sarebbe bello
Su "Italia adozioni" di qualche giorno fa, è uscito un bel pezzo che davvero stamperei e porterei a Renzi io, in prima persona.
Cosa staranno facendo i bambini congolesi delle coppie italiane rientrate in Patria? Staranno pensando ai loro genitori? Si staranno immaginando che mamma e papà torneranno a prenderli? Ora che il tam-tam mediatico si è esaurito, le attuali notizie “importanti” dei media, riguardano la solita politica, il nuovo governo o la sorte dei marò. Ma l’assenza di notizie dal Congo, significa veramente la resa della diplomazia italiana e la mancanza di sostegno politico alle famiglie adottanti?
Con questo appello in forma di racconto, Amaltea inizia la sua collaborazione con Italiadozioni.
È passato un mese da quando 48 genitori italiani sono tornati a casa senza i loro figli, rimasti in Congo impigliati nella rete politico-burocratica che contraddistingue l’iter adottivo, e che nel loro caso si è intricata al punto che non si hanno ancora risposte su quando si scioglierà. Possiamo solo immaginare il dolore di quelle famiglie – i genitori, ma anche i parenti, gli amici – che per tanto tempo hanno atteso di guardare negli occhi i loro figli e che dopo oltre due mesi di passione – nei due sensi, crediamo – sono dovuti ritornare a casa senza di loro. Rientrare in stanze vuote, riprendere il lavoro o il tran tran quotidiano, rimettersi in guerra con la burocrazia, rivivere l’esperienza dell’inseguire il proprio figlio con l’aggiunta che quel figlio c’è, lo abbiamo visto, sappiamo di essere già i suoi genitori, siamo responsabili per lui: come starà? Mangerà? Dormirà? Avrà da vestirsi e lavarsi con decenza? Che penserà?
Quello che forse non possiamo immaginare, e a cui non si è potuto per ovvie ragioni dare voce neanche durante il consumarsi della vicenda, è la condizione in cui si trovano quei bambini. Ho raccontato la loro storia alla mia figlia adottiva più grande, che oggi ha 8 anni ed è arrivata da noi che ne aveva cinque. “Penseranno che se ne sono andati e che non torneranno più”, ha detto dopo aver ascoltato il racconto. Le ho replicato che no, che sicuramente quei genitori li chiameranno al telefono o via Skype, che li rassicureranno ogni volta che possono, che è solo questione di tempo. Ma lei mi ha guardato distante, come a dire: “Sì, sì, ma che ne sai tu?”. E infatti non lo so cosa significa vivere in un istituto o in una casa famiglia o presso una struttura, dove si trovano cioè quei bambini adesso. Sono luoghi in cui il tempo si ferma, in cui nel migliore dei casi l’ora del pranzo rincorre quella della cena e del sonno, senza scansione settimanale, senza stagioni, senza orologi. Per questo tante volte i nostri figli adottivi al loro arrivo sono più piccoli, per questo ci mettono tanto a imparare i nomi dei giorni o dei mesi, per questo si agitano quando proponiamo loro trenta cose da mangiare anziché una o due o li portiamo al parco-in bici-al mare-ai laghi invece di lasciargli il tempo di studiare la loro nuova casa.
Chi in questo momento si sta occupando della pratica dei bambini congolesi dovrebbe sapere che ogni giorno che passa rafforza la loro più intima paura: “Non torneranno a prendermi perché sono cattivo, e nessuno può amare un bambino così”. È un danno grandissimo, che toccherà riparare con una fatica grandissima. Ne siamo almeno tutti un po’ consapevoli, mentre i giorni passano e niente succede? Abbiamo una sufficiente chiarezza del fatto che questi bambini cominceranno a vivere davvero solo quando riabbracceranno i loro genitori e che fino ad allora la loro vita sarà congelata, sospesa, per non dire persa?
Quando ho guardato negli occhi la mia seconda figlia per la prima volta, lei sedeva accanto a suo fratello piccolo in una sediolina di legno dipinto, tipica degli istituti russi. Ha accettato una palla che un’inserviente le porgeva e come primo gesto l’ha tirata al suo nuovo papà. Oggi Anna ha sei anni, e proprio pochi giorni fa le ho chiesto qual era il suo primo ricordo. Sono stata precisa nella mia richiesta: “Non di quando sei arrivata qui, proprio la prima cosa che ti ricordi nella tua vita”. E lei mi ha detto: “Mamma, io mi ricordo che appena nata ho tirato una palla a papà”.
Amaltea