogni sua fase, esso riflette sia l'esigenza storica, del dopoguerra, di un saldo ancoraggio all'economia di mercato dell'Europa occidentale, sia l'obiettivo di "purificazione" (da qualunque traccia di "socialismo" incarnato nel welfare costituzionale) di tale modello, successivamente intrapreso con la liberalizzazione dei capitali e la conseguente nuova globalizzazione.
Allo stato, dunque, ciò che i controllori politico-culturali USA ritengono appropriato per l'Italia diviene uno strumento essenziale di comprensione delle nostre prospettive sistemiche. Ed è essenziale, non paradossalmente, oggi più che in passato, nella misura in cui la dissoluzione della sovranità in ambito federale €uropeo risulta molto più intensa di quella legata all'obiettivo trade-off tra condizionamento politico, insito nell'adesione alla Nato, e vantaggio militare-difensivo che se ne traeva.

3. Posta la questione in questi termini sintetici (si potrebbero scrivere vari saggi in argomento, purché ci si serva con serietà degli strumenti offerti dalle scienze sociali), cerchiamo di offrire un quadro della più recente valutazione della situazione italiana espressa dall'attuale establishment americano.
Una simile rilevazione, necessariamente indiziaria (sia perché la confusione regna sovrana su entrambe le sponde dell'oceano atlantico, sia perché si deve necessariamente procedere col punto di vista di "non.insider"), ci dice che l'Italia continua ad essere vista come un paese socialistoide-anarcoide gravato da un marchio irreversibile di pelandroneria dei suoi lavoratori e di "levantinismo", corrotto e sprecone, della sua classe politica, (al più macchiavellica, volendo l'analista USA nobilitare il luogocomune utilizzato); un marchio appena mitigato dal riconoscimento della creatività dei suoi imprenditori, accettabile però se predicata come settoriale e, possibilmente, delocalizzatrice da un lato, e aperta agli IDE, cioè all'acquisizione estera, dall'altro.
Alan Friedman e Luttwak, probabilmente i più ascoltati commentatori ufficiali delle cose italiane, esprimono questa visione, immutata da decenni, avendo spazi mediatico-televisivi praticamente illimitati e, specialmente, incontrastati (più il primo dei due, in verità), allo scopo di radicare il frame dell'autorazzismo (nei nostri pedissequi commentatori autoctoni): questa etichettatura ossessiva agisce efficacemente come un "mantra", accuratamente svincolato dai dati economici relativi persino alla struttura dell'offerta italiana ed al suo effettivo mercato del lavoro, ammettendo piccolissime varianti.
Certo, la realtà, come vedremo dalle fonti che andremo a citare, è diversa dal mantra e, una volta collocata nella prospettiva del federalismo eurotrainato, rischia di fare dell'Italietta autorazzista uno strumento inefficace, anzi controproducente, rispetto all'aggressività di una Germania che sta prendendo la mano agli stessi controllori d'oltreoceano: mentre la Brexit rischia di rompere l'unità (confusa) del fronte anglosassone di re-imposizione del governo globale dei mercati (ragione sociale originaria e unica della costruzione €uropea culminante negli USE), assistiamo però di recente a una certa qual correzione del tiro (ma non hanno ben avvertito Alan Friedman...).
4. Intanto il New York Times, sezione business, ci dà atto che, nell'eurozona della ripresa debole, alcuni paesi stanno facendo "meglio" di altri: tra questi, parrebbe inclusa l'Italia cui sono riservate queste valutazioni:
"Poiché l'Italia è la terza maggior economia dell'eurozona, dopo Germania e Francia, i suoi problemi sono potenzialmente una minaccia più grande alla stabilità del blocco di quelli della relativamente piccola Grecia. L'economia italiana non è cresciuta significativamente negli anni, molte delle sue banche sono appena solvibili, e il debito pubblico come percentuale del PIL è tra i più alti al mondo. Probabilmente nessun paese ha beneficiato di più dell'Italia dalle recenti misure di stimolo della BCE. che hanno aiutato il governo a tenere basso il costo del prestito e hanno assicurato che le imprese italiane possano ancora ottenere del credito (???) nonostante la scarsa salute delle banche. Matteo Renzi, il primo ministro italiano orientato alle riforme, sta cercando di rendere il paese più adatto agli imprenditori. Nel corso di quest'anno gli italiani voteranno su "cambiamenti", proposti dal suo partito, al metodo decisionale attuale del suo Parlamento e per por fine alla sua cronica instabilità politica. Se Matteo Renzi avrà successo, gli "economisti" intravedono la speranza che l'Italia, che è forte in settori come la moda e la meccanica- possano ridurre la burocrazia e fare altri cambiamenti che incoraggino la crescita".
E questo è il New York Times, moderatamente espressione dell'establishment "progressista" USA: il pensiero unico supply side e l'ignoranza grossolana degli effetti, sul modello di specializzazione dell'economia italiana, delle riforme neo-liberiste, patrocinate dall'euro-appartenenza, appare talmente colossale che non si saprebbe da dove iniziare un'operazione di altrettanto moderata riconduzione alla realtà.

5. Ma rimane il fatto che l'appoggio convinto è apprestato, senza neppure rendersene ben conto (il luogocomune alberga a livelli di radicazione impressionanti), all'attuale linea dell'austerità espansiva, perché l'Italia, asseritamente affetta da contrarietà alla cultura dell'impresa e dalla immancabile burocrazia, invariabilmente eccessiva, sarebbe inefficiente nel decidere la giusta riduzione dello Stato e lo sprigionarsi benefico delle forze del mercato.
Semplicemente il NY Times, come Alan Friedman, si disinteressa dei dati pluridecennali degli effetti delle "riforme" (per loro pro-business) già prodottisi massicciamente e esclude a priori che in ciò possa risiedere il problemino.
Insomma, il primato mondiale di deregolazione del rapporto di lavoro a tempo intedeterminato, già raggiunto, secondo l'OCSE, nel 2008, non scalfisce i luoghi comuni del NYT:
 
Le Istituzioni riflettono la società o esse "conformano" la società e ne
screenshot4.png

6. E neppure la classifica, sempre OCSE, che, nel 2013, prima del jobs act, cioè dell'integrale abrogazione dell'art.18 fatidico, ci vedeva già giunti praticamente ai medesimi livelli di flessibilità della stessa Germania:
proxy

Allo stesso modo, è completamente ignota la realtà del principale indice di "burocratizzazione", quello più oggettivo e significativo, cioè la percentuale di pubblici dipendenti sulla popolazione, che vedrebbe gli USA molto più burocratizzati dell'Italia.
Questo il dettaglio OCSE
sui numeri del 2011, ulteriormente ristretti dalle manovre di blocco del turn over degli anni successivi: notare, sul piano strettamente burocratico, gli addetti in senso stretto, rispettivi di Italia e USA, al settore amministrativo, che esclude i pubblici dipendenti addetti a servizi pubblici come ad es; il SSN. Il confronto, a favore dell'Italia, sul piano dei "puri burocrati", è addirittura impietoso:

tab-1-contini.gif



7. Se tutto questo poi coincida, o meno, con il "meno Stato" che, sul piano delle procedure e delle strutture, parrebbero esserci additato come soluzione dal NYT, anche lì, ci sono indicatori, favorevoli all'Italia e sfavorevoli agli USA, proprio sul piano di una maggior realizzazione delle "riforme".

Prendiamo ad esempio il saldo primario pubblico, che, specie se mantenuto nel lungo periodo, indica una inevitabile destrutturazione del settore pubblico (che, appunto, per chi non l'avesse capito, se "risparmia", paga il debito pubblico e, ovviamente, non converte tale liquidità, rastrellata presso il reddito dei cittadini, in investimento in conto capitale sull'organizzazione pubblica che, altrettanto inevitabilmente, deperisce: magari anche nell'efficienza, ma al riguardo dovrebbero avvantaggiarsene i privati per via del crowding-out):

CdNxS1RWAAAmglT.jpg:large

E questa realtà delle rispettive economie, e delle politiche fiscali e "di riforma", trova conferma nei rispettivi deficit pubblici complessivi, dato che gli US non realizzano mai, nello stesso periodo, un saldo attivo primario, pur scontando un onere del debito pubblico mediamente minore: ma da quando siamo dentro la moneta unica non c'è lotta, né con gli USA, né con UK e neppure con la "miracolosa" Irlanda, a cui non viene più chiesto di "fare le riforme":
2000px-Government_surplus_or_deficit_since_2001_(piiggs_and_US).svg.png


8. La maggior efficienza italiana nel fare le riforme, trova anche una corrispondenza nei rispettivi andamenti della spesa pubblica: gli USA, già più "densi" di burocrati, hanno strabattuto l'Italia nell'aumento della spesa pubblica della fase post crisi.
Magari l'hanno fatto per provvedere al benessere minimo della popolazione, mentre in Italia ciò non varrebbe, a sentire il NYT: chissà perché, visto che la nostra spesa viene contratta in modo...prociclico, a volersi attenere agli stessi criteri seguiti dall'Amministrazione USA:
Inserisco qui un solo dato comparato, che vede stravincere l'Italia sugli USA anche nel "meno Stato" (molti altri indicatori potrebbero confermare questa realtà e li trovate nel post appena linkato). USA batte Italia (in "più Stato": 5,7 a 1,4), nonostante i "costi sociali" della crisi del 2008:

Cdq9rWQXEAA-40A.jpg:large


Insomma, Alan Friedman e il NYT non ci paiono ben informati.

9. Un po' più aperturista, ma non necessariamente legato ai dati fiscali e macroeconomici, ci pare Anatole Kaletsky (Chief Economist and Co-Chairman of Gavekal Dragonomics. A former columnist at the Times of London, the International New York Times and the Financial Times, he is the author ofCapitalism 4.0, The Birth of a New Economy, which anticipated many of the post-crisis transformations) su Project Syndicate, che, in essenza, ci concede un quadro appena diverso, almeno nelle premesse.

Ci racconta che la Germania dice sempre no, stoppando le iniziative espansive di Mario Draghi, e ogni altra soluzione cooperativa, al punto da prendere atto che la Germania avrebbe deluso ogni aspettativa sulla sua capacità di svolgere una leadership in UE. Draghi trasforma la BCE nella banca centrale più "proattiva", capace di aggirare le regole di Maastricht e di spingersi ad essere, secondo il commentatore in questione, il primo banchiere centrale che ha ipotizzato l'Helicopter Money, panacea di tanti mali (le cose, abbiamo visto, non stanno esattamente così).

Però l'analisi si spinge ad un'aperta lode di Padoan, capace di opporsi alle politiche economiche "pre-keynesiane" volute dalla Germania, - e lo dice senza però nominare il fiscal compact e il pareggio di bilancio, che rimangono l'obiettivo di risanamento e crescita, anche nei costanti enunciati dei governi italiani e, per la verità, anche della nostra Corte costituzionale...-, manifestando ciò nei Consigli europei.
Tralasciando l'illustrazione di come ciò abbia portato a soluzioni pratiche, naturalmente "creative", nel tentativo di risolvere la situazione creatasi con l'avvento dell'Unione bancaria, Padoan, quale ex capo economista dell'OCSE, è indicato quale unico ministro dell'economia del G7 con un professional economics training.
Da qui l'ipotesi di un "rinascimento" della leadership italiana, addirittura, in campo €uropeo, incarnata nell'attuale presidente del Consiglio, che, nonostante quello che pensa il NYT, ha infatti potuto attuare "riforme" nei settori del lavoro, delle pensioni e dell'amministrazione pubblica "impensabili in passato".
Risultato auspicato: se l'Italia potrà assemblare una coalizione di Stati europei "pragmatici e progressisti" riuscirà forse a vincere le resistenze tedesche e a instaurare in €uropa il mitologico "new type of global capitalism, evolving out of the 2008 crisis".

10. Insomma, Italia in "renaissance", e detto da un "anglosassone", per quanto anomalo: Kaletsky è infatti nato a Mosca e si limita a "vivere tra UK e USA dal 1966", raggiungendo però una certa innegabile legittimazione radicata nella "cultura" USA, in virtù della nomina, nel 2012, a Chairman dello "Institute for New Economic Thinking", una fondazione nata dopo la crisi del 2008, con 200 milioni di donazioni apprestate, sentite bene, George Soros, Paul Volcker, William Janeway, Jim Balsillie e "altri eminenti finanzieri".

Dunque, nonostante qualche incomprensione sulla...realtà (quella non immaginaria dei luoghicomuni), "Italia sugli scudi" perché "fa le riforme" e le fa più degli USA (anche se non ci vuole molto), che, pure ce le impongono come soluzione "a prescindere" (dai fatti e dai dati).
Ma, a sentire i nostri media e a constatare l'indirizzo politico-internazionale italiano, tutto ok: a condizione che ciò porti alla instaurazione del "global capitalism", che sarebbe una risposta ai problemi sollevati dalla crisi del 2008; anche se non si capisce perché mai, questa soluzione sarebbe diversa dal fiscal compact, dal "meno Stato" e dalla Unione bancaria nelle forme imposte dai tedeschi.

11. Intanto, l'Italia si adegua con tutte le sue forze "ufficiali": siamo i più bravi anche se ci frustano con inerziali luoghi comuni. Rispettiamo tutto.
Il fiscal compact, la nuova flessibilità, e anche l'adeguamento alla definitiva globalizzazione guidata dai mercati: ma democratica e progressista.
Questa contraddizione di fondo, non è l'unica: intanto si approvi il TTIP e il global capitalism sia realizzato in pieno, essendo "la" soluzione.
Come avevamo annunciato quasi tre anni fa.
Solo che nel frattempo, le cose si sono un po' complicate...
Confermandosi che il tramonto dell'euro potrà essere solo "rabbioso". E anche un tantinello controverso (ma tanto, nel frattempo, gli USA si aspettano che approviamo la riforma costituzionale della stabilità di governo e della semplificazione istituzionale...nostra):


E dunque l'euro tramonta sfiammeggiando, nell'attesa che il Ttip si abbatta su di noi, mediante diritto internazionale autoapplicativo, enforced da arbitri privati pagati dalle multinazionali, come ci avverte Stiglitz. Questo diritto internazionale autoapplicativo e bypassing le corti nazionali "in nome del popolo", viene elaborato ed approvato secondo una sorta di rito esoterico, sul quale i parlamenti non possono e non potranno dire nulla.In attesa del compimento del rito, dunque, l'euro, nel suo tramonto di rabbia (verso l'umanità), continuerà a costituire il mezzo di normalizzazione del lavoro-merce, divorando le Costituzioni democratiche.
Lo vedremo nella prossima puntata: ma non perché lo diciamo noi. Per quello che sta accadendo proprio sulla sponda americana
 

Users who are viewing this thread

Back
Alto