Cento ne pensa, ma neanche una la porta a casa.
Matteo Renzi, a differenza di altri esponenti di Italia viva,
più che un liberale può essere definito un politico pragmatico, decisamente post-ideologico,
che purtuttavia non lesina alleanze al limite dell’ossimoro concettuale
con esponenti di movimenti e correnti di pensieri ormai rottamati dalla Storia.
E non solo sul piano teorico, finanche da un punto vista squisitamente empirico.
Alleanze peraltro modellate sulla falsariga di esempi bollinati come coalizioni fallimentari.
Detto in altri modi: si parla di campo largo o larghissimo ma in fondo si scrive Unione,
un patto che mise assieme oltre dieci partiti, distinti e politicamente pure distanti,
stipulato con il solo scopo di battere il centrodestra allora guidato da Silvio Berlusconi.
Al tempo, per formalizzare una convergenza d’intenti che, nei fatti, era pressoché nulla,
venne allestita addirittura una fabbrica del programma che partorì un tomo di centinaia di pagine
dove ogni tematica fu diluita in un profluvio di parole al fine di sterilizzare ogni singola presa di posizione.
Il tutto, ripeto, per detronizzare il Cav.
Obiettivo che riuscì, però si sa, o quantomeno si dovrebbe sapere:
i voti non si prendono per vincere, ma per governare.
E, invece, quest’ultimo infinito non venne mai contemplato da quel caravanserraglio partitico.