IL CRASH DEL '29
Il crash di Wall Street del 1929 entrò nella fase più drammatica il 10 ottobre, culminata il 13 novembre con una perdita del Dow Jones nell’ordine del 43% in un mese; in questa profonda e rapida correzione si poté assistere a un rimbalzo tecnico intermedio di due sedute alla fine di ottobre, dove l’indice salì del 18,7% senza peraltro spingersi oltre il livello del 38,2% di recupero di Fibonacci, ripiombando poi verso il basso fino al minimo del 13 novembre. Le condizioni di base furono peraltro abbastanza differenti da quelle attuali: il massimo storico toccato dall’indice poco più di un mese prima, il 3 settembre 1929, costituì infatti un punto di notevole sopravvalutazione delle quotazioni di borsa, dopo quattro anni di rally che avevano quasi quadruplicato il valore del Dow Jones (nei soli mesi estivi l’indice avanzò del 31%). Il 13 novembre i corsi di Wall Street tornarono semplicemente sul livello di metà anno precedente.
La reazione che ne seguì, suddivisibile in due fasi e culminata nell’aprile del 1930, non riuscì comunque ad andare oltre il 50% di recupero del tracollo autunnale, innescando una nuova discesa che nel giugno del 1930 ricondusse la borsa americana in prossimità dei minimi del 1929. La prima fase della reazione si tradusse in un’ondata di acquisti molto esplosiva di matrice emotiva, dove la successiva correzione si arrestò sul minimo che ha preceduto il punto più basso toccato il 13 novembre. La seconda fase si dimostrò invece più moderata ma più estesa, con correzioni intermedie di debole portata.
Nell’ottobre del 1930, un anno esatto dopo l’avvio della crisi, Wall Street aprì nuovi minimi che condussero, nell’ambito di un trend ribassista in cui tutti i massimi e i minimi intermedi furono rigorosamente decrescenti, al punto molto più basso toccato nell’estate del 1932: siamo nella grande depressione economica, i cui danni consentirono al mercato americano di recuperare il minimo del ’29 solamente all’inizio del 1950.
LA CRISI DEL 1974
Hanno basi più agganciate all’economia i forti ribassi di Wall Street accusati nel 1969, 1970 e 1974: il tema di fondo fu infatti la recessione che colpì gli Stati Uniti nel 1970 e nel 1974, abbinata nel primo caso alle tensioni sociali generate dalla guerra in Vietnam e nel secondo caso allo shock petrolifero che fu concausa del brusco rallentamento economico.
Nel primo caso la correzione iniziò sul finire del 1968, dopo che il Dow Jones testò per la seconda volta quota 1.000 (l’altra fu a inizio ’66): la fase correttiva di quel tempo può essere scomposta in tre ondate ribassiste, dove la prima e l’ultima furono le più veloci e profonde. La reazione che si inserì al termine della prima, nell’ordine dell’8%, non fu in grado di varcare la soglia del 38,2% di recupero del terreno perduto tra maggio e luglio del ’69, innescando quindi una nuova discesa che accelerò non appena vennero ceduti i minimi della prima ondata di vendite. Il rimbalzo registrato nel maggio del 1970 al culmine della terza ondata di vendite, nell’ordine del 12%, procurò invece un recupero del 50% rispetto all’ultima discesa e la veloce correzione che ne seguì, mantenendosi a una buona distanza rispetto al minimo toccato due mesi prima, convinse il mercato a ripartire: lo slancio divenne più robusto, con massimi e minimi relativi visibilmente crescenti, quando fu varcata la soglia del 50% di recupero rispetto all’ultima ondata di vendite, accelerando ancora di più non appena venne superato anche il livello che segnava la metà strada del ritorno verso il massimo storico da cui era partito l’intero ripiegamento.
L’arretramento del 1973-1974 è stato invece capovolto da un evidente doppio minimo disegnato dal Dow Jones nell’ottobre e nel dicembre del ’74, interrompendo una discesa che solo nei mesi di agosto e settembre abbatté i corsi del 27,5%. Il doppio minimo conteneva una distanza del 15% tra i due minimi e il massimo intermedio, varcato il quale l’indice si slanciò verso un celere recupero del terreno perduto: già a luglio del 1975 Wall Street riprese il 61,8% dell’intera discesa iniziata nel gennaio del ’73, che aveva dimezzato il valore del Dow Jones.
IL TONFO DEL 1987
Qualcuno indica i sistemi automatici di trading e l’uso già da allora della leva finanziaria (nuove disponibilità in cambio di azioni in garanzia) come responsabili, ma in realtà non è chiara la ragione che portò Wall Street a un’impressionante correzione venerdì 16 e lunedì 19 ottobre del 1987, quando il Dow Jones perse il 30% in due sole sedute, di cui il 25% nella sola giornata di lunedì. Anche in questo caso il listino americano proveniva da una corsa che procurò il raddoppio delle quotazioni negli ultimi due anni (chi non si ricorda Michael Douglas nel film “Wall Street”?), conducendo il mercato al massimo storico segnato due mesi prima dell’improvviso crollo, nell’agosto del 1987. Nonostante il recupero del 15% portato a casa nelle due sedute seguenti, l’indice si mosse poi nell’ambito del range delimitato dal massimo e minimo della seduta del 19 ottobre per i successivi 14 mesi, ripartendo al rialzo nel gennaio del 1989. Non ci furono quindi le paventate conseguenze in analogia al ’29: la Federal Reserve seppe infatti intervenire con abbondanti dosi di liquidità per fronteggiare l’inevitabile emergenza monetaria.
LO SBOOM DEL GIAPPONE
La situazione del Giappone a inizio ’90 è graficamente simile al 1929 di Wall Street: dopo quattro anni che portarono il Nikkei a triplicare la quotazione, spinto dal boom del comparto immobiliare e da quello della finanza, la prima seduta di borsa del 1990 chiuse di fatto un decennio d’oro per il Sol Levante, alzando il sipario a una drammatica inversione di rotta: nel gennaio del 1990 il Nikkei iniziò una decisa correzione, dove le tre settimane di tenuta registrate a partire da metà mese lasciarono poi spazio a violente ondate di vendite. L’indice si trovò a perdere il 28% entro la fine di marzo, rimbalzando poi del 13,8% nella reazione culminata in maggio (il rimbalzo si innescò dopo una figura di doppio minimo) per poi sprofondare nei mesi successivi fino a retrocedere del 47% al termine di settembre. Anche in questo caso, come nel ’29 americano, la reazione di un certo respiro che nacque dopo il culmine della caduta non riuscì ad andare oltre il 50% di recupero del tracollo.
Le Autorità giapponesi sottovalutarono l’accaduto, senza agire prontamente a sostegno del comparto immobiliare e della finanza: il dissesto delle banche giunse puntuale e con esso una pesante e prolungata recessione che ricorda in piccolo la grande depressione americana; nel 1992 il Nikkei aprì infatti nuovi minimi fino a quota 14.000 punti, ripetutamente testati negli anni successivi e infine nuovamente ceduti all’inizio del 2001. Oggi il Nikkei quota attorno a 8.500 punti, non molto al di sopra del punto più basso degli ultimi 18 anni segnato nel 2003 a 7.700 punti. (riproduzione riservata)
Massimo Brambilla