Per cortesia ripristinate il 3d di mototopo

c’è: quello che direbbe tutta la verità

«Chiedetevi come mai ci ritroviamo a domandarci, ogni volta, dov’è finita la politica seria, e perché è scomparsa», ripeteva anni fa Paolo Barnard, ricostruendo – nel saggio “Il più grande crimine” – la genesi dell’Eurozona in chiave economico-finanziaria ma soprattutto criminologica. L’accusa: una élite feudale pre-moderna e pre-democratica, travolta per due secoli dai progressivi successi della democrazia industriale, si sta semplicemente riprendendo tutto: in Europa ha rifondato una sorta di Sacro Romano Impero dove comandano politici non-eletti, a loro volta manovrati da una oligarchia finanziaria che ha imposto una moneta “privatizzata”, l’euro, con l’unico scopo di impoverire le popolazioni, trasferendo ricchezza dal basso verso l’alto. I politici che potevano opporsi sono stati eliminati (come Olof Palme) o più semplicemente “comprati”, cooptati, perché tradissero il loro mandato, il loro elettorato, i loro sindacati di riferimento. Applicarono alla lettera lo storico memorandum di Lewis Powell, adottato dalla Commissione Trilaterale per abbattere la sinistra sociale dei diritti, usando come clava il dogma del neoliberismo: il welfare deve finire, il potere deve tornare in mani neo-feudali come quelle che pilotano l’ordoliberismo germanico.

Nel suo libro uscito nel 2014, “Massoni, società a responsabilità illimitata”, Magaldi (che cita spesso Barnard) completa il quadro: i “campioni” dell’attuale élite, dalla Merkel a Draghi, sono tutti supermassoni affiliati a 36 Ur-Lodges internazionali. «Non sono veri massoni», precisa Carpeoro, «visto che hanno tradito i principi progressisti della massoneria». Magaldi preferisce chiamarli contro-iniziati. Ma ricorda che proprio alla libera muratoria si devono le istituzioni-cardine della modernità: democrazia, elezioni, Stato laico, suffragio universale. Il dono della Rivoluzione Francese, ispirata proprio da massoni. «Solo che poi siamo arrivati a Monti, a Napolitano. Anche Renzi ha bussato a quei circoli, ma non gli hanno aperto. In alternativa ci sarebbero i 5 Stelle, ma non hanno ancora spiegato cosa farebbero, una volta al governo». Sicché, torna in campo la suggestione del “partito che non c’è”, ma sarebbe tanto utile se ci fosse. Un partito che, ad esempio, avesse come frontman un economista di primissimo piano come Nino Galloni, allievo del professor Federico Caffè (come lo stesso Draghi, che però si laureò con una tesi sull’insostenibilità di una moneta unica europea). Galloni ha le idee chiarissime: sbattere la porta in faccia all’Ue, se non accetta di rivedere tutti i trattati-capestro, da Maastricht in poi. Un sogno? Certo, per ora sì: è il sogno del “partito che non c’è”.

Negli anni ‘80, quando Olof Palme era ancora vivo, una corrente (non populista) scosse l’Europa: quella del movimento ambientalista, che poi crebbe velocemente “grazie” al disastro nucleare di Chernobyl. Nemmeno i Verdi della prima ora intendevano abbattere il capitalismo, ma solo “tagliargli le unghie”, precisamente quelle più “velenose”, in nome della salute di cittadini e lavoratori. Fu una piccola rivoluzione, anche culturale: prima di degradarsi, il movimento costrinse i paesi europei a dotarsi di legislazioni più “verdi”, più attente alla tutela dell’ambiente. Ma a prendere il sopravvento, in Italia, fu il ciclone Tangentopoli, che solo oggi – dopo oltre vent’anni – si vede cosa ha prodotto: da quella colossale “distrazione di massa” venne fuori il nuovo conio dell’Unione Europea, quella che ha ridotto la Grecia a paese del terzo mondo e ha privato l’Italia del 25% della sua produzione industriale, facendo ricomparire ovunque lo spettro della povertà. E i ruggenti 5 Stelle? Molti si sono stupiti del loro silenzio tombale sul decreto-monstre della ministra Lorenzin sui 12 vaccini obbligatori. Non Carpeoro: «L’unica speranza stanella base dei 5 Stelle, che è fatta di persone pulite. Vedremo se avranno la forza di prevalere sugli attuali vertici, che sono collusi con il potere».

Chiedetevi perché non ci sono più i politici di una volta, insiste Barnard. «Un minuto dopo l’istituzione dell’euro – aggiunge Carpeoro – lo stesso Craxi “profetizzò” che sarebbe stato l’inizio della fine, per l’Italia. Con lui, se lo potevano sognare di fare quel tasso di cambio, rispetto alla lira». Galloni, all’epoca, era in trincea: era stato chiamato nientemeno che da Giulio Andreotti, per tentare di limitare i danni attraverso una “guerra” da condurre al coperto, nel palazzo. «Telefonò l’allora cancelliere Kohl – ricorda – per chiedere che fossi rimosso: lottavo, per cercare di impedire la deindustrializzazione dell’Italia». Ma il piano era partito, inesorabilmente, ed era potentissimo. Banche, grande industria, think-tanks, lobby euro-atlantiche, élite franco-tedesche con frotte di politici, tecnocrati ed economisti di complemento. Morti e feriti, alla distanza: rigore, austerity, Monti e Napolitano, la Fornero. Barnard accusa anche D’Alema, uomo-record nelle privatizzazioni, come il suo alleato Romano Prodi, advisor della Goldman Sachs, e personaggi del calibro di Tommaso Padoa Schioppa e dello stesso Carlo Azeglio Ciampi, l’uomo che chiuse il “bancomat” statale di Bankitalia prima ancora dell’avvento dell’euro, costringendo il paese a dipendere, di colpo, dal credito della finanza privata internazionale, trasformando il debito pubblico in un dramma.

Gioele Magaldi segnala che, dal fronte progressista di quella stessa élite neo-massonica, provengono anche segnali di risveglio. Carpeoro “legge” l’inquietudine dell’élite “terrorista” che ora colpisce Londra e Manchester, temendo che il Regno Unito post-Brexit possa smarcarsi dal vertice neocon ultraliberista. Ma se qualcuno ha palpitato per le elezioni francesi, sognando una vittoria “sovranista” di Marine Le Pen, si è dovuto arrendere all’evidenza del supermassone Macron, protetto dal supermassone reazionario Jacques Attali (storico sodale di D’Alema, secondo Barnard). Quanto all’Italia, «rido per non piangere», chiosa Magaldi, tra gli inchini di Gentiloni ai potenti del G7: «I nostri partiti cianciano di legge elettorale “alla tedesca” per ingessare in eterno il sistema con un bell’abbraccio tra Renzi e Berlusconi, che pare piaccia anche a Grillo, dato che porrebbe di fronte alla comoda prospettiva di una nuova stagione di opposizione da “duro e puro”».

Tutto ciò, senza una sola parola – da parte di nessuno – su come uscire dalla trappola di questa Ue. Servirebbe, appunto, il “partito che non c’è”. Quelli che ci sono, infatti, servono solo a lasciare l’Italia in letargo, in mezzo alle sue “irrisolvibili” tragedie economiche, che il mainstream si guarda bene dall’approfondire: Barnard (cofondatore di “Report”) è trattato come un appestato, e il libro di Magaldi (decine di migliaia di copie vendute) non ha avuto sinora spazi in tv. Il mainstream preferisce registrare gli slogan di Salvini, fotografare l’anziano Silvio che allatta agnellini, filmare l’ectoplasma di Renzi che si riprende l’ectoplasma del Pd. Il mainstream riesce a stare ancora ad ascoltare persino la controfigura di Bersani che straparla di sinistra dimenticando l’altro Bersani, quello vero, che militarizzò il Parlamento per far votare il pareggio di bilancio imposto dall’élite per tramite dei suoi commissari, Monti e Napolitano. Forse, il “partito che non c’è” è quello degli italiani, che ancora stazionano davanti al televisore godendosi questo spettacolo, mentre altrove i veri capi – gli unici – decidono, ancora e sempre, sulla testa di tutti.

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by Ingegner Caustico
LA SVALUTAZIONE E L’INFLAZIONE: L’USCITA DALL’EURO E LE LEGGENDE METROPOLITANE

Nel mondo dell’economia esistono relazioni assiomatiche che, pur non essendosi mai verificate, sono ritenute ugualmente vere. Una di quelle che ha raccolto i maggiori successi in ambito politico è quella che lega la svalutazione di una moneta con il tasso di inflazione in una relazione di 1 a 1. Viene infatti narrato che una delle conseguenze dell’uscita dell’Italia dall’eurozona sarebbe una corposa (?!?) svalutazione che farebbe aumentare la competitività delle nostre merci, di conseguenza avremmo un iniziale aumento del Pil, ma tale effetto sarebbe “illusorio” in quanto l’inflazione susseguente annullerebbe tale effetto positivo riportando il Pil ai livelli iniziali, ma con il residuo di un’inflazione a livelli preoccupanti (appunto pari alla svalutazione avvenuta). A suffragio di tale teorema vengono anche fornite delle cifre (avulse da ogni fondamentale macroeconomico) che prevedono una svalutazione variabile tra il 50 e il 70% (non si sa rispetto a quale moneta) e conseguente inflazione annua di pari importo. Una vera sciagura!!! Purtroppo non vengono fornite “stime” dell’iniziale quanto “illusorio” aumento del prodotto interno lordo, tuttavia questi dati sono sufficienti per condurre un’analisi di quella che Claudio Borghi ha sarcasticamente definito “la bisettrice del PUDE”, ovvero l’equazione:

svalutazione = inflazione

Bisogna innanzitutto precisare che, a differenza di quanto raccontato nella favola economica del mainstream, a seguito di una svalutazione, tanto più se repentina e consistente, si ha un iniziale PEGGIORAMENTO della bilancia commerciale, cioè la differenza tra esportazioni ed importazioni che, se non compensata da interventi pubblici, porta ad un transitorio peggioramento del Pil. Perché? Solitamente le imprese concludono accordi commerciali di durata fissa (mensile o annuale) che non sono modificabili nel brevissimo termine, perciò è lecito supporre che, a seguito di una svalutazione, inizialmente questi non subiscano variazioni significative nelle quantità. Ciò che cambia è però il costo! Vediamolo con un esempio: supponiamo che la mia azienda abbia ordinato 10 macchinari dall’estero per un importo complessivo di 100.000 € e che, a seguito della crisi dell’eurozona, l’Italia torni alla lira (o meglio alla nuova lira) e questa subisca una svalutazione del 50%. In tale caso i macchinari acquistati sarebbero sempre 10, ma mi verrebbero a costare molto di più (visto che il tasso di cambio si è ridotto): 200.000 nuove lire. A parità di quantità domandata, aumenta il valore monetario delle importazioni, mentre l’export resta invariato.
Nel giro di qualche mese, tuttavia, poiché le merci estere sono divenute più costose mentre le nostre sono divenute più competitive, si avrà un adeguamento dell’import-export con un aumento delle esportazioni ed una contestuale diminuzione delle importazioni che porterà ad un miglioramento della bilancia commerciale e quindi del prodotto interno lordo, di cui la bilancia commerciale è parte. Questo fenomeno (iniziale peggioramento della bilancia commerciale e successivo miglioramento) viene definito curva J poiché il suo grafico assomiglia alla lettera J (leggermente inclinata).



Fatta questa doverosa precisazione, la “favola” narra, come precedentemente detto, che l’aumento del prodotto interno lordo sarebbe transitorio in quanto in breve tempo si scatenerebbero gli effetti dell’inflazione che farebbero perdere la competitività appena acquistata dai nostri prodotti. Occorre pertanto chiedersi quali conseguenze avrebbe il citato aumento del prodotto interno lordo in concomitanza con l’aumento dei prezzi. Vediamolo in formule iniziando dalla produzione (o prodotto interno lordo):

Y = A * N

La produzione (Y) è pari alla produttività media del singolo lavoratore (A) moltiplicato per il numero dei lavoratori (N) pertanto, se la produzione aumenta, vuole dire che aumenta la produttività (A) oppure aumentano gli occupati (N). Un aumento della produttività è però in aperta contraddizione con la famigerata equazione svalutazione = inflazione. Vediamo perché: la “bisettrice del PUDE” prevede che la svalutazione produca sempre un’inflazione di pari importo, cioè un aumento generale dei prezzi. Come vengono determinati e prezzi? Nel modo seguente:

p = w (1+μ)/A

Senza entrare nello specifico dei simboli, si vede che la produttività (A) è al denominatore, questo vuole dire che un aumento della produttività farebbe DIMINUIRE i prezzi (cioè all’aumentare di A diminuisce p), ma ciò sarebbe in contraddizione con l’ipotesi iniziale in quanto si è detto che i prezzi devono aumentare (ricordate? L’inflazione dovrebbe essere tra il 50 ed il 70%). Affinché i prezzi crescano, occorre quindi che A resti invariato (o diminuisca) e che aumenti N, cioè che AUMENTINO GLI OCCUPATI. Di quanto?
Si può fare una stima spannometrica utilizzando la curva di Phillips, cioè quella relazione che lega la variazione dei salari nominali con il tasso di disoccupazione. È bene precisare che la curva di Phillips ha il poco invidiabile primato di essere una delle relazione empiriche (nel senso di legge desunta dall’osservazione dei dati reali) che ha subito i maggiori attacchi da parte del mainstream in quanto ha l’imperdonabile difetto di funzionare. Ovviamente funziona nell’ambito delle ipotesi di validità della relazione stessa.



Curva di Phillips per il Regno Unito, anni 1861-1913

Come detto, la curva di Phillips evidenzia una relazione non lineare tra il tasso di variazione dei salari nominali ed il tasso di disoccupazione, tuttavia è facile dimostrare che, sotto determinate ipotesi (costanza della produttività (A) e del mark-up (μ)), la variazione dei salari nominali corrisponde alla variazione dei prezzi, cioè all’inflazione. Quando si verificano queste condizioni, è lecito dire che la curva di Phillips (ribattezzata “curva di Phillips nei prezzi”) rappresenta la relazione intercorrente tra l’inflazione ed il tasso di disoccupazione.
Questa curva dimostra nei fatti che è possibile ridurre la disoccupazione a patto di un aumento generalizzato dei prezzi (inflazione), oppure che è possibile avere un’inflazione bassa a patto di avere una disoccupazione elevata (vi dice niente il mandato della BCE di mantenere un’inflazione bassa e stabile?). Insomma, la disoccupazione e l’inflazione sono su una sorta di altalena: se scende una, sale l’altra.
Vediamo la curva di Phillips nei prezzi per l’italia dal 1977 al 2015:



Curva di Phillips nei prezzi per l’Italia, anni 1977-2015

Si vede benissimo che la “curva di Phillips nei prezzi” in questo caso non funziona! I punti non sono ben allineati, ma sembrano disposti a caso. Perché? Per il semplice motivo che, come anticipato, la curva di Phillips è valida qualora siano rispettate le ipotesi alla base. Mi spiego con un esempio: il teorema di Pitagora dice che, IN UN TRIANGOLO RETTANGOLO, il quadrato costruito sull’ipotenusa è equivalente alla somma dei quadrati costruiti sui cateti. Prendere un TRIANGOLO SCALENO, applicare il teorema di Pitagora e poi dire che il teorema non funziona è una autentica cialtronata (questo è ciò che hanno fatto Milton Friedman ed Edmund Phelps quando hanno criticato la curva di Phillips ed hanno introdotto le aspettative degli operatori economici). Allora cosa è successo? Oltre a quanto citato prima (produttività (A) e mark-up (μ) costanti), affinchè la curva di Phillips funzioni occorre che resti invariato anche il parametro di conflittualità. La flessibilizzazione del lavoro serve appunto a ridurre il parametro di conflittualità e consentire una riduzione dei salari anche a parità di tasso di disoccupazione. La spiegazione è facilmente intuibile: è più facile ridurre lo stipendio ad un precario che ad una persona con adeguate tutele contrattuali. Precarizzando il lavoro non è più necessario un aumento della disoccupazione per avere una riduzione salariale, è sufficiente la semplice minaccia (o ti accontenti di due spicci oppure vai fuori dai coglioni).
Per valutare la flessibilità del lavoro occorre andare nel sito dell’OECD e scaricare i dati relativi all’EPL (Employment Protection Legislation) cioè il grado di protezione del lavoro fornito dalla legislazione nazionale.



EPL – Strictness of employment protection

Si vede che l’EPL dell’Italia risulta sostanzialmente costante fino al 1997, segue una fase di progressiva precarizzazione del lavoro con conseguente riduzione del parametro di conflittualità (vi dice niente la legge n. 196 del 24 giugno 1997 nota come “pacchetto Treu”?), che termina nel 2003, per poi assestarsi rimanendo sostanzialmente costate (fino al cosiddetto “Jobs Act” del 2015).
Suddividendo la “curva di Phillips nei prezzi” in due tratti (quelli nei quali l’EPL è sostanzialmente costante), si ottengono le seguenti figure:



Curva di Phillips nei prezzi per l’Italia, anni 1977-1997



Curva di Phillips nei prezzi per l’Italia, anni 2003-2015

Incredibilmente torna a funzionare!
Utilizziamo quindi la curva di Phillips nei prezzi del periodo 1977-1997 per calcolare quanto dovrebbe essere il tasso di disoccupazione per avere un’inflazione del 50%, come pronosticato nella favola mainstream. Facendo i calcoli risulta che la disoccupazione dovrebbe essere del -4,4% (MENO QUATTRO VIRGOLA QUATTRO PER CENTO) e se si considerasse un’inflazione del 70% arriveremmo ad un valore di disoccupazione del -11,0% (MENO UNDICI PER CENTO). Stiamo parlando di tassi NEGATIVI: in pratica non ci sarebbero abbastanza persone da impiegare!!! Pur considerando i limiti insiti nell’approssimare una curva con una retta, nel considerare il mark-up costante, nel trascurare la traslazione dovuta alla precarizzazione del mercato del lavoro ecc., ci si rende conto che la favola mainstream ci sta dicendo (involontariamente) che con valutazioni corpose come quelle da loro ipotizzate (cosa totalmente irrealistica), avremmo la PIENA OCCUPAZIONE. Anzi, non avremmo abbastanza persone da fare lavorare (forse è per questo che i nostri politici incentivano le immigrazioni dall’Africa?!?).
La verità è ben diversa da quanto favoleggiato dalla “bisettrice del PUDE” in quanto la svalutazione sarà certamente di livello molto più contenuto rispetto a quanto dichiarato da certuni (ahimè anche alcuni professori universitari di economia) e l’aumento del prodotto interno lordo si tradurrà certamente in un aumento dell’occupazione (che insieme all’aumento del mark-up dovuto al maggior costo delle componenti estere tenderà a creare inflazione), ma anche in un aumento della produttività (che tenderà a ridurre il livello dei prezzi). La concomitanza di questi due effetti tra loro antitetici produrrà un livello di inflazione “fisiologico”, presumibilmente inferiore al 5%. Sarebbe il segnale di un’economia in salute.

Claudio Barnabè
 
economica del diritto.






























giovedì 1 giugno 2017
ANGELONA ALLO SCONTRO CON GLI USA: L'APPARATO R€PRESSIVO DELLA SUA €UROPA E IL 25 LUGLIO FRATTALICO [/paste:font]


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1. Non disperiamo e, soprattutto, non disperdiamoci.
Comincerei, pertanto, dalla sintesi contenuta in questo commento di Lorenzo che contiene una dose fenomenologica di elementi essenziali:
"Mi par di capire, sintetizzando al massimo che la strategia politica sia di:
a) imporre la manovra (di stabilità per il 2018) per il tramite di un particolarissimo 'stato di eccezione': in pratica sarà proposta da un governo dimissionario ad un parlamento non in grado di esprimere una maggioranza e che la approverà seguendo la regola del 'tutti colpevoli nessun colpevole' (voto magari accompagnato da una spruzzatina di 'spread', giusto per sollecitare 'l'urgenza');
b) un sistema elettorale che, di fatto, porti a compimento lo svuotamento 'idraulico' delle elezioni.

Anche il comportamento del Capo dello Stato è singolare: fondamentalmente sta dettando a priori l'agenda politica del futuro Parlamento.......
Ma questa tattica funzionerà? La posta in gioco non è più la mera sopravvivenza politica, ma la tenuta del 'sistema-Paese'. Veramente non c'è coscienza di questo? Quella d'ottobre potrebbe essere la 'manovra' che apre per noi le strade della Grecia......
Forse (dico forse), ci potrebbe essere una visione alternativa, dove un governo dimissionario e un parlamento senza maggioranza tergiversino con continui rifacimenti della manovra per prendere tempo, finendo alla fine, comunque nell'esercizio provvisorio?

Forse, questa volta, ci stiamo davvero avvicinando alla svolta frattalica?
Tutti cercano di sfilarsi dalle responsabilità di una guerra ormai persa e la scelta sta diventando dicotomica: o l'occupazione, o la liberazione...".

2. Aggiungerei un secondo elemento che, in chiave frattalica, ha un indubbio rilievo: la Merkel che (certamente "piccata" a titolo personale per il trattamento ricevuto nella sua visita a Washington), inaugura la, per molti versi clamorosa, linea di esplicito anti-americanismo, giustificato dall'avversione ad personam verso l'attuale POTUS.
Una realizzazione pratica di questa presa formale della leadership (extraistituzionale, naturalmente) da parte della super-cancelliera, in termini politici, e quindi, di riforme dell'eurozona, seguirebbe questa agenda, secondo una ricostruzione di Dagoreport (esclusivamente limitata ad obiettivi generalissimi):
La Nuova Europa si svilupperà su tre passaggi fondamentali (almeno così la raccontano in tedesco).
Il primo: la sostituzione di Weidmann con Draghi [ndr; ovviamente è l'inverso] alla guida della Bce nel 2019. Il secondo: attribuzione alla Francia della posizione di ministro unico delle Finanze europee; un identikit che la stessa Commissione ha tratteggiato con il suo piano, infarcito di eurobond (ma guai a chiamarli così) e di Fondo monetario europeo. Il terzo: assegnazione all’Italia del ministro della Difesa europea; un progetto di lungo periodo che presuppone una aggregazione politica dall’intensità maggiore dell’attuale.
Prima di tornare alle implicazioni frattaliche, è meglio chiarire in cosa realmente si traducano i "passaggi fondamentali" che la Merkel vorrebbe imporre, reclamando una leadership fondata sullo "stato di eccezione" - cioè sulla effettiva sovranità, a bene vedere- determinato dalla situazione conflittuale con Trump...da lei stessa creata (!).
D'altra parte, sovrano è colui che ha il potere di dichiarare lo stato di eccezione; e, a maggior ragione, chi ha il potere di crearlo, allo scopo di riaffermare la propria sovranità, sia essa legittima o no.

3. E dunque, su ciascuno di questi tre elementi generali di "€uro-riforma", specifichiamo le concrete implicazioni attualmente in discussione.
I primi due possono essere visti congiuntamente per la loro intima connessione.
Diciamo subito che l'affidamento della BCE a Weidman determina l'applicazione "credibile", (non necessariamente "seria", che è un altro discorso), del principio del "piacere della crudeltà del creditore" (qui, p.6.1.: da Corey Robin che cita Nietzsche).
Una linea che, peraltro, risulta già chiaramente enunciata dalla sentenza CGUE sull'Outright Monetary Transaction e che si riassume nella seguente Grund-Norm dell'eurozona:
ogni scostamento dalla regola del no-bail out (e sempre nei limiti del divieto di acquisto diretto dei titoli di Stato e di intervento "solidale" a carico delle istituzioni UE o di un altro Stato-membro), anche per quanto riguarda la politica monetaria, deve essere accompagnato dalla imposizione di rigorose e stringenti condizionalità nei confronti degli Stati non rispettosi dei limiti di deficit e di rapporto debito/PIL previsti dal fiscal compact.
Con Weidman, c'è un "nuovo sceriffo in città" e per l'Italia, sprecona e piagnona, QE e interventi monetari accomodanti sono per sempre esclusi.

4. Quanto alla istituzione di un ministro delle finanze €uropeo (a "riserva" francese), il quadro che si delinea è strettamente connesso.
Tale figura, se pure gestirà un bilancio federale rafforzato (in misure e modalità di "contribuzione" statale del tutto incongrue e antisolidali, v.p.10), avrà essenzialmente poteri sanzionatori, cioè di enforcement del pareggio di bilancio e della riduzione del debito pubblico, in quanto istituito col ruolo prioritario di attivatore di un apparato di imposizione e controllo nell'attuazione delle condizionalità (qui, pp.9-10 per avere lumi e fonti dirette €uropee).
Le finalità essenziali di questo €uro-apparato, ora chiarite, consentono (integrate dalla lettura dei links), di decifrare senza troppe difficoltà questo organigramma, postato da Marco Zanni (e che corrisponde a un paper "di discussione" già approvato dalla Commissione UE, oltreche corrispondente a un deliberato preliminare già licenziato dall'europarlamento):


5. Logicamente, la connessione ministro delle €urofinanze-€uroapparato repressivo fiscale, ci collega alla "leggera impopolarità" che la sua azione potrebbe suscitare.
E, di conseguenza, ci porta al terzo punto: la "difesa €uropea".

Condizionalità e sanzioni (finanziarie e socio-politiche) di natura fiscale, possono condurre a rivolte e disordini (tanto più se teutonicamente "credibili"), onde la necessità di preservarne l'effettiva attuazione mediante un congegno militar-poliziesco che, in nome della "€urodifesa", contro populismi e "irresponsabilità" dei riottosi PIGS (specie italiani), possa prontamente intervenire per garantire, al neo-€apparato fiscal-repressivo (e ai suoi "missi imperiali" sparsi per i vari Stati sotto accusa), un'adeguata protezione fisica nonché una preventiva capacità deterrente e materialmente repressiva.
Piccolo dettaglio: la guida "politica", teoricamente italiana, sarebbe solo di bandiera; l'euroesercito si è già avviato sotto il comando operativo, cioè militare-effettivo, della Germania.
La tendenza alla militarizzazione dell'attività di polizia è già largamente in atto negli USA: le sue implicazioni in una "federazione interstatale" di tipo liberoscambista, cioè governata dai "mercati", sono evidenti e ne abbiamo discusso qui.

6. Risulta però utile aprire gli occhi su quali concrete misure corrisponderanno al dotare di normatività, e quindi di sanzionabilità, supreme e incondizionate, le regole fiscali dell'eurozona. Almeno per l'Italia e, appunto, proprio per capire perché ci potrebbero essere delle non piccole resistenze popolari.
Se si leggono con attenzione questi passaggi esemplificativi tratti da twitter, le prospettive concrete non si prestano a grandi equivoci. Andiamo per successive e coerenti indicazioni.
Naturalmente il tutto viene cosmeticamente presentato come un vantaggio: si abbassa il debitopubblicobrutto (che bello!) e perciò si potrebbero abbassare le tasse (ancora più bello!). Cosa saranno mai un piccolo sacrificio e l'arrivo degli" €uro caschi blu"?


Vediamo allora il "piccolo sacrificio":




Temete ancora che non riuscirete a pagare e, anche pagando, di esservi indebitati con le banche per il resto dei vostri giorni, pur di tentare di rimanere nella vostra casa?
Sbagliereste: in realtà la misura del "piccolo sacrificio" è ancora più estesa:


7. Traendo allora qualche conclusione e riallacciandoci all'ipotesi frattalica (aggiornata da ultimo): questo disegno complessivo, che si preannuncia come molto concreto e imminente, almeno di pari passo con l'esigenza di "fare presto!" della Merkel, nel suo tentativo di ratificare la dichiarazione del "suo" (personalizzato) stato di eccezione per autoinvestirsi della leadership €uropea, ed imponendo a tamburo battente le suddette riforme di apparato, presenterebbe alcune "ital-criticità" legate alle prossime elezioni politiche (sempre ricorrendo al citato Dagoreport):
Perché questo schema prenda forma nei corridoi, però, la Cancelliera mette i suoi paletti; e sono paletti tedeschi. Innanzitutto chiede una forma di giuramento con il sangue per isolare Trump al G-20 dagli altri 18 al tavolo, compito agevolato dall’atteggiamento della Casa Bianca che interpreta gli assetti dei vertici internazionali in un modo solo: il G-1, l’America e basta.
Angelona dopo aver portato dalla sua parte (coercizione di minore) Macron, vuole anche porre le condizioni sulla politica interna italiana. Dialoga amabilmente (anche in tedesco) con Gentiloni; mentre non sopporta Renzi. Figurarsi se in lontananza vede addirittura un’ipotesi di larghe intese fra Matteo e Silvio. Quindi, dalla Cancelleria ha smosso ogni emissario a disposizione per far capire al cazzaro ed al cavaliere che è meglio rinviare le elezioni a scadenza naturale.
Il motivo è abbastanza chiaro. Ed è tutto nel calendario (come ha detto Delrio a Renzi). Il 24 settembre si vota in Germania. Il 15 ottobre l’Italia deve presentare la Legge di Bilancio in Parlamento ed a Bruxelles. In quei 20 giorni, Angela sarà tornata in sella, legittimata dal voto popolare, alla guida della Cancelleria. E sarà più forte. Al punto da poter modulare il rigore della Commissione nei confronti della politica economica italiana.
8. Ora il G20 di Amburgo si svolgerà il 7-8 luglio prossimi (ironia della sorte nelle omotetie storiche: rammentiamo che il 10 luglio 1943 le truppe anglo-americane sbarcarono in Sicilia).
E da questo quadro di imminenti rivolgimenti, per molti aspetti storici, sorgono alcune domande:
a) quale partito, o potenziale coalizione di partiti da formarsi in parlamento (dopo le elezioni), e quale che sia la data delle elezioni, potrebbe sopravvivere a un €-commissariamento di questa intensità?
b) Quale leadership italiana potrebbe raccogliere un sufficiente consenso via via che, nelle prossime settimane, emergeranno i concreti caratteri delle politiche che l'€uropa ci imporrebbe, e che vanno ben oltre la misura, già di per sè ragguardevole, del consolidamento fiscale (recessivo) imposto con la manovrona per il 2018?
c) E infine: quale "tenuta" elettorale può avere la stessa politica italiana nel contrapporsi apertamente agli USA, per la prima volta da 70 anni, e per di più pur di conservare l'appartenenza al club dell'euro (che già in sé si sta rivelando, presso crescenti strati dell'opinione pubblica, quella disastrosa esperienza che è sempre più evidente)?
Ecco allora che, in qualche modo ritorna di moda il 25 luglio: sempre rammentando che non fu che un estremo tentativo di autoconservazione del regime.

Pubblicato da Quarantotto a 15:43 13 commenti: Link a questo post
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molto semplicemente oggi di vaccino si può morire perchè chi li prepara aggiunge alcune schifezze tipo metalli tossici come alluminio , zinco e o nickel assieme all' iniezione dei vaccini ..
da una attenta analisi si è notato che i vaccini anni 1960 / 1970 erano molto più semplici e leggeri ( curavano 3 massimo 4 malattie ) oggigiorno , gli odierni vaccini sono troppo potenti ( andando a curare oltre le 15 possibili malattie ) e tutto questo , all'interno del corpo , influisce sullo sviluppo dei filamenti del dna ..
buona lettura : " h!!p://www.mednat.org/vaccini/contenuto_vaccini.htm "
si ringrazia jean paul per il link soprastante fornito ( " h!!p://www.ansa.it/sito/notizie/topnews/2017/06/02/sud-sudanvaccini-sbagliatistrage-bimbi_a9c6d78e-3eae-4d56-bf86-b8049b642896.html " )
 
..
Perché la superclasse mondiale non è una aristocrazia (II).
Maurizio Blondet 31 maggio 2017 44



Queste cerchie (che abbiamo esplorato nel precedente articolo) non stanno allo stesso livello, ovviamente. Esse sono gerarchicamente ordinate. La cerchia economico-finanziaria transnazionale sta ovviamente al vertice, è il cuore della superclasse mondiale: è il potere del denaro de-regolato allo stato puro. Comanda a quelli sotto, come esecutori, compagni di strada, utili idioti.

La cerchia dei poteri pubblici ed amministrativi si pone all’ultimo posto, perché obbedisce ai dettami di sopra strumentalizzando una autorità residuale su uno spazio nazionale, dunque ridotto. Fano …
 
Carpeoro e il segreto dei Romita: nel ‘46 vinse la monarchia
Scritto il 04/6/17 • nella Categoria: segnalazioni Condividi


Come volevasi dimostrare: Londra torna a essere bersaglio di “fuoco amico”, cioè terrorismo “false flag” targato Isis, a riprova della guerra di potere in corso tra le oligarchie internazionali, che ora usano Theresa May in funzione anti-Merkel. Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, teme che questo “sciame” di attentati-kamikaze possa anche preparare una strage ancora più devastante: «E’ una possibilità, fa parte di un certo schema». L’aveva già detto: la Gran Bretagna è sotto tiro, da quando ha imboccato il divorzio da Bruxelles. Dalla Brexit in poi, nel Regno Unito starebbero emergendo spinte progressiste, anche a livello supermassonico: questo mette in tensione la “sovragestione” a guida Cia, custode occulta dello status quo e preoccupata del possibile nuovo corso di Londra, se dovesse smarcarsi dal “partito della guerra” che ha fabbricato l’Isis. Niente è come sembra, e non da oggi: la stessa Italia repubblicana è stata “fabbricata” con un artificio, una colossale manipolazione come quella del referendum costituzionale del 2 giugno 1946. «E’ vera la “leggenda” che avesse vinto la monarchia», dichiara Carpeoro, che fa un nome: quello del più volte ministro Pierluigi Romita, «sempre eletto in virtù del ruolo di suo padre, Giuseppe Romita, che era guardasigilli all’epoca di quel referedum».
In diretta web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”, Carpeoro racconta: «Il socialdemocratico Pierluigi Romita, mio grande amico, fece il ministro molte volte e gli sempre venne garantita l’elezione da tutti i partiti». Era il pegno per custodire il “segreto” della storica manipolazione a cui il padre avrebbe presiduto. Pierluigi Romita «è stato un politico inaffondabile: e non aggiungo altro». Ulteriori rivelazioni sulla storia italiana del ‘900 sono in arrivo con il libro che Carpeoro sta per pubblicare sui clamorosi retroscena della caduta di Mussolini: la deposizione del 25 luglio 1943 sarebbe stata in realtà concordata con lo stesso “duce” per propiziare un’uscita meno traumatica dell’Italia dal secondo conflitto mondiale. Ma intervennero elementi (non ancora di pubblico dominio, nella storiografia) che fecero precipitare la situazione: l’invasione dell’Italia da parte delle truppe naziste sarebbe stata provocata da un complotto tra esponenti massonici e diplomazia vaticana, che sabotarono il piano iniziale di auto-siluramento “morbido” del regime fascista, aprendo la strada alla fucilazione di Ciano e alla tragedia dell’occupazione e della guerra civile.
Perché il potere del primissimo dopoguerra preferì far vincere la repubblica piuttosto che la monarchia? Intanto perché il sovrano era troppo popolare, afferma Carpeoro: «Umberto II era ritenuto pericoloso, come raccoglitore di consensi, da parte di certi ambienti sia comunisti che democristiani». E poi, soprattutto: «Diventare repubblica è stato uno dei modi per poter trattare diversamente le condizioni di guerra, per De Gasperi, sul tavolo in cui si sono puniti quelli che avevano perso: assumere un assetto democratico ha consentito all’Italia una trattativa diversa, sul tavolo dei perdenti – la Germania ha dovuto pagare con lo smembramento: ci sono stati dei prezzi da pagare». Poi era inevitabile che elementi fascisti venissero traghettati nella nuova repubblica italiana: «Mussolini aveva praticamente creato lo Stato, inteso come struttura burocratica e amministrativa nazionale. Aveva creato l’Inps, l’Inail, l’Iri, la sanità pubblica. Le alte dirigenze non potevano certo essere sostituite traumaticamente: la prima legge repubblicana infatti fu quella della continuità amministrativa, per garantire il funzionamento della macchina statale». Molti, poi cambiarono bandiera: «Montanelli, Malaparte, Giorgio Bocca, Dario Fo erano repubblichini e diventarono di colpo, misteriosamente, partigiani o personalità della sinistra». Era fatale che parte del vecchio milieu confluisse nel nuovo regime. «Non mi meraviglia né mi scandalizza», chiosa Carpeoro, «ma non credo che abbiamo sempre scelto il meglio: potevamo calibrare di più le scelte tra cosa conservare e cosa archiviare».
Come volevasi dimostrare: Londra torna a essere bersaglio di “fuoco amico”, cioè terrorismo “false flag” targato Isis, a riprova della guerra di potere in corso tra le oligarchie internazionali, che ora usano Theresa May in funzione anti-Merkel. Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, teme che questo “sciame” di attentati-kamikaze possa anche preparare una strage ancora più devastante: «E’ una possibilità, fa parte di un certo schema». L’aveva già detto: la Gran Bretagna è sotto tiro, da quando ha imboccato il divorzio da Bruxelles. Dalla Brexit in poi, nel Regno Unito starebbero emergendo spinte progressiste, anche a livello supermassonico: questo mette in tensione la “sovragestione” a guida Cia, custode occulta dello status quo e preoccupata del possibile nuovo corso di Londra, se dovesse smarcarsi dal “partito della guerra” che ha fabbricato l’Isis. Niente è come sembra, e non da oggi: la stessa Italia repubblicana è stata “fabbricata” con un artificio, una colossale manipolazione come quella del referendum costituzionale del 2 giugno 1946. «E’ vera la “leggenda” che avesse vinto la monarchia», dichiara Carpeoro, che fa un nome: quello del più volte ministro Pier Luigi Romita, «sempre eletto in virtù del ruolo di suo padre, Giuseppe Romita, che era guardasigilli all’epoca di quel referedum».

In diretta web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”, Carpeoro racconta: «Il socialdemocratico Pier Luigi Romita, mio grande amico, fece il ministro molte volte e gli venne sempre garantita l’elezione da tutti i partiti». Era il pegno per custodire il “segreto” della storica manipolazione a cui il padre avrebbe presieduto. Pier Luigi Romita «è stato un politico inaffondabile: e non aggiungo altro». Ulteriori rivelazioni sulla storia italiana del ‘900 sono in arrivo con il libro che Carpeoro sta per pubblicare sui clamorosi retroscena della caduta di Mussolini: la deposizione del 25 luglio 1943 sarebbe stata in realtà concordata con lo stesso “duce” per propiziare un’uscita meno traumatica dell’Italia dal secondo conflitto mondiale. Ma intervennero elementi (non ancora di pubblico dominio, nella storiografia) che fecero precipitare la situazione: l’invasione dell’Italia da parte delle truppe naziste sarebbe stata provocata da un complotto tra esponenti massonici e diplomazia vaticana, che sabotarono il piano iniziale di auto-siluramento “morbido” del regime fascista, aprendo la strada alla fucilazione di Ciano e alla tragedia dell’occupazione e della guerra civile.

Perché il potere del primissimo dopoguerra preferì far vincere la repubblica piuttosto che la monarchia? Intanto perché il sovrano era troppo popolare, afferma Carpeoro: «Umberto II era ritenuto pericoloso, come raccoglitore di consensi, da parte di certi ambienti sia comunisti che democristiani». E poi, soprattutto: «Diventare repubblica è stato uno dei modi per poter trattare diversamente le condizioni di guerra, per De Gasperi, sul tavolo in cui si sono puniti quelli che avevano perso: assumere un assetto democratico ha consentito all’Italia una trattativa diversa, sul tavolo dei perdenti – la Germania ha dovuto pagare con lo smembramento: ci sono stati dei prezzi da pagare». Poi era inevitabile che elementi fascisti venissero traghettati nella nuova repubblica italiana: «Mussolini aveva praticamente creato lo Stato, inteso come struttura burocratica e amministrativa nazionale. Aveva creato l’Inps, l’Inail, l’Iri, la sanità pubblica. Le alte dirigenze non potevano certo essere sostituite traumaticamente: la prima legge repubblicana infatti fu quella della continuità amministrativa, per garantire il funzionamento della macchina statale». Molti, poi cambiarono bandiera: «Montanelli, Malaparte, Giorgio Bocca, Dario Fo erano repubblichini e diventarono di colpo, misteriosamente, partigiani o personalità della sinistra». Era fatale che parte del vecchio milieu confluisse nel nuovo regime. «Non mi meraviglia né mi scandalizza», chiosa Carpeoro, «ma non credo che abbiamo sempre scelto il meglio: potevamo calibrare di più le scelte tra cosa conservare e cosa archiviare».

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Mentre l’ordine mondiale a guida USA è sempre più in crisi e viene apertamente sfidato persino dalle redivive ambizioni egemoniche della Germania, Cina e Russia stanno tenacemente costruendo il proprio ordine mondiale, con una peculiare divisione del lavoro che assegna a Mosca l’onere della difesa e a Pechino l’aspetto economico dell’integrazione eurasiatica. Così, mentre gli USA, che sono la principale causa dell’avvicinamento tra Russia e Cina altrimenti divise da attriti geostrategici, non riescono a sabotare questa cooperazione, sempre più paesi entrano sotto l’ombrello protettivo economico e militare sino-russo, in quella che sembra la realizzazione del peggior incubo geostrategico dell’establishment atlantico. Da The Strategic Culture Foundation.







di Federico Pieraccini, 21/05/2017



(Questo articolo nasce come replica alle tesi che Bobo Lo, analista del Lowy Institute for International Policy, ha esposto a una conferenza del Brooking Institute sulle relazioni sino-russe)



L’ipotesi principale con la quale Bobo Lo comincia a definire la relazione tra Mosca e Pechino è che i due paesi basino la loro collaborazione sulla convenienza e su una convergenza di interessi piuttosto che su un’alleanza. Lo continua spiegando che i principali attriti nella relazione sino-russa riguardano il destino che Putin e Xi riservano all’Europa, in particolare all’Unione Europea, oltre alla differenza di opinioni sul ruolo cinese nel Pacifico. Nel primo caso, Lo afferma che la Russia vuole porre fine al progetto europeo, mentre la Cina spera in un’Europa forte e prospera. Per quel che riguarda la situazione nel Pacifico, secondo questo resoconto, Mosca vuole un equilibrio di potere tra le diverse potenze, senza che il dominio egemonico venga trasferito da Washington a Pechino.



L’unico merito nell’analisi di Lo è l’aver identificato gli Stati Uniti come principale causa dell’avvicinamento strategico tra Mosca e Pechino, certamente un’ipotesi scarsamente presa in considerazione dai responsabili politici statunitensi. Lo ritiene che l’ossessione di Washington sulla cooperazione tra Cina e Russia sia controproducente, anche se pensa anche che gli Stati Uniti non dispongano in realtà della capacità di sabotare o contenere i molti ambiti di cooperazione tra Pechino e Mosca.



Ciò che manca nell’analisi di Lo sono due fattori essenziali che regolano il modo in cui Mosca e Pechino hanno strutturato la loro relazione. La Cina e la Russia hanno compiti diversi nel promuovere il loro ordine mondiale, ovvero preservare la stabilità globale attraverso mezzi militari ed economici. La loro relazione complessiva di cooperazione reciproca va oltre la regione dell’Eurasia e si concentra sull’intero processo di una globalizzazione sostenibile, nonché su come creare un ambiente dove tutti possano prosperare in modo efficiente e sostenibile. Questo implica l’abbandono dell’attuale ordine mondiale unipolare, bellicoso e caotico.



Mosca e Pechino: sicurezza ed economia



Pechino è stato il motore economico del mondo per oltre due decenni e non mostra segni di rallentamento, almeno non troppo. Mosca, contrariamente alla propaganda dei media occidentali, è tornata a svolgere un ruolo non solo a livello regionale, ma come potenza globale. Entrambi questi percorsi di crescita militare ed economica hanno messo Cina e Russia in rotta di collisione con gli Stati Uniti, l’attuale superpotenza globale che tende a dominare le relazioni internazionali con il bullismo economico, politico e militare, grazie a media compiacenti e politici corrotti.



Nel caso di Pechino, il processo di globalizzazione ha enormemente migliorato il paese, consentendo al gigante asiatico di diventare la fabbrica del mondo, con i paesi occidentali che possono esternalizzare il lavoro a basso costo. In questo processo di crescita economica, negli anni Pechino è passata dall’essere un semplice paradiso dell’outsourcing a basso costo per le imprese private ad essere leader mondiale negli investimenti e nei progetti a lungo termine. I dividendi di anni di accumulazione di ricchezza a spese delle nazioni occidentali hanno consentito a Pechino di essere più di un semplice partner strategico per altre nazioni. La Cina guida il processo di globalizzazione, come recentemente sottolineato da Xi Jinping a Davos, in uno storico discorso. La transizione della Cina da innocuo partner dell’Occidente a potenza regionale con enormi investimenti esteri mette il paese in rotta di collisione con Washington. Inevitabilmente, Pechino diventerà l’egemone asiatico, cosa che i politici americani hanno sempre assicurato che non sarà tollerata.



Il pericolo che Washington vede è quello di una Cina emergente come superpotenza regionale che condurrà le danze nel Pacifico, la regione più importante del pianeta. Gli Stati Uniti hanno molti interessi in gioco nella regione e vedono indubbiamente in pericolo il proprio futuro di leader dell’ordine mondiale. La politica del “Perno Asiatico” di Obama puntava proprio a contenere la Cina e limitare il suo potere economico in modo da ridimensionare le ambizioni di Pechino.



Non sorprende che le preoccupazioni di Washington su Mosca riguardino la rinascita delle sue capacità militari. La Russia è in grado di opporsi a determinati obiettivi degli Stati Uniti (vedi Ucraina o Siria) con mezzi militari. La possibilità del Cremlino di limitare l’influenza americana nell’Europa orientale, nel Medio Oriente e nell’Eurasia in generale è motivo di preoccupazione per i responsabili politici americani, che non riescono a contenere la Russia e limitare la sfera d’influenza di Mosca.



In questo contesto, per garantire la stabilità della regione eurasiatica nel suo complesso – in Asia, in Medio Oriente e in Europa – entra in gioco la divisione strategica del lavoro tra Russia e Cina. Per riuscire in questo compito, Mosca ha assunto prevalentemente l’onere militare, condiviso con altre nazioni amiche appartenenti alle aree coinvolte. In Medio Oriente, ad esempio, la partnership di Teheran con Mosca è vista positivamente da Pechino, data la sua intenzione di stabilizzare la regione e di sradicare il problema del terrorismo, di cui nazioni come la Cina e la Russia sono particolarmente preoccupate.



Sia Putin che Xi sono consapevoli che l’influenza degli estremisti islamici nelle regioni caucasiche in Russia o nella regione autonoma dello Xinjiang in Cina, può essere sfruttata opponendosi ai paesi occidentali. In Nord Africa, l’Egitto ha firmato diversi contratti per l’acquisto da Mosca di veicoli militari, oltre ad aver acquistato le due navi Mistral dalla Francia, affidandosi quindi alle forniture militari di Mosca. Non sorprende pertanto che Mosca ed Egitto abbiano collaborato nella situazione in Libia e in Nord Africa in generale.



Nel sud-est asiatico, Mosca cerca di coordinare gli sforzi per raggiungere un accordo tra Afghanistan, Pakistan e India. L’ingresso di New Delhi e Islamabad (Teheran sarà la prossima) nell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO), con la benedizione di Pechino, protagonista della riunione dello SCO del 2017, è un risultato fondamentale e la giusta prospettiva dalla quale osservare l’evoluzione della regione. Mosca sta sostanzialmente agendo come mediatore tra le parti ed è anche in grado di interagire con l’India, nonostante la presenza dominante della Cina. L’obiettivo finale di Mosca e di Pechino è di sradicare il fenomeno terroristico nella regione asiatica, con un occhio a ciò che sta succedendo in Nord Africa e Medio Oriente con l’Iran e l’Egitto.



Verso un Ordine Mondiale Multipolare



Il punto di svolta nelle relazioni tra Mosca e Pechino riguarda la capacità di coinvolgere i paesi terzi sotto l’aspetto militare od economico, a seconda delle esigenze e degli obiettivi di questi paesi. Chiaramente nel campo militare è Mosca a condurre, con la vendita di armi ai partner attuali e futuri e la cooperazione in materia di sicurezza (come con le ex Repubbliche Sovietiche dell’Asia centrale o nel Donbass) e con degli interventi mirati, se necessario, come in Siria. Pechino, d’altra parte, agisce in modo diverso, concentrandosi nel campo economico, con al centro in particolare l’Asian Infrastructure Investment Bank (AIIB).



Iniziative come la One Belt One Road (OBOR) (Una zona Una via, ndt) e la Via Marittima della Seta, hanno lo stesso obiettivo strategico dell’iniziativa militare russa, vale a dire assicurare l’indipendenza della regione in una prospettiva geo-economica, raggiungendo accordi win-win, vantaggiosi per tutti i partner coinvolti. Naturalmente, l’accordo win-win non significa che la Cina vinca e poi vinca nuovamente; piuttosto, comporta una serie di concessioni bilaterali che possano arrivare a soddisfare tutti gli attori coinvolti. Un esempio importante a questo proposito, che spiega il partenariato sino-russo, riguarda l’integrazione dell’Unione Eurasiatica con la Via della Seta cinese. Le preoccupazioni russe sullo status predominante del colosso cinese in Asia centrale sono state mitigate da una serie di soluzioni, come il sostegno del programma di infrastrutture dell’OBOR a quello dell’Unione Eurasiatica. Pechino non è interessata a sostituire il ruolo guida di Mosca nei paesi post-sovietici dell’Asia centrale, ma piuttosto a fornire energia e sviluppo economico significativo alle nazioni particolarmente sottosviluppate che necessitano di importanti investimenti economici, cosa che solo Pechino è in grado di garantire.



Il collegamento dell’Unione Economica Eurasiatica con l’iniziativa One Belt One Road garantisce a Mosca un ruolo primario nel transito di merci da est a ovest, diventando così il punto di collegamento tra Cina ed Europa man mano che il ruolo e la funzione dell’UEE si espandono. Tutti i partecipanti a queste iniziative hanno un’occasione unica per far crescere la loro economia attraverso questa intera rete di collegamenti. Pechino garantisce i soldi per i paesi in difficoltà e Mosca la sicurezza. Lo SCO svolgerà un ruolo importante nella riduzione e nella prevenzione dell’influenza terroristica nella regione, un presupposto per il successo di ogni progetto. Inoltre, anche l’AIIB, e in una certa misura la BRICS Development Bank, dovranno entrare in gioco e offrire garanzie economiche alternative ai paesi potenzialmente coinvolti in questi progetti, al fine di liberarli dalle istituzioni finanziarie internazionali esistenti.



One Belt One Road, e tutti i relativi progetti, rappresentano un’occasione unica in cui tutti i giocatori rilevanti condividono obiettivi comuni e benefici provenienti da questi rivoluzionari rapporti geo-economici. Questo rapporto sicurezza-economia tra Mosca e Pechino è il cuore dell’evoluzione dell’attuale ordine mondiale, dal mondo unipolare al mondo multipolare. Gli Stati Uniti non possono opporsi alla Cina sul fronte economico e alla Russia sul fronte militare. Tutto si riduce a quanto Cina e Russia possano continuare a fornire e garantire un ombrello protettivo economico e militare al resto del mondo.

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Mitt Dolcino
Trump crepa la diga Dem-neocon: Quatar prossimo all’invasione da parte dell’Arabia. Che fine faranno i soldi dei Clinton?


Facciamola semplice: le guerre regionali devono essere sempre combattute dai partners locali e non dalle superpotenze, per evitare di apparire invasore. Dopo la visita di Trump in medio oriente dove è successa la stessa cosa che è capitata negli ultimi 60 anni (leggasi, gli USA hanno garantito piena copertura al Regno ma solo a fronte di un altrettanto pieno allineamento saudita) le consuguenze delle “richieste” fatte dagli americani oggi si materializzano. Ovvero, arabi ed emiratini al seguito interrompono tutte le relazioni (gettando le basi per un conflitto militare) e vanno alla radice del problema che ha causato il caos Siriano, il gasdotto da costruire sul terreno di Assad. Togli il problema – interessi quatarini e globali a vendere gas in Europa spiazzando i russi oltre che gli iraniani nel golfo – e dunque cancelli il problema del terrorismo. Si, perché la famiglia Al Thani è stata l’alleato locale dei clintoniani per destabilizzare (leggasi finanziare) il terrorismo. Tale famiglia è molto legata ai Clinton, si è addirittura favoleggiato di un trasferimento dei fondi della fondazione Clinton appena prima delle elezioni perse proprio in Quatar, presso la locale banca centrale. Bugie? Forse, certo è che Clinton e Al Thani sono stati sempre un tutt’uno ed oggi i giochi cambiano. Faccio presente che la cosa è grossa in quanto a gestire le danze è proprio il rappresentante del maggiore investitore in Quatar, ossia per interposta persona la Exxon dell’ex AD Tillerson oggi Segretario di Stato USA, spero messaggio ricevuto. Chiaramente tale mossa va di pari passo con l’eliminazione dell’alternativa al gas quatarino, ossia la pipeline iraniana; da qui la contemporanea fine della “pace” con Tehran, con grande soddisfazione israeliana (…)

Per inciso, anche Libya ed Egitto sono stati destabilizzati coi soldi quatarini, Gheddafi è stato eliminato con l’intervento dei soci dei Clinton sopra citati, per altro proprietari di Al Jazeera e mai teneri con il nuovo presidente USA, potrei dire sempre allineati alla post verità di CNN e soci. Ossia anche l’Italia ne ha subito certe conseguenze (…). Per inciso, il Qatar è anche titolare dell’azienda dove lavora il figlio di Platini, colui che col suo voto in FIFA fece assegnare i mondiali di calcio del 2022 all’emirato e che quasi in contropartita si comprò poi il PSG, squadra francese di football.

Le conseguenze del cambio di paradigma? Facile. Oltre a scommettere su un PSG in serie B a breve posso solo ricordare il grande Giovanni Falcone col suo “segui il denaro“. Bene, Trump ha davvero seguito il denaro e sta eliminando la radice dei problemi suoi, degli USA, del terrorismo internazionale e del confronto siriano: i soldi del Quatar. E così facendo, avendo convinto gli arabi ad agire, sta anche intaccando le basi economiche di coloro che gli fanno la guerra in casa, follow the money appunto.



E l’Europa? A parte che il fanatismo terroristico che vediamo in EU ha collegamenti stretti con l’entourage globale e globalista che ha destabilizzato mezzo mondo (…), quello che va detto è che si sta oggi rompendo la coalizione Dem-Clintoniana globale azzerando un addendo importante, il Qatar.



Gli altri membri (clintoniani, asse franco tedesco, elites globali e vari oligarchi stile Soros al seguito) mi attendo a breve provino prima a reagire e poi inizieranno a litigare, magari dopo un paio di colpi ben assestati da Jeff Sessions sul ventre molle di certi Dem troppo evidentemente contrari al comune senso del pudore (…). Faccio presente che Francia e Germania cercheranno certamente di rintuzzare l’attacco di Trump, geniale, con una forma di interventismo in medio oriente (le cui conseguenze saranno molto interessanti, conseguenze che deliberatamente non voglio commentare, …).

Vedremo. Certo è che aver convinto l’Arabia a girare le spalle ai quatarini è stato davvero un game changer di quelli che se ne vedono pochi nel corso di una vita e da cui il mondo avrà molto da guadagnare. Al netto delle inevitabili reazioni della coalizione colpita a morte, reazione che nel breve sarà molto temibile.

Continuo a dirlo: dati alla mano io non scommetterei su una sconfitta di Trump, da sud europei c’è anzi da sperare che abbia successo. Anche perché il 99,99% di chi mi legge ricaverebbe enormi danni da una sconfitta trumpiana, si tornerebbe ad una forma di colonialismo franco-tedesco in Europa in cui le colonie sarebbero questa volta i paesi eurodeboli. Alla faccia delle supposte verità (proaganda?) che raccontano i soliti media sussidiati, quelli arruolati nelle fila dei Dem-glabalisti elitari mondiali.

Fantomas

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