TBOND BUND (VM 1984) 2012: la profezia dei Maya o la rinascita

Il no a Basilea 3 vale 50 miliardi


Lo slittamento delle regole evita alle banche Usa onerosi aumenti di capitale
Nei bilanci dei gruppi americani derivati per 222mila miliardi


La riforma di Basilea 3 slitta negli Usa. La motivazione ufficiale della Fed è che serve più tempo «per comprendere» le regole. La motivazione reale, probabilmente, è un’altra: i primi 19 istituti Usa avrebbero bisogno di 50 miliardi di capitale aggiuntivo per adeguarsi a Basilea 3. Questo penalizzerebbe soprattutto l’attività sui derivati, che le banche Usa non hanno mai ridimensionato: attualmente hanno in bilancio 222mila miliardi di dollari di derivati, il 44,8% in più rispetto al 2007.


Del resto non è solo Basilea 3 a creare l’urticaria. Non è un caso che le banche Usa abbiano speso 52 milioni di dollari per finanziare la campagna elettorale di Mitt Romney, che prometteva di annacquare la già blanda normativa anti-speculazione. Con Romney le banche hanno perso la battaglia. Ma sanno bene che anche con Obama hanno buone speranze di vincere ugualmente la guerra: cioè di rinviare e depotenziare le riforme che dovrebbero metterle in riga. La legge Dodd-Frank, varata nel luglio del 2010 proprio con questo obiettivo, è già in pesante ritardo nell’applicazione: calcola lo studio legale Davis Polk che fino ad oggi avrebbero dovuto essere emanati i regolamenti attuativi per 237 parti della legge (su un totale di 398), ma in 144 casi l’attuazione non è ancora arrivata. L’attività di lobby, e le cause in Tribunale, mirano a depotenziare molti aspetti spinosi. A partire da quelli che riguardano i derivati. Stesso discorso per la cosiddetta Volcker Rule, destinata a limitare proprio le scommesse sui derivati e sul trading rischioso. Anche questa, che doveva essere pronta a luglio, è slittata. Intanto le banche Usa continuano a macinare utili su utili con il trading: dal 2007 questa attività ha generato ben 93 miliardi di ricavi. Ecco perché le regole creano l’urticaria: ridurrebbero la torta.
 
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Gli arabi delusi guardano alla Cina


Il Medio Oriente

«Dopo le elezioni americane, prestate attenzione all’evolversi della politica in Cina». Non è solo il titolo di un editoriale, che appare su uno dei maggiori quotidiani arabi Asharq al Awsat. È qualcosa di più: un monito, una via e direzione per i Paesi arabi su come gli equilibri di potere stanno cambiando e su dove davvero puntare gli occhi e l’attenzione.
La Cina è ormai penetrata in maniera capillare nelle economie arabe e non solo. Dalla base: i suk sono ormai più cinesi che arabi; in Marocco c’è un’agguerrita battaglia nell’artigianato di alcuni settori perché la Cina è entrata anche nella produzione. Il mercante del grande bazar di Istanbul è oggi più interessato a sapere le sorti dei mercati cinesi piuttosto che di quelli americani. Lui le cianfrusaglie da mettere nella sua bancarella se le deve far arrivare dalla Cina. Lui sa che se non si interviene in Siria è perché sono la Cina e la Russia a mettere il veto, mentre l’Europa, gli Stati Uniti e la Lega araba stessa fanno da spettatori.
 

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