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La stampa in Italia per qualcuno è libera solo se attacca il governo:
a questo in Italia siamo abituati,

ma è inaccettabile che il Parlamento europeo faccia propria questa impostazione in modo acritico.

Trovo paradossale che chi dovrebbe garantire il pluralismo e dare voce a più soggetti possibili
decida, invece, di limitare il dibattito ascoltando giornalisti e stakeholder in alcuni casi chiaramente di parte.

La Commissione Ue faccia retromarcia e rimedi a questo clamoroso errore.

E la sinistra, che non perde mai occasione per urlare alla deriva autoritaria, condanni con fermezza questa scelta.

Un dibattito ampio e plurale dovrebbe essere interesse di tutti”.


A quanto pare, invece no.
 
Magari qualcuno avrà letto gli ultimi post sull'Intelligenza Artificiale e avrà pensato: ChatGPT condiscendente? Lo dice lui...

Non esattamente.

Mettiamo che uno schizofrenico dica all'IA che ha smesso con i farmaci per avanzare nel suo percorso spirituale.
Se riceve come risposta "Grande! Sono con te!" forse forse qualche problema si pone...

Il grosso problema è che a quanto pare gli utenti la adorano, l'IA accondiscendente.

Quindi c'è un evidente problema di sbilanciamento tra quello che i Large Language Models sono effettivamente
e il significato che viene dato loro da una parte significativa del grande pubblico
- che lo usa come un interlocutore privilegiato.

Come psicologo, per esempio.
 
Da un certo punto di vista
se le piattaforme social soddisfano un bisogno di interazione umana, per quanto mediata,
pare che l'IA generativa per molti risponda a un bisogno di interazione del tutto simile,
soddisfatti da sistemi solo apparentemente antropomorfi
e in qualche modo collocati alla pari dell'utente (come un amico)
al di sopra di lui (come un oracolo, mi ha detto qualcuno che conosco).

Come Sabine Hossenfelder fa notare nel suo video ci sono ragioni di marketing nella compiacenza delle IA generative verso l'utente.

E un marketing del genere si costruisce sui significati percepiti dal consumatore o a lui fatti percepire.

Perché stiamo parlando di aziende in cui sono stati investiti miliardi
e un ritorno sull'investimento ci DEVE essere in un modo o nell'altro.

Forse qualcuno di voi avrà notato che l'uso gratuito di alcuni di questi sistemi sta venendo progressivamente ridotto
e questa è una strategia piuttosto comune a Silicon Valley, che apparentemente non riguarda invece Deepseek, al momento,
anche se la cosa non è assolutamente esclusa:

Currently, DeepSeek Chat remains free to use, and there are no announced plans to restrict its free access.
However, as with many AI services, future changes could include:

- Introduction of premium tiers (additional features for paying users while keeping a free version).
- Usage limits (e.g., daily message caps) to manage server costs.
- Priority access for subscribers during high-demand periods.

For now, you can enjoy free, unlimited access to DeepSeek Chat!
If any changes are planned, they will likely be communicated officially via the website or app.


Come tutto questo finirà per influenzare lo sviluppo di questi sistemi è tutto da vedere.

Se l'IA diventa a pagamento, solo chi può permettersela avrà accesso a risposte di qualità, creando un divario digitale.

Inoltre, le aziende potrebbero privilegiare risposte "commercialmente ottimali" (es. promuovere prodotti) rispetto a quelle neutre.

Se si pensa, come si sta facendo,
a sistemi del genere che in campo sanitario possano fare le funzioni del medico di base,
il divario digitale tra chi può pagare e chi no sarà perfettamente in linea
con gli orientamenti attuali delle politiche sanitarie praticate
(che da quelle dichiarate differiscono parecchio).
 
Una miserabile decadenza.

Il festival del cinema di Cannes sta per iniziare
ed i responsabili dell'evento quest'anno hanno avuto un'idea bizzarra:

hanno deciso di vietare gli abiti trasparenti.

È assurdo che ci vogliano insegnare come dobbiamo vestire.
Già influenziamo i cervelli,
adesso vogliamo influenzare anche l'abbigliamento.
 
Confcommercio ci informa tutti gli anni degli enormi costi che l’illegalità produce sulla collettività.

Nel 2024 il danno per le imprese regolari del commercio è stato di 39,2 miliardi,
a cui va aggiunto il costo di 276mila posti di lavoro messi a rischio.

L’abusivismo commerciale costa 10,3 miliardi, quello nella ristorazione 7,4.

Mentre le griffe fasulle ci costano 5,1 miliardi.

Sono cifre enormi il cui peso è ancora maggiore
se si pensa che i profitti vanno a finanziare ulteriori attività abusive nonché altri crimini:
il taccheggio vale 5,4 miliardi
e le imprese sopportano costi per 7,1 miliardi per difendersi dalla criminalità di strada e 3,9 miliardi in cyber sicurezza.

Il problema è ancora più serio se si considera che i fenomeni sono in crescita
e che, soprattutto nelle città, la percezione di insicurezza è in costante aumento.

Furti, vandalismo, rapine sono percepite come un rischio concreto da un terzo delle imprese del terziario.
Con particolare riferimento alla crescita delle baby gang e nello zone della movida, sempre meno sicure.
 
Il rapporto di Confcommercio è molto articolato,
ma questi pochi numeri bastano e avanzano per un allarme che è insieme economico e sociale.

Oltre ai costi, per le imprese e per lo Stato (e quindi per tutti noi)
è evidente che siamo davanti a un deterioramento della sicurezza per ampie fasce di collettività.

Non è un caso che, per esempio, a Milano come in centri isolati,
esistono varie iniziative di chat di vicinato per segnalare situazioni sospette.

Per questo servirebbe che la politica locale aprisse occhi e orecchie ad alcune delle richieste avanzate da Confcommercio
e ampiamente condivisibili da ogni cittadino.


Come la polizia di prossimità, con

agenti (municipali, oggi letteralmente scomparsi) visibili nelle strade;

tolleranza zero per abusivismo e contraffazione;

coinvolgimento delle associazioni locali;

incentivi per chi investe privatamente in sicurezza.

Chi si impegnasse in questo senso
in vista delle prossime numerose scadenze elettorali amministrative, probabilmente partirebbe strafavorito.
 

Stellantis Termoli, addio al motore Fire​


Dopo decenni di gloriosa attività,
Stellantis si prepara a chiudere il capitolo del motore Fire a Termoli,
simbolo storico di una stagione automobilistica che ha segnato intere generazioni.

La produzione del celebre motore benzina terminerà nel mese di maggio,
portando con sé apprensione e incertezza tra i 450 dipendenti coinvolti.

L’annuncio, confermato dai sindacati Fim, Uilm, Uglm e Fismic,
apre una fase delicata per il futuro dello stabilimento molisano.

Oltre allo stop del Fire, pesano anche le previsioni poco rassicuranti sulla produzione dei motori Gme e Gse,
che non stanno lavorando a pieno regime e affrontano continue interruzioni tramite la cassa integrazione.


Neppure il nuovo cambio, previsto a partire dalla fine del prossimo anno,
sembra offrire una soluzione concreta per i lavoratori:
ne occuperà infatti circa 300, un numero ben inferiore a quello dei dipendenti attualmente coinvolti nel reparto del Fire.


Inizialmente destinato a diventare una Gigafactory per la produzione di batterie entro il 2026,
lo stabilimento vede adesso sfumare sempre più questa ipotesi.

Da quasi un anno il progetto è sospeso,
contribuendo ad aumentare il clima di incertezza sulla transizione ecologica e sul destino dei lavoratori.
Il motore fire 4 cilindri andava troppo bene, togliamolo dalla produzione,
meglio vendere gli aborti a tre cilindri, con cinghia a bagno nell'olio, che si rompono sempre.
 
E cosa dire di quei poveri deficienti che ieri hanno cercato di far cadere i corridori al giro ?

Mancavano tre chilometri all'arrivo quando, improvvisamente,
un uomo e una donna che si erano precedentemente nascosti
dietro una delle colonnine di un distributore di benzina, sono sbucati sul tracciato.

Hanno attraversato la folla tendendo un nastro biancorosso,
uno di quelli che si utilizzano solitamente per delimitare delle aree non valicabili.


Ma a guardare il filmato c'è da rabbrividire.
2 carabinieri, proprio di fronte, fermi a guardare mentre accade il fatto
e qualcuno altro che interviene per bloccare il pirla

"I responsabili sono stati immediatamente fermati e denunciati a piede libero,
ma quanto accaduto impone una riflessione:
non sono più sufficienti le denunce a piede libero,
è necessaria una risposta giudiziaria rapida e incisiva".
 
Tutto il cancan mediatico e giudiziario che corre dietro alle nuove indagini
su Andrea Sempio, sulle gemelle Cappa, i loro sms "choc", gli amici di Marco,
il martello che hanno trovato cercando un attizzatoio ma che forse potrebbe non essere un martello,
le testimonianze che spuntano come funghi a 18 anni dal delitto, le ipotesi investigative, i dubbi,
le ricostruzioni, le nuove analisi del Dna, quelle vecchie.

Un gran casino.

Un caotico inferno indegno di un Paese civile: tutto quello che sta accadendo in queste settimane,
e quanto successo in passato (eventuali errori, sviste, mancanze),
sembra essere la prova provata del fallimento della macchina giudiziaria italiana.

Certo: è sacrosanto cercare di evitare un presunto, o possibile, errore su Stasi.
Ma quale che sia l’esito, sarà un fallimento giudiziario.

Se infatti troveranno davvero prove contro Sempio,
allora vorrà dire che avremo sbattuto in carcere un innocente, Stasi,
peraltro dopo che due gradi di giudizio lo avevano dichiarato innocente

Scrive giustamente Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione Camere Penali per diverso tempo,
che al netto delle tifoserie “se un sistema giudiziario consente l’assurdità
di condannare ‘oltre ogni ragionevole dubbio’ un imputato precedentemente assolto per ben due volte,
allora in quel sistema malato può davvero accadere di tutto”.


Può accadere anche che un condannato “oltre ogni ragionevole dubbio
resti in carcere mentre un pool di magistrati coltiva il “ragionevole dubbio” che, alla fine dalla fiera, non sia lui il colpevole.

Il tutto nonostante altri giudici, non molto tempo fa,
abbiano confermato invece la condanna respingendo le richieste di revisione del processo.


Un po’ strano, no?
 
i teteschi.........

I corridoi dell’automotive e, soprattutto, il futuro di centinaia di lavoratori in Piemonte
sono scossi da una notizia che ha preso corpo nelle ultime 72 ore:

Volkswagen ha messo sul piatto la vendita di Italdesign Giugiaro, un classico dello stile italiano nell’auto.
Non un rumors passeggero, ma una valutazione concreta che emerge con forza dai report degli ultimi giorni.


Perché un colosso come VW decide di cedere un asset storico e, fino a prova contraria, profittevole come Italdesign?


La risposta è brutale e si chiama ristrutturazione selvaggia di un gruppo
che ha sbagliato quasi tutto negli ultimi dieci anni.


Il Gruppo Volkswagen, e in particolare il marchio Audi da cui Italdesign dipende operativamente, navigano in acque agitate.
 

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