Russia e Stati Uniti si contendono il futuro della Siria (1 Viewer)

alingtonsky

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21 luglio 2017
... il collasso del sedicente Califfato, il cambio della guardia alla testa dell’Arabia Saudita, il peso crescente della Russia e la mancanza di una chiara politica americana stanno sconvolgendo gli equilibri del Medio Oriente. Non siamo più di fronte tanto al tradizionale scontro tra sunniti e sciiti, quanto a un intreccio di nuovi conflitti e di nuove alleanze dall’esito quanto mai incerto. Perfino Israele, che finora si era tenuta abilmente fuori dalla mischia, rischia di rientrarvi, perché non può
restare inerte davanti al tentativo dell’arcinemico iraniano di creare un «corridoio sciita» che, attraverso Iraq, Siria e Libano (dove ormai i suoi alleati Hezbollah la fanno da padroni) gli consenta di arrivare alle sponde del Mediterraneo: a Gerusalemme, infatti, ci si prepara a una nuova avventura militare libanese, per impedire questo tentativo di accerchiamento.

Uno dei principali fattori scatenanti di questo rimescolamento di carte è stata la decisione di re Salman d’Arabia di nominare il figlio trentunenne Mohammed bin Salman erede al trono, al posto di Mohammed bin Nayef, nipote del re Salman d’Arabia, ex ministro degli Interni e uomo di fiducia degli americani. Questa settimana è trapelato che si è trattato di un vero e proprio golpe, con il principe Mohammed bin Nayef convocato a palazzo e chiuso in una stanza per una notte fino a quando non ha rinunciato ai suoi diritti. Sembra che, in seguito, il Consiglio del Regno abbia ratificato la decisione con 31 voti su 34, ma non tutti nella famiglia reale l’hanno presa bene.

La liquidazione del cugino ha infatti reso il giovane Mohammed bin Salman, che già era ministro della Difesa e a capo dell’Aramco, uno degli uomini più potenti della regione, con idee «rivoluzionarie». I risultati si vedono già: è stata intensificata la guerra contro gli Houti dello Yemen, alleati di Teheran; il gruppo delle potenze conservatrici sunnite ha messo sotto scacco il Qatar, accusato di finanziare il terrorismo, alimentare il dissenso attraverso la Tv Al Jazeera e soprattutto di avere rapporti troppo stretti con i nemici iraniani; una sorte simile potrebbe toccare a breve all’Oman, sunnita ma anche lui non abbastanza allineato con le altre potenze del Golfo nello scontro con Teheran. Inoltre, Mohammed bin Salman si è messo in rotta di collisione con la Turchia, anche lei sunnita ma grande sostenitrice del Qatar, dove ha una base militare. Infatti, il piccolo sultanato ha potuto resistere finora a tutte le pressioni, aggirando l’embargo impostogli grazie all’aiuto proprio di Ankara e di Teheran. Ma l’ultimatum, anche se scaduto, rimane in piedi, e il giovane erede al trono saudita non è tipo da pazientare all’infinito. Per coprirsi le spalle, ha cercato di ristabilire un rapporto più stretto con gli Usa in occasione della visita di Trump a Riyad, ma il presidente americano, pur ribadendo la sua ostilità agli accordi conclusi da Obama con l’Iran, non sembra avere le idee molto chiare su come procedere in questo guazzabuglio.

Nonostante la riconquista di Mosul, l’Iraq, che gli americani continuano ad assistere con almeno diecimila uomini, non riesce a ricomporre la sua unità. Le milizie sciite decisive nella battaglia per l’ex capitale del Califfato sono già in forte attrito con quel che rimane della popolazione sunnita della zona, e poco più a nord i Curdi, che si sono rivelati essenziali sui campi di battaglia, si preparano a un referendum per trasformare la loro già larga autonomia in indipendenza. Ma non vanno d’accordo tra loro e neppure con i Curdi siriani (gli eroi del famoso assedio di Khobane che ha segnata la prima seria confitta dell’Isis) che i turchi considerano dei terroristi. In Iraq ci siamo anche noi, a guardia della grande diga sull’Eufrate, alla cui riparazione lavora una ditta italiana; ma ormai la nostra presenza ha sempre meno senso.

Nella vicina Siria, la situazione è se possibile ancora più intricata, perché è piena di conflitti «triangolari». Il Libero esercito siriano, appoggiato dagli Usa (almeno fino all’incontro «segreto» Trump-Putin ad Amburgo) ma composto da un mix di milizie non sempre in armonia tra loro, combatte su due fronti: da un lato, è con i Curdi il principale protagonista della battaglia di Raqqa, tutt’altro che finita, dall’altro è in conflitto con le forze di Assad ed i suoi alleati per impedire loro di riappropriarsi di una fetta troppo grande del Paese. La tregua negoziata da Trump e Putin ad Amburgo nella provincia meridionale di Deraa, infatti, non c’entrava con l’Isis ma riguardava proprio questo scontro, che ha già prodotto l’abbattimento di un aereo siriano da pare degli americani e una conseguente brusca reazione dei russi, che hanno intimato agli aerei Usa di non penetrare più in quei cieli.

Per molti osservatori, non solo la regione non potrà mai essere veramente pacificata, ma se anche uno solo dei protagonisti facesse un colpo di testa, il conflitto potrebbe assumere dimensioni ancora più preoccupanti.

Livio Caputo

Il Medioriente un fronte bollente
 

tontolina

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Daesh ha i mesi contati. Grazie ad Assad

Daesh ha i mesi contati. Grazie ad Assad –


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Lo Stato Islamico ha i mesi contati; ed il suo nemico principale sono le forze siriane di Assad.
Lo affermano due studi del Conflict Monitor di IHS Markit una delle società leader al mondo per analisi geopolitiche ed economiche.
La prima ricerca individua i soggetti più attivi nella controffensiva anti-Isis.
La seconda, analizza la perdita di territorio occupato dall’Isis e la contrazione delle forme di sostentamento economico necessarie a condurre la guerra.

LA PRIMA RICERCA
La prima analisi IHS rivela che nell’ultimo anno, il vero nemico di Daesh sono state le forze governative siriane: “tra il primo aprile 2016 e il 31 marzo 2017, il 43% di tutti i combattimenti dello Stato Islamico in Siria è stato diretto contro le forze del presidente Assad e solo il 17% contro le Forze Democratiche Siriane (SDF) sostenute dagli Stati Uniti”. I restanti, dispersi negli scontri tra fazioni sunnite e gruppi jihadisti.
In pratica, i famosi “ribelli moderati” armati e finanziati dall’Occidente non sono considerati un nemico da Daesh.

Columb Strack, analista senior per il Medio Oriente di IHS Markit, ha dichiarato senza mezzi termini:

È una realtà sconveniente, ma qualsiasi azione americana per indebolire il governo siriano, aiuta lo Stato islamico e ad altri gruppi jihadisti

LA SECONDA RICERCA
La seconda analisi si sofferma sulla prossima prevedibile fine del Califfato causata da due evidenze:

  1. PERDITA DEL TERRITORIO: da Gennaio 2015 a Giugno 2017, Daesh ha perduto il 60% del territorio conquistato che oggi si attesta su 36 mila kmq; un’area grande più o meno quanto il Belgio.
  2. CALO INTROITI: le entrate dello Stato Islamico sono passate da 81 milioni di dollari nel secondo trimestre 2015 a 16 milioni di dollari nel secondo trimestre 2017, con un calo dell’80%, su tutte le attività finanziarie: contrabbando di petrolio, tassazioni, confische, altre attività illecite (come la vendita dei reperti archeologici dei siti occupati che, secondo l’ambasciatore iracheno all’ONU garantiva già nel 2015, 100 milioni di dollari l’anno).
Ovviamente, secondo gli analisti di IHS, “sono le perdite territoriali il principale fattore che contribuisce al tracollo economico dello Stato Islamico”. Perdere il controllo di città altamente popolate come Mosul o aree ricche di petrolio come Raqqa e Homs non può non avere un “impatto particolarmente significativo sulla capacità del gruppo di generare entrate”.

D’altro canto, già nel 2014, una ricerca Thomas Reuters affermava che lo Stato Islamico era in grado di produrre entrate annue di 2,9 miliardi di dollari. Una cifra impressionante che spiega la sua forza militare ma anche mediatica ed organizzativa.



UN CROLLO IMMINENTE

Gli analisti prevedono ormai un crollo imminente forse già entro la fine dell’anno, grazie alla pressione intensa che siriani, iracheni e forze della coalizione stanno facendo. Probabilmente il progetto del Califfato si esaurirà con l’occupazione di qualche sacca urbana di resistenza riconquistabile dagli eserciti siriano e iracheno entro il 2018.

Questo ovviamente avrà dei contraccolpi a partire dall’intensificarsi degli attacchi terroristici all’estero;
non solo in Europa ma anche nei paesi arabo-sunniti, qualora dovessero iniziare a prendere le distanze dall’Islam più radicale, (a partire dall’Arabia Saudita che l’Isis l’ha creato e la cui ideologia wahabita è alla base del jihadismo di Daesh).

Ma come si è potuti arrivare a questo veloce declino del progetto del Califfato islamico?

UN PASSO INDIETRO
Era il 29 Giugno del 2014 quando l’autoproclamato Califfo, Abū Bakr al-Baghdādī, annunciava la nascita dello Stato Islamico.
In quel momento oltre 45 mila kmq di territorio compresi tra Siria e Iraq, giacevano sotto il controllo di Daesh; un anno dopo sarebbero stati 95 mila (metà della Siria ed un terzo dell’Iraq) in un’avanzata che sembrava inarrestabile: Mosul, Tikrit, Samarra, Ramadi, Kobane, Aleppo, Homs, Palmira, centri strategici o città importanti, tutto sembrava capitolare di fronte alle empie orde mercenarie tafkire create nei laboratori dell’intelligence saudita e della Cia.

L’esercito siriano (uno dei più efficienti in Medio Oriente) non sembrava in grado di porre resistenza alla doppia offensiva; ad est di Daesh e a nord e a sud dei ribelli moderati (in realtà gruppi jihadisti come Al Nusra), armati dall’Occidente; i soldati di Assad soccombevano sul campo di battaglia (nonostante alcuni atti di eroismo leggendario dei suoi reparti) e sui media, con la mistificazione di “guerra civile” quella che altro non era che una guerra d’aggressione ad una nazione sovrana, utilizzando “per procura” Isis e ribelli moderati.

Dall’altro lato dello scenario, l’esercito iracheno non era in grado di porre una resistenza né di valore né di organizzazione militare e a nord, le milizie curde ben più motivate e coraggiose, potevano al massimo arginare l’espansione ma non segnare azioni di riconquista.

La coalizione internazionale messa in piedi da Obama era solo una finzione che consentiva all’America e ai suoi alleati di contribuire all’unico vero obiettivo: abbattere Assad e trasformare la Siria in una seconda Libia da spartirsi in aree di influenza con Turchia e Arabia Saudita. In altre parole, dietro la retorica della lotta al terrorismo, Washington utilizzava l’Isis per i suoi obiettivi geopolitici come abbiamo raccontato più volte (per esempio in questo articolo del Gennaio scorso)

Questo scenario, che sembrava irreversibile, s’interrompe nel settembre 2015 quando la Russia di Vladimir Putin decide di scendere in campo in aiuto del suo alleato storico siriano e a difesa dei propri interessi geopolitici. Obiettivo di Mosca: annientare lo Stato Islamico il cui consolidamento è una minaccia anche per l’intera Asia Centrale.

L’arrivo dei russi (e degli alleati iraniani) cambia repentinamente le sorti del conflitto. L’esercito siriano ora può riorganizzarsi, ottenere coperture aerea e missilistica, potenza di fuoco micidiale (ad esempio i temibili Kalibr che hanno disorientato la Nato) e nuovi mezzi di supporto militare mai sperimentati; sul terreno, le milizie Hezbollah e i reparti d’élite iraniani fanno la differenza.
In 5 mesi lo scenario cambia completamente, tanto che l’America di Obama è costretta ad iniziare la guerra sul serio a Daesh per evitare che la sua sconfitta diventi solo merito della Russia.

Con l’elezione di Donald Trump, la gestione della crisi siriana passa nelle mani totali del Pentagono; ed è il realismo dei militari (lo stesso che li spinse invano ad opporsi alla folle guerra in Libia voluta dalla Clinton, dall’élite neo-con e dalla Cia) a dettare l’agenda della nuova Casa Bianca.
Dietro l’apparente gioco delle parti (“Assad se ne deve andare”) Trump fa scelte concrete sulla Siria a partire dalla recente decisione di bloccare i finanziamenti ai “ribelli moderati” anti-Assad (di cui abbiamo dato notizia in tempi non sospetti).

Non è detta l’ultima parola, ma forse la crisi siriana ha superato il suo punto critico.

Su Twitter: @GiampaoloRossi

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alingtonsky

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L’inaspettato realismo di un liberal-democratico: Obama, la Siria e la sottile linea rossa | Notizie Geopolitiche

L’INASPETTATO REALISMO DI UN LIBERAL-DEMOCRATICO: OBAMA, LA SIRIA E LA SOTTILE LINEA ROSSA
24 novembre
di Marco Passero

Uno dei pilastri della dottrina Obama è stato un rinnovato focus sul teatro dell’Asia/Pacifico, dove è maggiore e più profonda la rete d’interdipendenze strategiche ed economiche che coinvolgono gli Stati Uniti, anche per contenere la Cina in quanto rising power potenzialmente revisionista. Malgrado la propensione per questo pivot to Asia, con un graduale disimpegno da un Medio Oriente ingestibile, gli Stati Uniti hanno tuttavia mostrato interessi ancora forti nell’area del Greater Middle East. Per quanto riguarda la crisi siriana, l’iniziale posizione interventista di Obama aveva spiazzato quanti erano a conoscenza del suo essere un presidente più hamiltoniano che jeffersoniano, ma fu l’improvviso cambio di direzione a spiazzare chi attendeva solo il via libera definitivo da Washington per colpire Bashar al-Assad.

Siria, la rivolta e la repressione.
Nel marzo 2011 in Siria è scoppiata una guerra civile tra le forze governative e quelle dell’opposizione nota come guerra civile siriana o crisi siriana. Essa viene inserita nel contesto più ampio delle primavere arabe: anche nel caso del regime di Damasco, infatti, il punto di partenza è individuabile in alcune proteste popolari che hanno interessato il mondo arabo nei primi mesi di quell’anno.
Gli obiettivi di una protesta inizialmente improntata ad un generico anelito di libertà e finalizzata a spingere il presidente siriano al-Assad alle dimissioni, eliminando la struttura istituzionale monopartitica del Baath (Schiavone 2013), erano la fine degli arresti arbitrari, la liberazione dei detenuti politici, la libertà di stampa e d’informazione e l’abolizione dell’articolo 8 della Costituzione che definisce il partito Baath “guida dello Stato e della società”.
Il 15 marzo 2011 una massiccia protesta antiregime coinvolse per le strade del paese migliaia di persone stanche di divisioni sociali, tribali e religiose esacerbate dalla dittatura siriana. Dopo aver preso le armi per reagire agli apparati di sicurezza, il 3 luglio ad Hama i dimostranti diedero vita a un’imponente manifestazione antigovernativa e la repressione da parte del regime fu durissima.

La reazione americana e la sottile linea rossa di Obama.
Quando arrivò alla Casa Bianca, Obama aveva come obiettivo quello di porre fine all’impegno militare in Medio Oriente. Non cercava mostri da sconfiggere ed era particolarmente attento a non promettere la vittoria in conflitti che riteneva impossibili da vincere. In un’intervista rilasciata al giornalista Jeffrey Goldberg egli dichiarò che non avrebbe fatto la fine di George W. Bush, ritrovatosi tragicamente esposto in Medio Oriente e colpevole di aver riempito di soldati americani gli ospedali militari: “Sganciare bombe su qualcuno solo per dimostrare di essere pronti a farlo è il motivo peggiore per usare la forza”; il primo compito di un presidente americano sulla scena internazionale dopo Bush era, dunque, “non fare stupidaggini” (Goldberg 2016). Per Obama – secondo il quale un presidente non dovrebbe far correre gravi rischi ai suoi soldati per scongiurare catastrofi umanitarie a meno che queste non rappresentino un’esplicita minaccia alla sicurezza del paese – la Siria era una strada potenzialmente scivolosa come l’Iraq. Egli era convinto che poche minacce avrebbe potuto giustificare un intervento militare in quell’area.
Tuttavia nell’estate 2012, quando si sospettava che il regime di al-Assad stesse valutando l’opportunità di usare armi chimiche, Obama dichiarò: “Siamo stati molto chiari con il regime di al-Assad: la linea rossa per noi è quando cominciamo a osservare una serie di armi chimiche che entrano in circolazione o vengono usate. Questo cambierebbe i calcoli nella mia equazione (The White House Office of the Press Secretary 2012).
Considerata la sua contrarietà a un intervento, la netta linea rossa che Obama stava tracciando era sorprendente, anche se si trattava di una postura pubblica difensiva, non intimidatoria. L’obiettivo era scongiurare l’incubo di intervenire a Damasco e, notificando ad al-Assad l’unica mossa da evitare per non scatenare una più veemente reazione, Obama fissava una linea proprio perché essa non venisse superata. Si scommetteva sulla razionalità del dittatore siriano il quale, secondo i calcoli del presidente, mai avrebbe segnato la propria condanna con un attacco chimico.

L’escalation di al-Assad e il non-intervento Usa.
Il 21 agosto 2013 la guerra civile siriana registrò la pagina più cupa sin dall’inizio dei disordini: le forze pro-Assad bombardarono diversi sobborghi a sud-est di Damasco usando missili contenenti il gas nervino sarin che colpisce il sistema nervoso. Il rapporto redatto da un team delle Nazioni Unite appositamente incaricato fu la prima e immediata conferma proveniente da una fonte indipendente e ufficiale dell’uso effettivo di armi chimiche (UN 2013). Il mondo intero aveva ascoltato le dichiarazioni di Obama e colto la fermezza dei suoi avvertimenti riguardo a un intervento non appena la linea rossa fosse stata varcata.
Subito dopo l’“attacco chimico di Gutha” Obama rafforzò il messaggio del segretario di Stato John Kerry che aveva sottolineato quanto fosse in gioco la “credibilità americana” (Us. Department of State 2013): “È importante riconoscere che quando vengono uccise più di mille persone, tra cui centinaia di bambini innocenti, con un’arma che secondo il 98-99% dell’umanità non dovrebbe essere usata neanche in guerra, e non viene intrapresa nessuna azione, allora stiamo mandando il segnale che quella norma internazionale non significa molto. E questo è un pericolo per la nostra sicurezza”. (The White House Office of the Press Secretary 2013a).
Obama sembrava dunque essere giunto alla conclusione che in Siria fosse davvero in gioco la credibilità della deterrenza americana, e un eventuale danno dal Medio Oriente avrebbe potuto estendersi anche ad altre regioni del mondo. al-Assad apparentemente era riuscito a spingere il presidente americano su una posizione che egli non aveva mai pensato di dover assumere e venne pubblicamente accusato dalla Casa Bianca di essersi macchiato di un crimine contro l’umanità (The White House Office of the Press Secretary 2013b). Il discorso di Kerry sulla credibilità statunitense aveva segnato il culmine di quella campagna, e in effetti Obama aveva già ordinato al Pentagono di preparare la lista dei bersagli, con cinque cacciatorpediniere nel Mediterraneo pronti a lanciare missili da crociera sugli obiettivi del regime. Ciononostante in quelle ore Obama era “particolarmente inquieto” (Goldberg 2016), si era convinto che stava per cadere in una trappola, alimentata dalle aspettative su quello che il presidente degli Stati Uniti avrebbe dovuto fare. Decise dunque di comunicare ai funzionari della sicurezza nazionale di voler fare un passo indietro, e il fatto di cambiare idea il giorno prima dell’attacco costituì uno shock per tutti.
Ma c’era un fattore chiave alla base della decisione e aveva a che fare con il timore di un Assad capace di resistere all’attacco ed ergersi come il dittatore capace di azzerare il temuto intervento americano: “un nostro attacco avrebbe potuto infliggere qualche danno, ma non avrebbe eliminato le armi chimiche. A quel punto mi sarei trovato di fronte alla prospettiva di un al-Assad che sopravvive e dice di aver sconfitto gli Stati Uniti, che avevano agito in assenza di un mandato dell’Onu. Alla fine ne sarebbe uscito rafforzato invece che indebolito” (Goldberg 2016).
Obama sapeva che la sua decisione di rinunciare agli attacchi aerei e di consentire che la violazione di un suo diktat restasse impunito avrebbe potuto essere giudicata in modo spietato. Il 30 agosto 2013 potrebbe infatti essere ricordato come il giorno in cui egli permise che il Medio Oriente sfuggisse dalle mani statunitensi per passare in quelle della Russia, dell’Iran e dello Stato Islamico. O magari esso passerà alla storia come il giorno in cui Obama impedì agli Usa e al mondo intero di entrare nell’ennesima disastrosa guerra civile.

Bibliografia
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28/10/2017
Un'indagine ha trovato le prove che dimostrano che il regime di Damasco ha usato del gas mortale nell'attacco dello scorso aprile contro la popolazione siriana che ha ucciso oltre 90 persone

Le forze del presidente siriano Bashar Al Assad hanno utilizzato del gas mortale nell’attacco di Khan Sheikoun dello scorso aprile in Siria che ha ucciso oltre 90 persone. E’ quanto emerge da un’inchiesta congiunta di Onu e Opac. Una conferma secondo l’ambasciatrice Usa all’Onu, di quanto sospettato, ovvero dell’uso di armi chimiche da parte di Damasco. Per l’ambasciatore britannico all’Onu, è arrivato il momento delle responsabilità:

“Penso alla Russia affinchè possa partecipare in questo”, ha detto,“la Russia cosi come tutti i paesi membri del Consiglio di sicurezza devono intervenire, altrimenti verranno prese le misure previste dall’articolo 7, nel caso in cui qualcuno abbia fatto uso di armi chimiche in Siria. E’ ormai ora che la Russia abbandoni Assad e che venga fatta giustizia”

Dagli Stati Uniti tramite l’ambasciatrice Haley è arrivato l’appello a quei paesi che sostengono Damasco di smettere di favorire il regime. Gli Usa avevano ammonito Mosca e Teheran, per il ruolo di complici negli attacchi contro la popolazione siriana. Un’avvertimento definito “inaccetabile” dal cremlino.

Siria: Onu, Assad ha usato armi chimiche



Ultima modifica il 27/10/2017 alle ore 11:53
GIORDANO STABILE
INVIATO A ERBIL

Il rapporto ufficiale dell’Onu conferma le accuse a Bashar al-Assad: è stato il governo siriano a condurre l’attacco chimico a Khan Sheikhoun del 4 aprile scorso, costato la vita a 87 persone. Il rapporto del Comitato investigativo congiunto (Jim) delle Nazioni Unite e dell’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche (Opac) stabilisce che «la Repubblica araba siriana è responsabile del rilascio di gas sarin».
...
L’Onu conferma le accuse: Assad ha usato armi chimiche



http://www.ansa.it/sito/notizie/mon...ici_9da0cbcb-9628-4a76-a510-4622d646203b.html
 

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Colpo di scena a Deir ez-Zor, le SDF hanno cacciato Isis fino al confine iracheno nella zona di Abu Kamal (Al Bukamal). I combattenti siriani hanno spinto contro Daesh lungo tutta la direttrice a est dell’Eufrate, fino ad arrivare alla frontiera. Grazie a ciò, lo Stato Islamico è stato isolato in un grande gruppo nella Middle Euphrates Valley (MERV). Peraltro, i jihadisti sono chiusi al suo interno. A oriente ci sono le truppe irachene che stanno conducendo un’operazione ad Al-Jazeera tra Anbar, Salahuddin e Nineveh. A occidente, Cizire Storm ha stabilito una serie di presidi sulla strada da As Suwar ad Ash Shaddaday, che costeggia il Khibur. Il fiume, infatti, è diventato lo spartiacque tra le zone controllate dalle forze a guida curda e tra quelle ancora in mano ai miliziani. Qui si combatterà la battaglia finale per sconfiggere definitivamente Isil nei due paesi.
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Intanto, l’esercito siriano (SAA) sta attaccando Isis in tutte le zone da Deir ez-Zor fino ad Abu Kamal, a ovest dell’Eufrate. In giornata ci sono stati numerosi raid aerei ad As Sayyal, Suh Rifai e Hasrat. Obiettivo dei militari di Damasco è indebolire le difese Daesh in previsione di un’imminente offensiva di terra su tutto il territorio.
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Siria, le SDF cacciano Isis fino al confine con l’Iraq vicino Abu Kamal



Halt in US support not a problem, but not visible yet: Syrian Kurds


http://www.rudaw.net/english/opinion/26112017
 

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