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Come gli Stati Uniti inondarono il mondo di Psyops


marzo 27, 2017 Lascia un commento

Robert Parry Consortium News 25 marzo 2017

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Reagan con Rupert Murdoch, Charles Wick, Roy Cohn e Thomas Bolan

Documenti appena declassificati della biblioteca presidenziale di Reagan spiegano come il governo degli Stati Uniti abbia sviluppato sofisticate capacità per operazioni psicologiche che, negli ultimi tre decenni, hanno creato una realtà alternativa sia per le popolazioni dei Paesi presi di mira che per i cittadini statunitensi, una struttura che ha espanso l’influenza degli Stati Uniti all’estero e silenziato il dissenso interno. Walter Raymond Jr., specialista in propaganda e disinformazione della CIA, curò la “gestione della percezione” del presidente Reagan e i piani PSYOPS presso il Consiglio di Sicurezza Nazionale. I documenti rivelano la formazione di una burocrazia PSYOPS sotto la direzione di Walter Raymond Jr., specialista di operazioni segrete della CIA assegnato al personale del Consiglio di Sicurezza Nazionale del presidente Reagan, per aumentare l’importanza di propaganda e PSYOPS nel minare gli avversari degli Stati Uniti nel mondo e assicurare il sostegno pubblico alla politica estera e interna degli Stati Uniti. Raymond, paragonato a un personaggio di un romanzo di John LeCarré che passa facilmente inosservato, passò i suoi anni alla Casa Bianca di Reagan come oscuro burattinaio che fece del suo meglio per evitare l’attenzione del pubblico e, a quanto pare, neanche facendosi una foto. Delle decine di migliaia di fotografie di incontri alla Casa Bianca di Reagan, ne ho trovato solo una coppia mostrare Raymond seduto in gruppo e parzialmente nascosto da altri funzionari. Ma Raymond sembra aver capito la propria vera importanza. Nei dossier del NSC ho trovato lo scarabocchio di un organigramma con Raymond in alto tenere ciò che appaiono le fila utilizzate dai burattinai per controllare le marionette. Anche se è impossibile sapere esattamente ciò che tale Doodler avesse in mente, il disegno ritrae la realtà di un Raymond che dietro le tende operative controllava varie task force inter-agenzia responsabili della propaganda e della strategia PSYOPS.
Fino al 1980, PSYOPS era normalmente considerata una tecnica militare per minare la volontà del nemico diffondendo menzogne, confusione e terrore. Un caso classico fu il generale Edward Lansdale, considerato il padre delle moderne PSYOPS, che drenava il sangue dai cadaveri dei ribelli filippini, in modo che i compagni superstiziosi pensassero che un vampiro li cercasse come prede. In Vietnam, la squadra PSYOPS di Lansdale forniva previsioni astrologiche false e terribili sul destino dei leader nordvietnamiti e vietcong. In sostanza, l’idea PSYOPS era giocare sulle debolezze culturali di una popolazione presa di mira, in modo da poter essere più facilmente manipolata e controllata. Ma le sfide dell’amministrazione Reagan negli anni ’80 portarono a decidere che fossero necessarie anche le PSYOPS in tempo di pace e che le popolazioni bersaglio includessero quella statunitense. L’amministrazione Reagan era ossessionata dai problemi causati dalle divulgazioni degli anni ’70 sulle bugie del governo sulla guerra del Vietnam e le rivelazioni sugli abusi della CIA sia nel rovesciare governi democraticamente eletti che nel spiare i dissidenti statunitensi. La cosiddetta “sindrome del Vietnam” produsse un profondo scetticismo da parte dei cittadini statunitensi, così come nei giornalisti e politici, quando il presidente Reagan cercò di spacciare i suoi piani per intervenire nelle guerre civili, allora in corso in America centrale, Africa e altrove. Mentre Reagan vedeva l’America Centrale come “testa di ponte sovietica”, molti statunitensi videro i brutali oligarchi dell’America centrale e le loro forze di sicurezza sanguinarie massacrare preti, suore, sindacalisti, studenti, contadini e popolazioni indigene. Reagan e i suoi consiglieri capirono che dovevano trasformare quelle percezioni se speravano di ottenere i finanziamenti per sostenere i militari di El Salvador, Guatemala e Honduras, nonché i Contras del Nicaragua, la forza di predoni paramilitari organizzati dalla CIA contro il governo di sinistra del Nicaragua. Così, fu una priorità rimodellare la percezione pubblica per sostenere le operazioni militari del Centro America di Reagan sia nei Paesi presi di mira che tra gli statunitensi.

Una ‘PSYOP Totale’
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Come il colonnello Alfred R. Paddock Jr. scrisse su un documento influente del novembre 1983, dal titolo “Le Operazioni Psicologiche militari e la strategia degli Stati Uniti”, “il previsto impiego delle comunicazioni per influenzare atteggiamenti o comportamenti dovrebbe, se usato correttamente, precedere, accompagnare e seguire tutte le operazioni belliche. In altre parole, le operazioni psicologiche sono un sistema d’armi dal ruolo importante in tempo di pace, nel conflitto a tutto spettro e durante il periodo successivo al conflitto”. Paddock continua, “Le operazioni psicologiche militari sono una parte importante delle ‘PSYOP Totali’, in pace e in guerra… Abbiamo bisogno di un programma di attività psicologiche integranti le nostre politiche e i programmi di sicurezza nazionale… La continuità di una commissione interagenzie permanente o un meccanismo di coordinamento necessario per lo sviluppo di una strategia coerente, in tutto il mondo le operazioni psicologiche, è assolutamente necessario”. Alcune note scritte da Raymond, di recente disponibili, mostrano un focus su El Salvador con l’attuazione di “ PSYOPS multimediali per tutta la nazione” attraverso raduni e media elettronici. “Radio e TV inoltre diffondono messaggi PSYOPS”, scriveva Raymond. La grafia ondulata di Raymond, spesso difficile da decifrare, nelle note chiariva che i programmi PSYOPS erano diretti anche contro Honduras, Guatemala e Perù. Un documento “top secret” declassificato da un dossier di Raymond, del 4 febbraio 1985, per il segretario della Difesa Caspar Weinberger, sollecitava l’attuazione piena della National Security Decision Directive 130 del presidente Reagan, firmata il 6 marzo 1984 e che autorizzava le PSYOPS in tempo di pace ampliandone oltre i limiti tradizionali dalle operazioni militari attive alle situazioni in tempo di pace in cui il governo degli Stati Uniti pretendeva vi fosse qualche minaccia agli interessi nazionali. “Questa approvazione fornì l’impulso per la ricostruzione della necessaria capacità strategica focalizzando l’attenzione sulle operazioni psicologiche quali strumenti nazionali, non solo militari, per garantire che le operazioni psicologiche siano pienamente coordinate con la diplomazia pubblica e le altre attività d’informazione internazionali”, affermava il documento per Weinberger. Tale maggiore impegno nelle PSYOPS portò alla creazione di un comitato per le operazioni psicologiche (POC), che doveva essere presieduto da un rappresentante del Consiglio di Sicurezza Nazionale di Reagan, con vicepresidente del Pentagono e rappresentanti di Central Intelligence Agency, dipartimento di Stato e US Information Agency.Questo gruppo avrà il compito di pianificare, coordinare e attuare operazioni psicologiche a sostegno delle politiche e degli interessi per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti”, secondo un “segreto” addendum a un memo del 25 marzo 1986 del col. Paddock, sostenitore delle PSYOPS divenuto direttore per le operazioni psicologiche dell’esercito degli Stati Uniti. “Il comitato sarà il centro del coordinamento tra le agenzie per dettagliare piani di emergenza per la gestione del patrimonio informativo nazionale durante la guerra, e per la transizione dalla pace alla guerra”, aggiungeva l’addendum. “Il POC deve cercare di assicurare che in tempo di guerra o durante le crisi (che possono essere definiti periodi di tensione acuta riguardanti una minaccia alla vita dei cittadini statunitensi o l’imminenza della guerra tra Stati Uniti e altre nazioni), gli elementi dell’informazione internazionale degli Stati Uniti sono pronti ad avviare procedure speciali per garantire coerenza politica, risposta tempestiva e rapida al pubblico destinatario”.

Prendendo forma
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Il Comitato per le Operazioni Psicologiche assunse forma formale con un memo “segreto” del consigliere di Reagan per la Sicurezza Nazionale John Poindexter, il 31 luglio 1986. La sua prima riunione fu indetta il 2 settembre 1986 con un ordine del giorno concentrato sull’America Centrale e “Come altre agenzie possono sostenere il POC e completare i programmi del DoD in El Salvador, Guatemala, Honduras, Costa Rica e Panama”. Il POC ebbe anche il compito di ‘sviluppare le linee guida nazionali per le PSYOPS’ e ‘di formulare e attuare un programma PSYOPS nazionale’. Raymond venne nominato co-presidente del POC con l’agente della CIA Vincent Cannistraro, allora vicedirettore per i programmi d’Intelligence dello staff del NSC, secondo un appunto “segreto” del vicesottosegretario alla Difesa Craig Alderman Jr. Il promemoria notava anche che le future riunioni POC riguardavano i piani PSYOPS per le Filippine e il Nicaragua, con quest’ultimo dal nome in codice “Niagara Falls”. Il memo faceva riferimento anche a un “Progetto Touchstone”, ma non è chiaro a cosa puntasse tale programma PSYOPS. Un altro memo “segreto” del 1° ottobre 1986, con co-autore Raymond, riferiva del primo incontro del POC, il 10 settembre 1986, e osservava che “Il POC, ad ogni riunione, si concentrerà su un’area d’operazioni (ad esempio, America centrale, Afghanistan, Filippine)”. Il secondo incontro del POC, il 24 ottobre 1986, si concentrava sulle Filippine, secondo un appunto del 4 novembre 1986, sempre co-autore Raymond. “Il prossimo passo sarà un contorno ben elaborato per un piano PSYOPS che invieremo all’ambasciata per un commento”, affermava il memo. Il piano “in gran parte si focalizzava su una serie di azioni civiche di sostegno allo sforzo complessivo per sconfiggere l’insurrezione”, osservava un addendum. “V’è notevole preoccupazione sulla sensibilità di qualsiasi programma PSYOPS, data la situazione politica nelle Filippine di oggi”. In precedenza, nel 1986, nelle Filippine vi fu la cosiddetta “People Power Revolution”, che scacciò il vecchio dittatore Ferdinand Marcos, e l’amministrazione Reagan, che tardivamente tolse il sostegno a Marcos, cercava di stabilizzare la situazione politica per evitare che ulteriori elementi populisti avessero il sopravvento. Ma l’attenzione primaria dell’amministrazione Reagan continuava a volgersi all’America Centrale, come il “Piano Niagara Falls”, il programma PSYOPS contro il Nicaragua. Un appunto “segreto” del vicesottosegretario assistente del Pentagono del 20 novembre 1986, illustrava il lavoro del 4.to Gruppo per le operazioni psicologiche per tale piano “per la democratizzazione del Nicaragua”, con cui l’amministrazione Reagan intendeva “cambio di regime”. I dettagli precisi del ‘Piano Niagara Falls’ non furono divulgati dai documenti declassificati, ma la scelta del nome in codice suggerisce una cascata di PSYOPS. Altri documenti dei dossier NSC di Raymond illuminano sugli altri operatori chiave nelle PSYOPS e nei programmi di propaganda. Per esempio, in note non datate su sforzi per influenzare l’Internazionale socialista, per assicurare il supporto alla politica estera degli Stati Uniti da parte dei partiti socialisti e socialdemocratici in Europa, Raymond citava gli sforzi di “Ledeen e Gershman”, riferendosi agli operativi neoconservatori Michael Ledeen e Carl Gershman, altro neocon e presidente della National Endowment for Democracy (NED) finanziato dal governo degli Stati Uniti dal 1983 ad oggi. Anche se il NED è tecnicamente indipendente dal governo degli Stati Uniti, riceve la maggior parte del finanziamento (circa 100 milioni di dollari all’anno) dal Congresso. I documenti dagli archivi Reagan chiariscono che il NED fu organizzato per sostituire alcune operazioni segrete politiche e di propaganda della CIA, caduta in disgrazia negli anni ’70. All’inizio dai documenti del dossier di Raymond indicano il direttore della CIA William Casey spingere per la creazione del NED e Raymond, uomo di Casey nel NSC, consigliava e guidava spesso Gershman (La mano invisibile della CIA nei gruppi per la ‘democrazia’). Un’altra figura della costellazione di Raymond per la propaganda era il magnate dei media Rupert Murdoch, visto sia quale alleato politico fondamentale del presidente Reagan che come preziosa fonte di finanziamento per i gruppi privati che si coordinavano con le operazioni di propaganda della Casa Bianca. (“Rupert Murdoch: recluta la propaganda“) In una lettera del 1° novembre 1985 a Raymond, Charles R. Tanguy dei “Comitati per una Comunità delle Democrazie – Stati Uniti d’America” chiese a Raymond d’intervenire per garantire i finanziamenti di Murdoch al gruppo. “Vi saremo grati… se potesse trovare il tempo per telefonare a Murdoch e incoraggiarlo a darci una risposta positiva”, dice la lettera. Un altro documento, intitolato “Progetto Rafforzamento della Verità”, descrive come 24 milioni di dollari sarebbero stati spesi per potenziare le infrastrutture delle telecomunicazioni del “Progetto Rafforzamento della Verità”, permettendo una capacità tecnica dei media più efficiente e produttiva per le principali iniziative politiche del governo USA, come Democrazia Politica”. Il Piano Verità era il nome generale di un’operazione di propaganda dell’amministrazione Reagan. Per il mondo il programma fu classificato “diplomazia pubblica”, ma gli addetti ai lavori dell’amministrazione la chiamavano privatamente “gestione della percezione”. (La vittoria della gestione della percezione).

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Ed Meese, Bill Casey, Ronald Reagan
 
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La priorità originale del “Progetto Verità” era ripulire l’immagine del Guatemala, delle forze di sicurezza salvadoregne e dei Contras del Nicaragua, guidati da ex-ufficiali della Guardia Nazionale del deposto dittatore Anastasio Somoza. Per garantirsi il finanziamento militare costante a tali famigerate forze, la squadra di Reagan sapeva che doveva disinnescare la pubblicità negativa e in qualche modo avere il sostegno del popolo statunitense. In un primo momento, lo sforzo si concentrò su come estirpare i giornalisti statunitensi che scoprirono i fatti che minavano l’immagine pubblica desiderata. Nell’ambito di tale sforzo, l’amministrazione denunciò il corrispondente del New York Times Raymond Bonner per aver rivelato il massacro del regime salvadoregno di circa 800 uomini, donne e bambini del villaggio di El Mozote, nel nord-est di El Salvador, nel dicembre 1981. Accuracy in Media e organi d’informazione conservatori, come ad esempio la pagina editoriale del Wall Street Journal, si unirono al linciaggio di Bonner che fu ben presto licenziato. Ma tali sforzi furono in gran parte ad hoc e disorganizzati. Il direttore della CIA Casey, per anni nel mondo intrecciato tra business e intelligence, ebbe contatti importanti per creare una rete di propaganda sistemica. Riconobbe il valore dell’uso gruppi stabili noti per aver sostenuto i “diritti umani”, come Freedom House. Un documento dalla libreria Reagan mostra l’alto funzionario di Freedom House Leo Cherne, stendere un piano sulle condizioni politiche in El Salvador per Casey e promettere che Freedom House avrebbe richiesto “correzioni e cambiamenti” editoriali, perfino inviando il redattore per consultazione con chiunque Casey avrebbe assegnato alla revisione dei documenti. In una lettera al “Caro Bill” datata 24 giugno 1981, Cherne, presidente del comitato esecutivo di Freedom House, scrisse: “Sto allegando copia del progetto del manoscritto di Bruce McColm, specialista di Freedom House su America centrale e Caraibi. Questo manoscritto su El Salvador era quello di cui aveva esortato la preparazione e nella fretta di stenderlo il più rapidamente possibile appare abbastanza agitato. Lei aveva detto che venisse verificato con una precisione meticolosa dal governo e questo sarebbe molto utile…. Se ci sono domande sul manoscritto di McColm, suggerisco che chiunque vi lavori contatti Richard Salzmann presso l’Istituto di Ricerca (un’organizzazione in cui Cherne era direttore esecutivo). Era caporedattore presso l’Istituto e presidente del Comitato Salvador di Freedom House. Faccia in modo che correzioni e cambiamenti arrivino a Rita Freedman che lavora con lui. Se v’è un beneficio per Salzmann nel recarsi in qualsiasi momento per parlare con questa persona, è disponibile a farlo”. Nel 1982, Casey radunò alcuni potenti ideologi di destra per finanziare il piano “gestione della percezione”, sia con denaro che con i media. Richard Mellon Scaife era il rampollo della famiglia di banchieri, petrolieri e dell’alluminio Mellon che finanziò una serie di fondazioni di destra della famiglia, come Sarah Scaife e Cartagine, che finanziavano giornalisti e gruppi di riflessione di destra. Scaife pubblicava anche The Tribune Review di Pittsburgh, Pennsylvania. Un’operazione completa di “diplomazia pubblica” prese forma nel 1982, quando Raymond, un veterano con 30 anni di servizi clandestini della CIA, fu trasferito al NSC. Raymond divenne il centro della potente rete di propaganda, secondo una bozza inedita del comitato d’indagine del Congresso sull’Iran-Contra, che fu soppresso nell’ambito della transazione che permise a tre senatori repubblicani moderati di firmare la relazione finale e dare all’inchiesta una patina di bipartitismo. Anche se la bozza non indica Raymond nelle pagine iniziali, a quanto pare alcune informazioni provenivano da deposizioni classificate, il nome di Raymond apparve oltre nella bozza e le citazioni precedenti combaciano con il ruolo noto di Raymond. Secondo la bozza di relazione, l’ufficiale della CIA reclutato per lavorare nel NSC fu direttore delle personale della CIA per le operazioni coperte nel 1978-1982, ed era uno “specialista di propaganda e disinformazione”. “Il funzionario della CIA (Raymond) discusse del trasferimento con (il direttore della CIA) Casey e il consigliere del NSC William Clark, affinché fosse assegnato al NSC come successore di (Donald) Gregg (in qualità di coordinatore delle operazioni d’intelligence, nel giugno 1982) e ricevette l’approvazione per il coinvolgimento nella creazione del programma di diplomazia pubblica, insieme ai compiti d’intelligence”, afferma la bozza. Gregg era un altro alto funzionario della CIA assegnato al NSC prima di diventare consigliere per la sicurezza nazionale del vicepresidente George HW Bush. “Nella prima parte del 1983, i documenti ottenuti dal Comitato Scelto (Iran-Contra) indicano che il direttore del personale dell’intelligence del NSC (Raymond) raccomandava con successo la creazione di una rete inter-governativa per la promozione e la gestione del piano di diplomazia pubblica, volto a creare sostegno alla politica dell’amministrazione Reagan in patria e all’estero”.

Guerra di idee
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Durante la sua deposizione Iran-Contra, Raymond spiegò la necessità di questa struttura di propaganda, dicendo: “Non venne configurata in modo efficace per affrontare la guerra di idee”. Una delle ragioni di tale carenza fu che la legge federale proibiva che i soldi dei contribuenti venissero spesi per la propaganda interna o il lobbying per fare pressione sui rappresentanti del Congresso. Naturalmente, ogni presidente e suo team hanno grandi risorse per convincere il pubblico, ma per tradizione e legge si limitavano a discorsi, testimonianze e persuasione di ognuno dei legislatori. Ma il presidente Reagan vide la “sindrome del Vietnam” del pubblico statunitense come ostacolo alla sua politica aggressiva. Insieme a un’organizzazione governativa di Raymond, c’erano gruppi esterni desiderosi di cooperare e incassare. Tornando a Freedom House, Cherne ed i suoi soci erano a caccia di finanziamenti. In una lettera del 9 agosto 1982 a Raymond, il direttore esecutivo di Freedom House Leonard R. Sussman scrisse che “Leo Cherne mi ha chiesto d’inviare queste copie di Freedom Appeals. Probabilmente ha detto che abbiamo dovuto ridurre questo progetto per soddisfare le realtà finanziarie…, naturalmente, vorremmo espandere il progetto, ancora una volta, quando, come e se i fondi saranno disponibili. Propaggini del progetto appaiono in giornali, riviste, libri e servizi di radiodiffusione qui e all’estero. È un significativo canale unico di comunicazione”, proprio il centro del lavoro di Raymond. Il 4 novembre 1982, Raymond, dopo il trasferimento dalla CIA allo staff del NSC, ma quando era ancora ufficiale della CIA, scrisse al consigliere del NSC Clark sull’“Iniziativa Democrazia e i programmi informativi”, affermando che “Bill Casey mi ha chiesto di passare il seguente pensiero sul vostro incontro con (il miliardario di destra) Dick Scaife, Dave Abshire (allora membro del Foreign intelligence Advisory Board del presidente), e Co. Casey pranzò con loro oggi e discussero la necessità di muoversi nell’area generale per sostenere i nostri amici in tutto il mondo. Tale definizione comprende sia la ‘costruzione democrazia’… che rinvigorire i programmi dei media internazionali. Il DCI (Casey) si preoccupa anche del rafforzamento delle organizzazioni d’informazione del pubblico negli Stati Uniti, come Freedom House… Un pezzo fondamentale del puzzle è un serio sforzo per raccogliere fondi privati per generare slancio. Parlando di Scaife e Co. Casey suggerisce che sarebbero molto disposti a collaborare… Suggeriscono di far notare l’interesse della Casa Bianca nel sostegno privato all’Iniziativa Democrazia”. L’importante nell’organizzare segretamente fondi privati per la CIA e la Casa Bianca era che tali voci apparentemente indipendenti avrebbero rafforzato e convalidato gli argomenti in politica estera dell’amministrazione, con un pubblico che ritenesse che tali decisioni si basavano sul merito delle posizioni della Casa Bianca, e non sull’influenza dei soldi che cambiavano di mano. Come i venditori di olio di serpente che piazzavano complici tra la folla per suscitare entusiasmo nella panacea, i propagandisti dell’amministrazione Reagan assunsero alcuni ben pagati “privati”, nei pressi di Washington, per riprendere i “temi” della propaganda della Casa Bianca. Il ruolo della CIA in tali iniziative fu nascosto, ma non fu mai lontano dalla superficie. Una nota del 2 dicembre 1982 indirizzata a “Bud”, riferimento all’alto funzionario del NSC Robert “Bud” McFarlane, descriveva una richiesta di Raymond per un breve incontro. “Quando (Raymond) tornò da Langley (quartier generale della CIA), aveva una lettera di proposta… per il Progetto Democrazia da 100 milioni di dollari”, affermava la nota. Mentre Casey tirava le fila di tale progetto, il direttore della CIA incaricò i funzionari della Casa Bianca di nascondere la mano della CIA. “Ovviamente ci siamo (della CIA),ma non dovremmo apparire nello sviluppo di tale organizzazione, né sembrarne sponsor o sostenitori”, scriveva Casey in una lettera non datata per l’allora consigliere della Casa Bianca Edwin Meese III, mentre Casey sollecitava la creazione di un “Fondo nazionale” (National Endowment). Ma la formazione del National Endowment for Democracy, con le sue centinaia di milioni di dollari del governo degli Stati Uniti, richiese ancora mesi. Nel frattempo, l’amministrazione Reagan avrebbe dovuto radunare dei donatori privati per far avanzare la propria propaganda. “Svilupperemo uno scenario per ricevere finanziamenti privati” scrisse il consigliere del NSC Clark a Reagan in un appunto del 13 gennaio 1983, aggiungendo che il direttore dell’US Information AgencyCharlie Wick si è offerto di prendere l’iniziativa. Potremmo dovervi richiamare per incontrare un gruppo di potenziali donatori”. Nonostante il successo di Casey e Raymond nell’arruolare ricchi conservatori per i finanziamenti privati delle operazioni di propaganda, Raymond era preoccupato che lo scandalo potesse scoppiare sul coinvolgimento della CIA. Raymond si dimise formalmente dalla CIA nell’aprile 1983 così, disse, “non ci sarebbe alcun dubbio su una qualsiasi contaminazione”. Ma Raymond continuò ad agire verso il pubblico degli Stati Uniti similmente a un ufficiale della CIA che dirigeva un’operazione di propaganda in un Paese straniero ostile. Raymond si agitò anche sulla legittimità del ruolo continuo di Casey. Raymond confidò in una nota che era importante “escludere (Casey) dal giro”, ma Casey non fece mai marcia indietro e Raymond continuò ad inviare relazioni al suo vecchio capo fino al 1986. Fu “il genere di cose che (Casey) aveva ampio interesse da cattolico”, Raymond alzò le spalle durante la deposizione Iran-Contra, e poi avanzò la scusa che Casey avesse intrapreso tale interferenza chiaramente illegale in politica interna “non tanto in quanto capo della CIA, ma come capo-consigliere del presidente”.

Propaganda in tempo di pace
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Nel frattempo, Reagan iniziò a porre l’autorità formale su tale inaudita burocrazia propagandistica in tempo di pace. Il 14 gennaio 1983, Reagan firmò la National Security Decision Directive 77, dal titolo “Gestione della diplomazia pubblica relativa alla sicurezza nazionale”. Nella NSDD-77, Reagan riteneva “necessario rafforzare organizzazione, pianificazione e coordinamento dei vari aspetti della diplomazia pubblica del governo degli Stati Uniti”. Reagan ordinò la creazione di un gruppo di pianificazione speciale nel Consiglio di Sicurezza Nazionale per dirigere queste campagne di “diplomazia pubblica”. Il gruppo di progettazione sarebbe stato diretto da Walter Raymond e uno dei suoi avamposti principali sarebbe stato il nuovo Ufficio di Diplomazia Pubblica per l’America Latina, presso il Dipartimento di Stato, ma controllato dal NSC. (Uno dei direttori dell’ufficio diplomazia pubblica latino-americano fu il neoconservatore Robert Kagan, che più tardi avrebbe co-guidato il Progetto per il Nuovo Secolo Americano, nel 1998, divenendo il primo promotore dell’invasione dell’Iraq presso il presidente George W. Bush, nel 2003). Il 20 maggio 1983, Raymond raccontò in una nota che 400000 dollari furono raccolti dai donatori privati presso la Situation Room della Casa Bianca dal direttore dell’US Information Agency Charles Wick. Secondo tale nota, il denaro fu diviso tra le diverse organizzazioni, come Freedom House e Accuracy in Media, un’aggressiva organizzazione mediatica di destra. Quando scrissi di quella nota nel mio libro del 1992, Ingannare l’America, Freedom House negò di aver ricevuto denaro dalla Casa Bianca o di collaborare con qualsiasi campagna propagandistica di CIA/NSC. In una lettera di Freedom House, Sussman chiamò Raymond “fonte di seconda mano” e insisté che “questa organizzazione non ha bisogno di alcun finanziamento speciale per prendere posizioni… su tutte le questioni di politica estera”. Ma non aveva senso che Raymond mentisse ad un superiore in un memorandum interno. Chiaramente, Freedom House era al centro dei piani dell’amministrazione Reagan per aiutare i gruppi di sostegno alle sue politiche in America Centrale, in particolare la guerra dei Contra organizzata dalla CIA contro il regime sandinista in Nicaragua. Inoltre, i documenti della Casa Bianca rilasciati in seguito rivelavano che Freedom House continuava ad aver la sua parte nei finanziamenti. Il 15 settembre 1984, Bruce McColm, scrivendo dal Centro Studi Caraibi e America Centrale della Freedom House, inviò a Raymond “una breve proposta di progetto sul Nicaragua del Centro per il 1984-1985. Il progetto combina elementi della proposta di storia orale con la pubblicazione di documenti sul Nicaragua”, un libro che doveva screditare l’ideologia e le pratiche dei sandinisti. “Mantenere la parte della storia orale del progetto aumenta i costi complessivi; ma le discussioni preliminari con i registi mi hanno dato l’idea che un improprio documentario potrebbe essere girato sulla base di questi materiali”, scrisse McColm, riferendosi ad un film del 1984 che criticava ferocemente la Cuba di Fidel Castro. “Un film del genere avrebbe dovuto essere il lavoro di un rispettato regista latinoamericano o europeo. I film statunitensi sull’America Centrale sono semplicemente ideologicamente rozzi ed artisticamente scarsi”. Nella lettera di tre pagine di McColm si legge qualcosa di molto simile a un passo di un libro o film, cercando d’interessare Raymond nel finanziamento del progetto: “I Quaderni del Nicaragua saranno anche facilmente accessibili al lettore comune, al giornalista, opinionista, al mondo accademico e simili. Il libro sarà distribuito equamente in generale in questi settori e sono sicuro che sarà estremamente utile. Già costituiscono una forma di samizdat della Freedom House, dato che li distribuisco ai giornalisti negli ultimi due anni, mentre lo ricevo da nicaraguensi scontenti”. McColm propose un faccia a faccia con Raymond a Washington e allegò una proposta di sei pagine per la concessione di 134100 dollari. In base alla proposta, il progetto doveva includere “la distribuzione gratuita ai membri del Congresso e ai principali funzionari pubblici; distribuzione nelle gallerie, prima della pubblicazione, per la massima pubblicità e recensioni tempestive su giornali e riviste di attualità; conferenze stampa della Freedom House a New York e presso il National Press Club di Washington DC; articolo da fare circolare in più di 100 giornali…; distribuzione di un’edizione in spagnolo nelle organizzazioni ispaniche negli Stati Uniti e in America Latina; disposizione della distribuzione in Europa attraverso i contatti della Freedom House”. I documenti che ho trovato nella biblioteca Reagan non indicano cosa poi successe a questa specifica proposta. McColm non rispose ad una richiesta via e-mail di commento in merito al piano sui documenti nicaraguensi o la precedente lettera di Cherne (morto nel 1999) a Casey sulla modifica del manoscritto di McComb. Freedom House fu il principale critico del governo sandinista del Nicaragua e divenne anche uno dei maggiori destinatari del denaro del National Endowment for Democracy finanziato degli Stati Uniti, fondato nel 1983 sotto l’egida del piano Casey-Raymond.
Gli ultimi documenti resi pubblici, declassificati tra il 2013 e il 2017, mostrano come questi sforzi Casey-Raymond si fusero creando una formale burocrazia PSYOP nel 1986, sempre sotto il controllo operativo di Raymond nel NSC. La combinazione dei programmi di propaganda e PSYOP sottolinea la potenza che il governo degli Stati Uniti, sviluppato più di tre decenni fa, nel diffondere notizie tendenziose, distorte o false. (Casey è morto nel 1987; Raymond nel 2003). Nel corso di questi decenni, anche se la Casa Bianca è passata da repubblicani ai democratici e dai repubblicani ai democratici, lo slancio creato da William Casey e Walter Raymond ha continuato a perpetrare tali strategie di “gestione delle percezione/PSYOPS”. Negli ultimi anni, la formulazione è cambiata, lasciando il posto ad eufemismi più piacevoli come “smart power” e “comunicazioni strategiche” ma l’idea è sempre la stessa: come utilizzare la propaganda per spacciare la politica del governo degli Stati Uniti all’estero e in patria.

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Reagan, Charles Wick, Stephen Rhinesmith, Don Regan, John Poindexter, George Bush, Jack Matlock e Walter Raymond

Il giornalista investigativo Robert Parry rivelò l’Iran-Contra presso The Associated Press e Newsweek negli anni ’80. È possibile acquistare il suo ultimo libro America’s Stolen Narrative qui e presso Barnes and Noble.

Traduzione di Alessandro Lattanzio – SitoAurora
 

Mafia, camorra e ‘ndrangheta: come il Meridione (e l’Italia) fu infettato dagli inglesi
Scritto il 9 marzo 2017 by Federico Dezzani
Twitter: @FedericoDezzani

“Sicilia e mafia”, “Campania e camorra”, “Calabria e ‘ndragheta” sono accostamenti triti e ritriti, spesso impiegati per dipingere l’intera Italia come un Paese mafioso, corroso dal crimine, e quindi da collocare ai margini del sistema internazionale, tra gli Stati semi-falliti. È dal 1861 che il Paese affronta il problema mafioso e da allora sono state condotte migliaia di inchieste, scritti migliaia di libri, elaborate migliaia di analisi economiche e sociali: ma è possibile affrontare la questione in termini geopolitici? È possibile cavare un’asciutta verità dall’enorme e amorfa quantità di materiale concernente le mafie? Mafia, camorra e ‘ndgrangheta sono società segrete paramassoniche, inoculate dagli inglesi all’inizio dell’Ottocento per destabilizzare il Regno delle Due Sicilie e trasmesse all’Italia post-unitaria per minare lo Stato e castrarne la politica mediterranea.

Mafie e massoneria speculativa: come Londra rovesciò il Regno delle Due Sicilie
Nella nostra recente analisi sul biennio 1992-1993 che decretò il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica, abbiamo toccato il tema della mafia, smontando la tesi dominante sul quel cruciale periodo della storia italiana: alla base delle stragi in Sicilia e “sul continente”, non ci fu il braccio di ferro tra malavita e Stato sul 41 bis, ma un più ampio ampio ed ambizioso progetto con cui “le menti raffinatissime” vollero ridisegnare la mappa economica e politica dell’Italia, inserendola nella più vasta cornice del Nuovo Ordine Mondiale. L’omicidio dell’eurodeputato Salvo Lima va collegato alla cruciale elezione del Presidente della Repubblica di quell’anno; l’omicidio di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sono analoghi ammonimenti lanciati al Parlamento, ma allo stesso tempo sono anche un avvertimento alla giustizia italiana affinché si fermi al livello “insulare” delle indagini, senza approfondire i legami tra Cosa Nostra ed i servizi segreti della NATO; le bombe del 1993 sono un “lubrificante” per consentire agli anglofili del Britannia di smantellare a prezzi di saldo l’IRI e l’industria pubblica.

In questo contesto, la mafia è uno strumento dell’oligarchia atlantica per perseguire obiettivi addirittura in contrasto con gli interessi di Cosa Nostra: è infatti assodato che la stagione stragista debilitò gravemente Cosa Nostra, “spremuta” nella strategia della tensione del 1992-1993 fino quasi a svuotarla. Allargando l’analisi, non si può certo definire un’eccezione l’impiego del crimine organizzato da parte degli angloamericani: anzi, sembrerebbe quasi una costante della storia italiana. Del biennio 1992-1993 abbiamo detto a sufficienza: passiamo ora in rassegna gli altri momenti cruciali del Bel Paese, verificando se ci sia o meno lo zampino della malavita.

Sequestro di Aldo Moro, 16 marzo 1978: è ormai appurato che la ‘ndrangheta abbia partecipato al commando12 che rapì il presidente della DC, reo di turbare gli assetti internazionali con la sua apertura al PCI. Non solo, il capo della Nuova Camorra Organizzata, Raffaele Cutolo, ha ammesso che avrebbe potuto salvare Moro se i servizi segreti non si fossero opposti3. Piazza Fontana, 12 dicembre 1969: la strage che inaugura la strategia della tensione è perpetrata dalla destra eversiva di Franco Freda, in stretto contatto con la ‘ndrangheta. Omicidio di Enrico Mattei, 1962: è Cosa Nostra a sabotare all’aeroporto di Catania Fontanarossa4 il velivolo su cui trovò la morte il presidente dell’ENI, scomodo alle Sette Sorelle. Sbarco angloamericano in Sicilia del 1943: è il mafioso Lucky Luciano a facilitare la conquista dell’isola e papaveri di Cosa Nostra presenziano anche all’armistizio di Cassibile, che sancisce la fine delle ostilità tra l’Italia e gli Alleati. Sbarco di Giuseppe Garibaldi a Marsala, 1860: i “picciotti” danno un contributo determinante alla spedizione di Mille, benedetta e protetta da Londra.

Cosa sono dunque la mafia, la camorra e la ‘ndragheta? Perché affiorano in tutti i passaggi della storia italiana a fianco di Londra e Washington. Perché sono sovente associate ad un’altra organizzazione segreta di matrice anglosassone, la massoneria speculativa?

Sul crimine organizzato che flagella il Meridione e l’Italia sin dal 1861 sono state condotte migliaia di inchieste giudiziarie, diverse inchieste parlamentari, sono stati scritti migliaia di libri e girati migliaia di film e documentari: ci campano non soltanto i malavitosi, ma anche i “professionisti dell’antimafia” che pullulano nei tribunali, pennivendoli del calibro di Roberto Saviano ed il variegato mondo di preti, intellettuali e soloni che ruota attorno alla “lotta alla mafia”. Toccare l’argomento non sarebbe solo inutile, ma addirittura dannoso, se non fosse possibile dare un contributo originale e chiarificatore: si rischierebbe soltanto di alzare altra polvere. È il mestiere, detto per inciso, per cui sono profumatamente pagati giornalisti, pubblici ministeri, politici e membri delle forze dell’ordine. Se anche noi quindi ci occupiamo di Cosa Nostra e delle sue sorelle, è perché abbiamo la presunzione di avere perlomeno intuito la vera natura del crimine organizzato: la vera natura di quella mafia che, come notò lo stesso Giovanni Falcone, presenta forti analogie con le Triadi cinesi, la malavita turca e la Yakuza giapponese.

Servendoci del solito procedimento di comparazione con realtà simili, di un respiro storico più che giornalistico e di un approccio “geopolitico”, indispensabile per capire quali attori operano in una determinata area e quali sono i loro interessi, siano giunti alla nostra definizione di mafia, camorra ed ‘ndragheta: sono società segrete paramassoniche dedite al crimine, vere e proprie “sette” che rispondono alle logge inglesi ed americane, sin dalla loro origine agli inizi dell’Ottocento. Sia chiaro: è una verità perfettamente nota agli “addetti ai lavori” (vertici della mafia, politici, Grande Oriente d’Italia, CIA, MI6, etc. etc.), spesso intuita e talvolta accennata da onesti magistrati e seri studiosi. Non ci risulta però che nessuno abbia sinora affrontato l’argomento in maniera così esplicita ed organica come stiamo per fare, colmando così quella che ci sembra una lacuna dell’autocoscienza nazionale.

Cominciamo col porre il quesito chiave: perché le mafie si sviluppano in tre regioni meridionali quasi contemporaneamente, tra gli anni ‘10 e ‘30 dell’Ottocento? Le risposte più frequenti, quelle fornite per stendere una cortina attorno al fenomeno, sono di natura socio-economica e si ripetono ossessivamente dal 1861 ad oggi: l’arretratezza del Meridione, il retaggio della dominazione spagnola, la presenza del latifondo, le mentalità della popolazione, la diffusione di miseria e povertà, etc. etc.. Sono risposte fuorvianti, se non errate tout court: il reddito pro-capite del Regno delle Due Sicilie era paragonabile a quello del resto d’Italia5, la povertà simile a quella di alcune zone del Piemonte e del Veneto che non produssero crimine organizzato, la dominazione spagnola aveva interessato pure la “civilissima” Lombardia e altre regioni meridionali persino più povere (come il Molise e la Basilicata) non conobbero le mafie, che germogliarono invece in due ricche capitali come Palermo e Napoli.

Per scoprire le autentiche origini del fenomeno mafioso occorre tuffarsi nella storia, accantonando analisi pseudo-economiche, per afferrare le forze vive e la geopolitica dell’epoca: è lo stesso procedimento che abbiamo usato per dimostrare come l’ISIS, il sedicente Stato Islamico dell’Iraq e del Levante, non sia altro che uno strumento degli angloamericani per balcanizzare il Medio Oriente e dividerlo lungo faglie etniche e religiose, piuttosto che il frutto spontaneo del fondamentalismo islamico o la naturale conseguenza dei “regimi dittatoriali”.

Tra la fine del Settecento ed i primi anni dell’Ottocento, il mondo è in fiamme per la guerra tra Francia rivoluzionaria e le altre monarchie europee: la rivoluzione francese, in cui Londra ha giocato un ruolo determinante (si pensi agli “anglofili” come Honoré Mirabau, il Marchese de La Fayette e Philippe Égalité), è sfruttata dagli inglesi per liquidare la Francia come grande potenza marittima, estendere i propri domini in India e rafforzare l’egemonia su un’area chiave del mondo: il Mar Mediterraneo, da unire in prospettiva al Mar Rosso ed all’Oceano Indiano con il canale di Suez. Il Regno di Napoli, di fronte all’avanzata delle truppe rivoluzionarie francesi, è costretto ad aprire i propri porti alla flotta inglese, senza sapere che, così facendo, firma la sua condanna a morte: gli inglesi sbarcano infatti coll’obiettivo di rimanerci anche dopo la guerra, installandosi così nello strategico Sud Italia che presidia il Mar Mediterraneo. Per un certo periodo, gli inglesi diventano addirittura padroni del Regno: quando infatti il francese Gioacchino Murat si insedia a Napoli, il re Ferdinando IV si rifugia in Sicilia protetto dagli inglesi e Lord William Bentinck governa l’isola come un dittatore de facto.

Arriviamo così alle origini di Cosa Nostra. Scrive un grandi esperto di mafia come Michele Pantaleone (1911-2002):

“Il brigantaggio, comune alla Sicilia come al resto dell’Italia meridionale, si risolveva nell’attività di bande mal coordinate e spesso contrapposte (…). Soltanto dopo il 1812, quando il potere feudale venne praticamente eliminato, il brigantaggio per bande assunse una funzione, per così dire, sociale. È storicamente documentato che lo spirito di mafiosità sorse in concomitanza con la formazione delle famigerate compagnie d’armi, create dalla baronia siciliana nel 1813 a difesa dei diritti feudali. (…) È in questo periodo, dunque, che – tra il 1812 ed il 1850 – prende forma lo spirito di mafiosità. Il suo epicentro è nel palermitano e di qui si irradia verso la Sicilia orientale con manifestazioni più sfumate, via via che si allontana dalla capitale.”

Il 1812 è un anno citato in tutti i testi di storia sulla mafia. È l’anno in cui il “dittatore” Lord William Bentinck impone al re esule a Palermo l’adozione di una Costituzione sulla falsariga di quella inglese, in comune accordo con i baroni siciliani: gli stessi baroni che creano quelle “compagnie d’armi”, prodromi della futura mafia. Strane davvero queste “compagnie”, “consorterie” o “sette” che iniziano a pullulare dopo il 1812: presentano singolari analogie con la massoneria speculativa che gli inglesi innestano ovunque arrivino: segretezza, statuti, rituali d’iniziazione, mutua assistenza, diversi gradi di affiliazione, livelli sconosciuti agli altri aderenti. E poi la pretesa di non essere volgari criminali, ma “un’aristocrazia del delitto riconosciuta, accarezzata ed onorata”, proprio come i massoni si definiscono gli “aristocratici dello spirito” in contrapposizione all’antica nobiltà di sangue. “Mafia” nei rioni di Palermo significa “bello, baldanzoso ed orgoglioso”.

La Restaurazione reinsedia Ferdinando IV, ora Ferdinando I delle Due Sicilie, sul trono di Napoli. Il re non perde tempo a revocare (1816) la Costituzione scritta dagli inglesi, considerata come un’insidiosa minaccia alle sue prerogative: i germi inoculati dagli inglesi, le misteriose sette criminali che dalla periferia di Napoli e Palermo si irradiano verso i palazzi di baroni e notabili però crescono. Corrodono il Regno delle Due Sicilie dall’interno, emergendo come un vero Stato nello Stato: trascorreranno poco meno di cinquantanni prima che contribuiscano in maniera determinante allo sfaldamento del Regno borbonico. È tra il 1820 ed il 1830 che lo scrittore Marc Monnier (1829-1885) situa la comparsa a Napoli di una misteriosa setta paramassonica, la “bella società riformata”, dedita ad attività illecite: è la futura camorra, che nel 1842 scrive il primo statuto definendo i vari gradi di affiliazione sulla falsa riga della libera muratoria, da “giovanotto onorato” a “camorrista”, passando per “picciotto di sgarro” e così via. Quasi contemporaneamente, al di là dello Stretto di Messina, la mafia è già ad uno stadio avanzato, perché nel 1828 il procuratore di Girgenti scrive dell’esistenza di un’organizzazione di oltre 100 membri di diverso rango, “riuniti in fermo giuramento di non rilevare mai menoma circostanza delle operazioni”. Idem per la ‘ndrangheta in Calabria.

Nel 1848 Londra incendia l’Europa usando come cinghia di trasmissione la solita massoneria speculativa: è la “Primavera dei popoli”, cui seguiranno tante altre primavere di complotti, da quella di Praga del 1968 a quella Araba del 2011. Nel Mar Mediterraneo gli inglesi si adoperano per staccare la Sicilia, avamposto strategico per ogni operazione militare e politica in quel quadrante, dal Regno Borbonico: i “baroni”, gli stessi che comandano le malfamate “compagnie d’armi”, insorgono contro Ferdinando II, proclamando decaduta la corona borbonica ed affidandosi alla corona d’Inghilterra, disposta a difendere l’indipendenza dell’isola. Il contesto internazionale non è però favorevole alla secessione dell’isola e Ferdinando II reprime manu militari l’insurrezione, guadagnandosi l’appellativo di “re bomba”, dipinto dalla stampa anglosassone come un sanguinario ed illiberale despota. Le carceri, che già allora sono il principale centro di propagazione delle mafie, si riempono di patrioti-liberali e “picciotti”, uniti dal comune retroterra massonico: si saldano così legami che saranno presto utili.

I rapporti tra Napoli e Londra, già deterioratesi con la questione degli zolfi, sono ai minimi termini, convincendo che Ferdinando II che è opportuno rafforzare i legami con la Russia, allora acerrima rivale geopolitica degli inglesi : sono gli anni del Grande Gioco e Londra e San Pietroburgo si sfidano in Eurasia per l’egemonia mondiale.

Quando nel 1853 scoppia la guerra di Crimea, il Regno delle Due Sicilie rimane rigorosamente neutrale e nega addirittura alle navi inglesi e francesi dirette verso Sebastopoli di attraccare nei propri porti per rifornirsi. Il primo ministro inglese, Lord Palmerston, non ha dubbi: il Regno Borbonico, nonostante la grande distanza geografica, è diventato un vassallo della Russia. Chi partecipa alla “Guerra d’Oriente” è invece il Regno di Sardegna, consentendo così al primo ministro, Camillo Benso, conte di Cavour, di acquisire un ruolo da protagonista nell’ormai imminente riassetto dell’Italia: la storiografia certifica che Cavour, da buon reapolitiker qual è, non ha in mente “l’unità” della Penisola, bensì “l’unificazione” doganale, economica e militare di tre regni autonomi. Il Regno sabaudo allargato a tutto il Nord Italia, lo Stato pontificio ed il Regno borbonico: la soluzione, seppur caldeggiata da francesi e russi, è però osteggiata dagli inglesi, decisi a cancellare il potere temporale della Chiesa Cattolica e a sostituire gli infidi Borbone con i più sicuri Savoia, tradizionali alleati dell’Inghilterra sin dal Settecento.
 
È infatti “l’inglese” Giuseppe Garibaldi, l’eroe dei due mondi celebrato dalla stampa angloamericana nonché 33esimo grado della massoneria, a sbarcare nel maggio del 1860 a Marsala, feudo inglese per la produzione di vino, protetto dalle due cannoniere inglesi Argus ed Intrepid. La reazione della marina militare borbonica è nulla, perché la massoneria ha ormai assunto il controllo delle forze armate e dei vertici dello Stato. Le strade e le grandi città sono invece passate sotto il controllo del crimine organizzato: “i picciotti”, che agiscono sempre in sintonia con i “baroni”, danno un aiuto determinante all’avanzata dei Mille. Il Regno delle Due Sicilie, svuotato da uno Stato parallelo che è cresciuto dentro lo Stato di facciata, si squaglia rapidamente: Reggio Calabria non oppone alcuna resistenza, mentre Napoli precipita nel caos, lasciando che il vuoto di potere sia colmato la camorra, lieta di accogliere Garibaldi e le sue truppe. Nasce così il Regno d’Italia, che ancora oggi paga il prezzo del suo peccato originale. È uno Stato strutturalmente debole, nato senza possedere il monopolio della violenza, costretto a convivere con due gemelli siamesi, le mafie e la massoneria speculativa, che non solo altro che meri strumenti in mano a chi ha davvero orchestrato l’Italia unita: l’impero britannico.

Londra non è certo animata da nobili sentimenti: ha defenestrato i russofili Borbone per sostituirli con i fedeli Savoia, ha creato a Sud delle Alpi una media potenza da opporre alla Francia (si veda la Triplice Alleanza), ha partorito uno Stato sufficientemente robusto da reggersi in piedi, ma altrettanto debole da non insidiare la sua egemonia sul Mar Mediterraneo. Le stesse mafie che hanno corroso il Regno delle Due Sicilie sono lasciate infatti in eredità allo Stato unitario: è un’eredità avvelenata, finalizzata a compiere una perdurante opera di destabilizzazione nel Meridione, cosicché non possa mai sfruttare il suo enorme potenziale geopolitico di avamposto verso Suez, il Levante ed il Nord Africa.

Le mafie come strumento inglese di destabilizzazione non sono una peculiarità del Sud Italia. Si considerino ad esempio le Triadi Cinesi che smerciano nell’Impero Celeste quell’oppio per cui Londra ha addirittura combattuto una guerra (1839-1842): le analogie con la mafia, come già notato da Giovanni Falcone, sono incredibili. Tatuaggi, mutua assistenza, omertà, segretezza, riti d’iniziazione, diversi gradi di affiliazione, struttura piramidale: anche le Triadi sono sette criminali paramassoniche e, non a caso, quando i comunisti prenderanno il potere nel 1949, ripareranno nella colonia britannica di Hong Kong.


Il vice-Regno della mafia”, il prefetto Mori ed il secondo sbarco mafioso
Scrive lo storico Domenico Novacco:

“La storia della mafia coincide con l’introduzione dell’ordinamento liberale e democratico nella comunità civile (…). Lo stato liberale e democratico enuncia diritti (statuti e costituzioni) ed assume l’impegno di farli valere ugualmente verso tutti. Di fronte a tale “pretesa” la mafia si configura, nello stato liberale, come un quid anomalo, come un conato di potere locale, come un mini-stato che non si eleva mai al rango di antistato, ma solo di co-stato, condizione ammessa, eccezione consentita e tollerata”.

Mafia ed “ordinamento liberale”, si è visto con la costituzione del 1812 patrocinata da Lord William Bentinck, procedono di pari passo. Non c’è alcun dubbio che “l’Italia liberale” fondata nel 1861 sia terreno fertile per lo sviluppo del crimine organizzato: mafia, camorra ed ‘ndrangheta si sviluppano nelle rispettive regioni come Stati paralleli a quello unitario, prosperando più che ai tempi del Regno delle Due Sicilie: massoneria e mafie, benedette da Londra, sono i motori dell’Italia liberale, un edificio che sembra spesso vicino al crollo, totalmente ripiegato su se stesso. La mafia contribuisce a mantenere l’Italia in un perenne stato di fibrillazione, guidando ad esempio la rivolta del “sette e mezzo” che paralizza la Sicilia nel 1866, quasi l’antefatto di quel 1992 che abbiamo recentemente analizzato.

Il fenomeno mafioso è contenuto finché la Destra storica, quella di Cavour, resta al potere, ma esplode con l’avvento nel 1876 della Sinistra storica: sotto la presidenza del consiglio di massoni come Agostino Depretis e Francesco Crispi, è inaugurato il “Vice-Regno della mafia” che dal 1880 circa si estende fino al 1920. “Lo Stato liberale abdica a favore del baronato” e l’intera Sicilia, formalmente governata da Roma, è in realtà un feudo anglo-mafioso: Londra non ha bisogno di staccare l’isola del governo centrale come ai tempi di Ferdinando II, perché esercita il controllo de facto con la “setta” criminale paramassonica. È la stessa organizzazione che negli Stati Uniti assume nomi evocativi come “Mano Nera” o “Anonimi Assassini”: quando nel 1909 il commissario delle polizia di New York, Joseph Petrosino, sbarca a Palermo per indagare sui legami tra mafia americana e siciliana, “i picciotti” non si fanno scrupoli a sparargli in testa.

Il trasformismo parlamentare dell’epoca giolittiana è terreno fertile per la malavita, determinante per l’elezione degli onorevoli espressi dalle popolose regioni meridionali. Un cambiamento si registra dopo la marcia su Roma del 1922: è vero che Benito Mussolini, un vecchia conoscenza di Londra sin dalla Prima Guerra Mondiale e dalla campagna interventista del “Popolo d’Italia”, conquista la presidenza del Consiglio con l’appoggio determinante degli inglesi e della massoneria di piazza del Gesù, ma tende ad emanciparsi in fretta.

L’omicidio Matteotti del 1924 può infatti essere considerato il primo tentativo inglese di rovesciarlo ed ha certamente un certo peso sulla decisione del 1925 di abolire la libera muratoria (sebbene numerosi massoni, primo fra tutti, Dino Grandi, restino al governo). Fedele alla massima “tutto nello Stato, niente al di fuori dello Stato, nulla contro lo Stato”, Mussolini non può ovviamente accettare la convivenza con istituzioni parallele al governo, come la mafia. Nell’ottobre 1925 Cesare Mori è nominato prefetto di Palermo e, in poco meno di quattro anni, infligge un duro colpo a Cosa Nostra, avvalendosi dei “poteri eccezionali” affidatigli da Mussolini: nel 1927 il tribunale di Termini Imerese condanna oltre 140 mafiosi a durissime pene. Chi, ovviamente, stigmatizza la condotta del governo italiano è l’Inghilterra. Scrive l’ambasciatore Ronald Graham al premier Chamberlain:

“Il signor Mori ha certamente restaurato l’ordine (…). Ha eliminato numerosi mafiosi e ras ed anche numerosi innocenti con mezzi molto dubbi, comprese prove fabbricate dalla polizia e processi di massa.”

Mafie e massoneria, sorelle inseparabili, piombano quindi “nel sonno”, in attesa di essere risvegliate al momento opportuno: proprio come ai tempi delle guerre napoleoniche, sbarcheranno in Sicilia con gli inglesi, accompagnati questa volta anche dalle forze armate statunitensi.

È il 1943 e la mafia non solo facilita lo conquista dell’isola attraverso Lucky Luciano, ma addirittura presenzia alla firma dell’armistizio di Cassibile nella persona di Vito Guarrasi, lontano parente di Enrico Cuccia (la cui famiglia è originaria del palermitano). Finché il “continente” è occupato dai tedeschi, gli angloamericani coltivano la ricorrente idea di separare la Sicilia dal resto dell’Italia: è il momento d’oro del separatismo e del bandito Giuliano, destinato a scemare man mano che le truppe alleate risalgono la penisola. Perché infatti accontentarsi della Sicilia se, come ai tempi d’oro dell’Italia liberale, è possibile costruire dietro lo Stato di facciata un secondo Stato, retto dalle mafie a dalla massoneria?

Inizia così la lunga stagione dei “misteri italiani” dove mafia, camorra e ‘ndrangheta, figureranno a fianco di servizi segreti “deviati” e logge massoniche in decine di omicidi ed attentati: dal disastro aereo di Enrico Mattei alle bombe del 1993, dal sequestro Moro al rapimento dell’assessore campano, Ciro Cirillo. Come abbiamo appurato, il fenomeno rientra nella norma, perché sin dalle origini nella prima metà dell’Ottocento le mafie non altro che società segrete paramassoniche, dedite al crimine ed obbedienti alle logge inglesi ed americane. Ha affermato il pentito Giovanni Gullà, spiegando agli inquirenti i meccanismi di “Mamma Santissima”, la nuova ‘ndrangheta che contribuirà in maniera decisiva alla strategia della tensione:

“La “Santa” si spiega nella logica della “setta segreta”: si è inteso creare una struttura di potere sconosciuta agli altri per ottenere maggiori benefici. (…) Posso affermare con convinzione che la santa, come setta segreta, è l’esatto corrispondente della massoneria coperta rispetto a quella ufficiale. (…) Va chiarito che l’appartenente alla ‘ndrangheta non può essere massone, ma questo vale per la ‘ndrangheta “minore” e la massoneria pubblica. Ma come ho già detto la “Santa” rappresenta una struttura segreta dentro la stessa ‘ndrangheta, pertanto se il fine mutualistico può essere soddisfatto con l’ingresso con l’ingresso di massoni nella struttura e viceversa, nessun ostacolo può essere frapposto”.

La “santa” è l’élite della ‘ndrangheta, costituita negli anni ‘70 nel nome di tre personaggi storici, tutti risalenti al Risorgimento, tutti massoni, tutti ottime conoscenze di Londra: Giuseppe Garibaldi, Giuseppe Mazzini e Giuseppe La Marmora.

Si è detto come l’avanzata delle mafie sia coincisa con l’espandersi dell’ordine “liberale”, che fu pax britannica dalla guerre napoleoniche sino al 1945 e pax americana dal 1945 ad oggi. È un sistema internazionale entrato ormai in crisi irreversibile, schiacciato dalla crisi del capitalismo anglosassone e dall’emergere di nuove potenze. Lo sfaldamento dell’egemonia angloamericana dovrebbe essere sfruttato per liquidare anche quelle società segrete paramassoniche che da due secoli corrodono il Meridione e l’Italia, impedendo di sfruttarne l’enorme potenziale come ponte naturale tra Europa ed Asia.



Bibliografia
Mafia e Droga, Michele Pantaleoni, Einaudi, 1966

Mafia ieri, Mafia oggi, Domenico Novacco, Feltrinelli, 1972

Breve storia della mafia, Rosario Minna, Editori Riuniti, 1984

Il Regno delle Due Sicilie e le Potenze europee, Eugenio Rienzo, Rubbettino, 2012

Atlante delle Mafie, AAVV, Rubbettino, 2013

Italia Oscura, Giovanni Fasanella e Antonella Grippo
 
Orizzonte48
Le Istituzioni riflettono la società o esse "conformano" la società e ne inducono la struttura? In democrazia, la risposta dovrebbe essere la prima. Ma c’è sempre l'ombra della seconda...il "potere" tende a perpetuarsi, forzando le regole che, nello Stato "democratico di diritto" ne disciplinano la legittimazione. Ultimamente, poi, la seconda si profila piuttosto...ingombrante, nella sintesi "lo vuole l'Europa". Ma non solo. Per capire il fenomeno, useremo la analisi economica del diritto.































giovedì 30 marzo 2017
IL "CONTO" DELLA BREXIT SULLA CONTRIBUZIONE ITALIANA ALL'UE: IL "REBATE" E LA DIMINUZIONE DEL REDDITO COMPLESSIVO DELL'UNIONE EUROPEA [/paste:font]


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Il principio a cui si ispira la procedura di uscita dall'UE in base all'art.50 TUE (c.d. "clausola di recesso" secondo la procedura attivata appunto dalla May in questi precisi giorni), è che (sintesi ufficiale del par.3): "I trattati cessano di essere applicabili al paese interessato a decorrere dalla data di entrata in vigore dell'accordo di recesso o due anni dopo la notifica del recesso. Il Consiglio può decidere di prolungare tale termine".
Per il Regno Unito, dunque, le obbligazioni di contribuzione al bilancio UE rimangono operative fino all'entrata in vigore dell'accordo, per un periodo di almeno due esercizi di bilancio (salvo proroghe).
Ma è anche da tenere conto che lo stesso accordo di recesso può regolare tali obbligazioni in modo diverso da tale previsione, essendo del tutto naturale che impegni finanziari onerosi per il paese uscente, specialmente se contribuente netto come UK, in quanto ultrattivi rispetto alla manifestazione di volontà di recesso, siano oggetto di interesse disponibile e di compromesso tra le parti.

2. Ad un contribuente netto, cioè a uno Stato-membro che dà al bilancio UE più risorse di quante in ogni caso ne riceverà (nello stesso esercizio e, complessivamente, in modo cumulativo, nell'attuazione pluriennale del quadro finanziario dell'azione "comune"), infatti, può difficilmente opporsi come misura dissuasiva (dal recesso) la sospensione dei pagamenti relativi ai vari fondi UE che attuano le politiche di bilancio rispetto a quello stesso Stato (contribuente netto).
Quest'ultimo, infatti, accetterebbe di buon grado tale sospensione dell'erogazione dei fondi UE, se non altro perché non solo riacquisterebbe immediatamente una disponibilità di risorse fiscali proprie maggiori di quelle che perderebbe, ma anche perché potrebbe disporre di tali risorse secondo la propria piena sovranità di politica fiscale non dovendo più vincolare la destinazione dei fondi stessi, all'interno del proprio territorio, alle finalità stabilite in modo accentrato e "eteronomo" dalle istituzioni UE.
Quindi, ad un contribuente netto, com'è anche l'Italia, è difficile prospettare un'immediata mancanza di convenienza economico-fiscale ad uscire dall'UE e la "ritorsione" euro-finanziaria è, in partenza, un'arma spuntata.

3. Ci siamo imbattuti in uno studio apposito sugli effetti di bilancio della Brexit, il cui svolgimento è abbastanza complesso, dato che estremamente verbose e poco chiare e coordinate, specie in relazione a problemi sopravvenuti di mutamento del quadro dei paesi aderenti all'UE, sono le stesse disposizioni dei trattati; cfr; artt.310-325 TFUE:
Le alternative che si pongono a fronte della Brexit, sempre considerando che la stessa permanenza degli obblighi di contribuzione del Regno Unito per tutto il periodo di svolgimento delle trattative sull'accordo di recesso possono legittimamente essere materia di negoziazione, potrebbero essere due: la prevedibile uscita del Regno Unito dall’Unione Europea (UE), con modi e tempi ancora tutti da stabilire, avrà sensibili ripercussioni sul bilancio comunitario e sulle risorse disponibili per la politica agricola comune (Pac). Come osserva Matthews nei suoi numerosi contributi sul tema (vedi Cap Reform 20161), il Regno Unito ha giocato fino ad oggi un ruolo centrale nel processo decisionale relativo al bilancio comune e alle scelte sulla Pac, per diversi motivi. Infatti, il peso dei suoi versamenti al bilancio dell’UE lo colloca tra i tra i paesi principali contributori netti, insieme alla Germania, alla Francia e, in misura minore, all’Italia.
Di conseguenza, l’uscita del Regno Unito dall’UE determinerà un processo di riassestamento del bilancio che prevede due ipotesi alternative: la prima è una riduzione complessiva del bilancio in valore assoluto, con un necessario riassestamento delle politiche di spesa; la seconda è un intervento dei restanti Stati membri a copertura dello sbilancio creato dal suo abbandono.
Inoltre, il Regno Unito ha storicamente rappresentato la principale voce di dissenso interna all’Unione, sia sui criteri di formazione e di spesa del bilancio, che sull’allocazione delle risorse per la Pac, aggregando intorno a sé altri partner insofferenti alle scelte comunitarie, ma più piccoli e politicamente meno influenti.
Il suo abbandono, dunque, potrebbe portare a nuovi ed inediti posizionamenti, sia da parte dei grandi contribuenti (la Germania innanzitutto), sia da parte dei più piccoli portatori di tendenze “riformatrici”.
La posizione britannica e la sua tiepida partecipazione all’Unione hanno fatto sì che il Paese ottenesse una correzione di bilancio a suo favore (il cosiddetto rebate), finanziata dagli altri Stati membri e solo parzialmente ricorretta a vantaggio di un numero limitato di Membri meno disponibili a pagare quote ulteriori di contribuzione per “fidelizzare” il partner di oltremanica, secondo uno di quei meccanismi a catena tipici della burocrazia gestionale di Bruxelles.


4. Lo studio che abbiamo appena citato pare propendere per la seconda ipotesi, cioè quella dell'intervento aggiuntivo dei restanti Stati membri, in specie contribuenti netti, a copertura dello sbilancio creato dall'uscita del Regno Unito. Gli effetti sono quantificati, in relazione alle annualità di bilancio in corso di erogazione, nelle due sottostanti tabelle, di cui riportiamo anche il commento di raccordo.
Ma al riguardo, occorre prima fare una precisazione che ha a che vedere con il c.d. "rebate" e quindi con gli effetti, anteriori alla (prossima) Brexit, del "privilegio", ulteriore, di contribuzione al bilancio, spuntato (insieme all'opting-out dall'adesione all'eurozona) dai britannici fin dal 1984.
Il "rebate" ha funzionato così (pur permanendo la condizione di contribuente netto del Regno Unito):
"La crescente dipendenza del bilancio comunitario dal Rnl (reddito nazionale lordo) dei singoli Stati membri ha portato ad un progressivo aumento delle tensioni interne all’Unione, soprattutto da parte dei paesi più ricchi, che contribuiscono di più e che hanno visto progressivamente aumentare lo scompenso tra il proprio contributo al bilancio e il “giusto ritorno” sotto forma di sostegno pubblico di cui sono beneficiari (De Filippis, Sardone, 2010).
Queste tensioni hanno portato, nel tempo, ad introdurre una serie di correttivi “algebrici”, cioè non di natura strutturale ma creati in modo da compensare gli eccessi di sbilancio. Tra questi il più importante è il cosiddetto rebate inglese, su cui ci si accordò nel 1984 (Accordo di Fontainebleau) per ridurre il forte contributo netto britannico nei confronti dell’Unione e per mitigare le posizioni molto critiche spesso assunte dal Regno Unito rispetto alla eccessiva spesa agricola e ai meccanismi di finanziamento dell’UE (Greganti, 2009)3.
D’altra parte, questo primo ed impegnativo intervento di correzione ha generato a cascata altri correttivi.
Inizialmente, infatti, il carico del rimborso effettuato annualmente al Regno Unito veniva ripartito tra tutti gli altri Stati membri, sempre secondo il contributo di ciascuno di essi al Rnl complessivo.
In questo modo, per alcuni paesi – già fortemente contributori netti – si veniva a creare un ulteriore significativo sbilancio che alcuni di essi giudicarono inaccettabile e del quale è stata richiesta una parziale correzione. Di conseguenza, Germania, Paesi Bassi, Austria e Svezia hanno negoziato ed ottenuto un “abbattimento” del loro contributo al rebate inglese pari al 75% del suo ammontare teorico. A questo si aggiungono ulteriori correzioni forfetarie a favore di Danimarca e nuovamente Paesi Bassi, Svezia e Austria. Tutto ciò pesa soprattutto sul bilancio dei rimanenti contributori netti, in particolare Francia e Italia".


5. Dunque, precisato, (per quanto possibile) il quadro generale della formazione e contribuzione al bilancio UE, possono svolgersi alcune osservazioni.
Anzitutto, è da notare, nonostante la già conclamata natura atipica dell'azione del bilancio UE (connessa e conseguente alla ormai evidente non obbligatorietà dell'adesione alla moneta unica, checché ne dicano gli esponenti delle istituzioni UE): tale azione è volta non a compensare gli squilibri commerciali interni all'eurozona creatisi a seguito dell'introduzione della moneta unica, ma solo a redistribuire in funzione dei diversi redditi nazionali dei paesi-membri, dai paesi più ricchi a quelli con reddito "sotto-media".
Quindi, tale azione prescinde, appunto, da qualsiasi logica di compensazione fiscale interna all'area valutaria; e ciò proprio perché il bilancio è esteso ai paesi "con deroga" (di fatto o di diritto: il risultato non cambia ed è normativamente elusivo), che sono essenzialmente i percettori netti, anche se coinvolge stabilmente, in questa stessa condizione di convenienza avulsa dai saldi delle partite correnti, paesi dell'eurozona come la Grecia e, specialmente, la Spagna...

6. Rimane però l'eclatante fatto dell'inerzia negoziale italiana nel tutelare la propria posizione rispetto alla parziale neutralizzazione del "rebate", dato che l'andamento del reddito nazionale italiano e, più che altro, quello della bilancia dei pagamenti e dell'indebitamento fiscale annuo, avrebbero razionalmente consigliato di far valere delle ragioni ben più solide ed economicamente fondate, sul piano della equità sostanziale della contribuzione, rispetto a quelle dei paesi del "nord", animate da ragioni obiettivamente egoistiche e antisolidali, connesse all'ammontare assoluto, rispetto al RNL, delle rispettive contribuzioni ("acuite" dal rebate; mentre per Francia e Italia, appunto, curiosamente non s'è avuta un'attenuazione dell'aggravio).

7. In sintesi, nell'ipotesi di "ricopertura" da parte dei contributori netti degli effetti della Brexit, nella situazione di programmazione di bilancio pluriennale attuale, lasciandosi inalterato l'ammontare complessivo delle erogazioni già programmate e impegnate, ad un'iniziale attenuazione dei saldi di contribuzione (netta) si accompagnerebbe un aggravio per gli anni successivi; e si deve supporre, che ne risulterebbero aggravi crescenti almeno fino al 2020, scadenza dell'attuale programmazione del "quadro finanziario pluriennale".
E' desumibile per l'Italia, un aggravio netto di circa 300 milioni annui per i prossimi 7 anni che si accompagnerebbe, però, ad un guadagno-sgravio (medio annuale) per il pregresso settennio, anch'esso di circa 300 milioni.
Quest'ultimo effetto vantaggioso potrebbe (ma è tutto da vedere e, per la verità, non è affatto politicamente chiaro) essere offerto in compensazione sui futuri impegni, essendo saldi attivi "sopravvenuti" ma corrispondenti a somme che dobbiamo supporre già erogate dallo Stato italiano, col risultato che, correttamente calcolati gli effetti di aggiustamento, si potrebbe ipotizzare una situazione di "pareggio", e quindi di indifferenza contabile, rispetto alla posizione italiana, come conseguenza della Brexit (ove il dare/avere sia correttamente considerato).
Lo studio citato ci offre le seguenti tabelle (di cui riportiamo il commento di raccordo):

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Per la valutazione degli effetti prodotti dalla Brexit, si è quindi provveduto a conteggiare anche i SN senza il Regno Unito, considerandone l’assenza sia dal lato delle entrate che delle uscite. In questa nuova serie, inoltre, sono stati eliminati dai versamenti effettuati al bilancio comunitario tutti i contributi nazionali che hanno consentito la copertura finanziaria del rebate britannico e, a cascata, di tutti gli altri meccanismi di aggiustamento e compensazione ad esso legati.
In questo modo, si può stimare l’effetto Brexit sulle posizioni relative di ciascun Stato membro.
I calcoli sono stati effettuati come media degli esercizi finanziari compresi nel passato periodo di programmazione 2007-2013 e per le prime due annualità di quello in corso (2014 e 20155).
Non si è proceduto, invece, alle simulazioni relative all’intero periodo in corso, sia per la labilità di una stima basata sulla proiezione di due sole annualità ad un intero settennio relativamente alle rubriche di spesa non preassegnate, sia soprattutto per l’estrema variabilità delle previsioni sull’andamento del Rnl dei singoli partner da qui al 2020, la cui entità gioca un ruolo cruciale nel calcolo dell’indicatore, costituendo la chiave di ripartizione prevalente delle entrate di bilancio.
Nelle tabelle 1 e 2 sono illustrati gli effetti di questo esercizio contabile. Il primo elemento che balza agli occhi è che l’uscita del Regno Unito non modifica il segno dei SN dei singoli Stati membri. Questo avviene solo in un numero assai limitato di casi, rappresentati da paesi caratterizzati di volta in volta da una posizione prossima allo zero. Si registrano alcuni sporadici casi di paesi partner che sembrano trarre un vantaggio contabile dalla Brexit, ma la dimensione assoluta delle singole variazioni è nel complesso piuttosto modesta.
Viceversa, la quasi totalità dei paesi con un SN positivo (ndr: id est; dei "percettori netti") vede cambiare in peggio l’entità del suo vantaggio contabile, sebbene solo un numero ristretto modifichi in maniera sostanziale la propria posizione di beneficiario netto, peraltro in misura discontinua tra i periodi osservati. In termini assoluti, le contrazioni più consistenti tendono a concentrarsi nell’ultimo anno osservato e riguardano soprattutto Spagna, Grecia, Portogallo, Polonia e, in misura minore, Irlanda e Repubblica Ceca.


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8. Ma è proprio così scontato, a termini delle norme del trattato (e delle pletoriche fonti regolamentari attuative), che le cose debbano giuridicamente andare così, cioè con una "ricopertura" a carico dei contribuenti netti del venire meno dell'apporto del Regno Unito?
Riassumendo (se abbiamo ben compreso il complicato discorso complessivo dello studio qui citato):
- a rigore di saldi contabili oggetto di potenziale compensazione (che non vi sarebbe ragione di non applicare), la media dei "recuperi" e degli "aggravi" tra due periodi di programmazione finanziaria interni all'arco temporale 2007-2020, dovrebbe porre l'Italia al riparo da effettivi aggravi di contribuzione fino al 2020.
E ciò parrebbe dovuto al venire meno degli effetti distorsivi della differenziazione "maldistributiva", tra contributori netti "nord" e "sud", del "rebate".
- Ma questa teorica conclusione può valere se e solo se l'Italia faccia valere, per gli "storni" contributivi relativi alla media del periodo 2007-2013, un effetto di compensazione: la cattiva gestione degli effetti attenuativi del "rebate", purtroppo, fa temere il contrario (cioè il rischio di un "chi ha avuto ha avuto e chi ha dato ha dato", per tale periodo e il rassegnarsi ad un aggravio netto per il periodo 2014-2020).
- Inoltre, vista la crescente dipendenza del bilancio UE dal reddito nazionale lordo di ciascun paese (cosa che, in realtà si riflette su tutta la gamma delle risorse proprie dell'UE, complessivamente proporzionali all'ammontare delle operazioni economiche che danno luogo alle diverse voci di prelievo UE), il venir meno dell'appartenenza del Regno Unito all'UE, - e quindi della sua (pur "privilegiata") condizione di contributore netto (quasi) proporzionale al suo RNL, che è/era il secondo dellUE, a rigor di logica-, determinerebbe una proporzionale riduzione della stessa "base" imponibile dei prelievi che concretizzano l'ammontare delle risorse proprie dell'UE.
Se si contrae, per l'uscita di un paese dal reddito "importante", il complessivo reddito imputabile all'Unione nel suo complesso, dovrebbe conseguentemente contrarsi l'intero volume del bilancio UE.

9. In pratica, cioè, la somma dei prelievi sugli Stati membri (divenuti 27 anzicché 28), operati in modo tendenzialmente proporzionale al rispettivo RNL, dovrebbe essere complessivamente minore (ce ne sarebbe uno di meno e di spessore economico considerevole): di conseguenza, il livello delle varie erogazioni di bilancio, legate ai vari fondi strutturali e di coesione, e gli altri programmi, dovrebbero ridursi. E con ciò, dovrebbe ridursi anche la percezione netta dei paesi "sussidiati".
Insomma, preso atto della situazione sopravvenuta, la posizione contributiva italiana dovrebbe rimanere inalterata e non c'è motivo per il quale l'uscita della Gran Bretagna debba aggravare gli oneri, di per sè già iniqui e disfunzionali, gravanti sull'Italia.

10. Anzi, tenendo conto del venire meno degli effetti di ineguale distribuzione del "rebate", compensato con un aggravio principalmente gravante su Italia e Francia, come abbiamo visto, la Brexit, a regime, cioè nelle prossime programmazioni finanziarie pluriennali successive alla sua entrata in vigore, dovrebbe a rigore attenuare la contribuzione italiana, gravata sì in proporzione al suo reddito nazionale, ma senza che il bilancio statale italiano debba più sopportare gli effetti asimmetrici di "neutralizzazione" del "rebate".
E, per riallacciarsi ai potenziali effetti dell'eventuale negoziazione riduttiva degli impegni di contribuzione già assunti dal Regno Unito fino al 2020, questo stesso effetto si produrrebbe in qualsiasi momento venisse meno, appunto, la contribuzione britannica, a seguito di un accordo anticipatorio, rispetto all'operatività dell'accordo di recesso, degli effetti finanziari della Brexit.
La logica giuridica dell'applicazione dei trattati, quindi, ove applicati in buona fede negoziale, dovrebbe in ogni caso comportare una diminuzione del livello dei fondi di bilancio UE proporzionale al venire meno del reddito del Regno Unito, ed una strutturale diminuzione dei vantaggi finanziari per i "percettori netti".

Pubblicato da Quarantotto a 13:46 7 commenti: Link a questo post
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