Val
Torniamo alla LIRA
Non dite a Giorgio Gori che il 21 corrente mese il Pd cui appartiene, celebrerà il centenario della nascita del Pci.
Soprattutto non ditegli che nel teatro San Marco di Livorno, che ne fu culla,
campeggiava la grande scritta «Proletari di tutti i Paesi unitevi».
È una questione di stomaco.
Già, pare che quello che il sindaco di Bergamo non riesca a mandar giù,
i destinatari del celebre appello conclusivo del Manifesto di Marx e Engels: sono i proletari, per intenderci.
Non che gli facciano proprio schifo, ma stiamo lì.
Così pare almeno di capire leggendo un suo tweet a commento dell’assalto dei seguaci di Donald Trump al Capitol Hill.
"Chi sono ? Proletari mi verrebbe da dire.
Poveracci poco istruiti, marginali, facilmente manipolabili, junk food e fake news,
marionette nelle mani di uno sciagurato che li ha usati per il suo potere. È così che si diventa fascisti?».
Che prosa padronale, eh?
Più che il pensiero di Gori, sembra l’inizio di Contessa, vecchia canzone militante di Paolo Pietrangeli.
Ricordate?
«Che roba, contessa, all’industria di Aldo, han fatto uno sciopero quei quattro ignoranti: volevano avere i salari aumentati (…)».
La differenza è che a quei proletari che Gori guarda con compassionevole ribrezzo, il cantautore invece inneggia.
E sì, perché una volta la sinistra era quella roba lì: operai e braccianti.
«Compagni dai campi e dalle officine», per restare nel repertorio pientrangeliano.
Al contrario, oggi è quasi tutto ceto medio riflessivo, residenti dei centri storici, pensionati (non al minimo) e tanti banchieri.
I proletari del Pd vivono ormai come i nativi americani: confinati nelle riserve delle sezioni sopravvissute a svolte e a fusioni.
Praticamente sono dei gadget, anzi testimonial del tempo che fu.
Ne rivedremo tanti, immortalati in foto singole e/o di gruppo, per il centenario di Livorno.
Ma a Gori è meglio non farle vedere.
Per un fighetto come lui, scoprirsi discendente dell’incrocio tra Cipputi e una contadina potrebbe rivelarsi fatale.
Soprattutto non ditegli che nel teatro San Marco di Livorno, che ne fu culla,
campeggiava la grande scritta «Proletari di tutti i Paesi unitevi».
È una questione di stomaco.
Già, pare che quello che il sindaco di Bergamo non riesca a mandar giù,
i destinatari del celebre appello conclusivo del Manifesto di Marx e Engels: sono i proletari, per intenderci.
Non che gli facciano proprio schifo, ma stiamo lì.
Così pare almeno di capire leggendo un suo tweet a commento dell’assalto dei seguaci di Donald Trump al Capitol Hill.
"Chi sono ? Proletari mi verrebbe da dire.
Poveracci poco istruiti, marginali, facilmente manipolabili, junk food e fake news,
marionette nelle mani di uno sciagurato che li ha usati per il suo potere. È così che si diventa fascisti?».
Che prosa padronale, eh?
Più che il pensiero di Gori, sembra l’inizio di Contessa, vecchia canzone militante di Paolo Pietrangeli.
Ricordate?
«Che roba, contessa, all’industria di Aldo, han fatto uno sciopero quei quattro ignoranti: volevano avere i salari aumentati (…)».
La differenza è che a quei proletari che Gori guarda con compassionevole ribrezzo, il cantautore invece inneggia.
E sì, perché una volta la sinistra era quella roba lì: operai e braccianti.
«Compagni dai campi e dalle officine», per restare nel repertorio pientrangeliano.
Al contrario, oggi è quasi tutto ceto medio riflessivo, residenti dei centri storici, pensionati (non al minimo) e tanti banchieri.
I proletari del Pd vivono ormai come i nativi americani: confinati nelle riserve delle sezioni sopravvissute a svolte e a fusioni.
Praticamente sono dei gadget, anzi testimonial del tempo che fu.
Ne rivedremo tanti, immortalati in foto singole e/o di gruppo, per il centenario di Livorno.
Ma a Gori è meglio non farle vedere.
Per un fighetto come lui, scoprirsi discendente dell’incrocio tra Cipputi e una contadina potrebbe rivelarsi fatale.