Una crisi rivissuta al rallentatore
di ALFONSO TUOR - Le convulse trattative in corso a Washington per evitare il cosiddetto baratro fiscale (fiscal cliff) stanno oscurando la portata delle incognite che pongono le recenti decisioni delle principali banche centrali di incrementare la stampa di moneta con l’obiettivo di uscire dalla crisi. È infatti molto probabile che democratici e repubblicani giungano, prima o poi, ad un accordo per ridurre il deficit federale ed evitare l’avvio automatico di 600 miliardi di dollari di aumenti di tasse e di tagli delle spese che, stando alla maggioranza degli osservatori, rischierebbe di far ricadere in recessione l’economia americana. È pure evidente che questa intesa (qualunque essa sia) comporterà una miscela di misure che tenderà a rallentare l’ancora precaria ripresa statunitense. Minore attenzione viene invece posta sulla decisione della Federal Reserve di aumentare a 85 miliardi di dollari il mese gli acquisti di obbligazioni statali e di titoli in cui sono impacchettati miliardi di debiti, accompagnata dalla dichiarazione che proseguirà questa politica fino a quando il tasso di disoccupazione scenderà al 6,5%. Questa scelta della banca centrale statunitense rappresenta una svolta di grande importanza e dagli esiti incerti. Dimostra innanzitutto che la Fed non nutre grande fiducia sulla solidità dell’economia e sulla sua capacità di riprendere un cammino sano e duraturo di crescita. Dimostra inoltre, come sta emergendo anche da altri dati, che non è certa dell’asserito ritorno in salute del sistema finanziario. Indica, infine, che si vuole continuare con maggiore dispendio di soldi su una strada che finora ha prodotto scarsi risultati. La svolta della Federal Reserve, come era inevitabile, sta facendo scuola. Il nuovo Governo giapponese sta imponendo alla propria banca centrale di attuare una politica più aggressiva per combattere la deflazione che da anni attanaglia il Paese. Il nuovo governatore della Banca d’Inghilterra ha preannunciato che intende far dipendere la politica monetaria britannica da un obiettivo nominale di crescita economica (ossia prima della detrazione dell’inflazione dal PIL). Infine la Banca centrale europea non ha bisogno di dire alcunché, poiché è l’istituto di emissione che più ha stampato negli ultimi anni, dando prestiti al sistema bancario in cambio di garanzie costituite da titoli di dubbio valore. È legittimo dunque domandarsi se queste scelte ci faranno veramente uscire dal tunnel della crisi. Molto probabilmente queste politiche ci faranno rivivere la crisi degli Anni Trenta, ma al rallentatore. I motivi sono semplici: non aggrediscono né le distorsioni del sistema finanziario né l’enorme crescita delle disuguaglianze sociali che sono all’origine dell’attuale situazione. Anzi, le alimentano. I tassi di poco superiori allo zero e le iniezioni di grandi quantità di liquidità nel sistema servono principalmente a sostenere il sistema bancario ombra (fatto di Hedge Fund, fondi Private Equity, ecc.) e soprattutto i 67mila miliardi di dollari di titoli che detengono (questa enorme cifra è indicata nel rapporto del Financial Stability Board). Insomma, l’obiettivo principe resta salvare il sistema finanziario e quindi si sta ancora disperatamente puntellando quel castello di carte che paradossalmente è ancora cresciuto dopo la crisi finanziaria del 2008. Il risultato è di alimentare la speculazione e di favorire la formazione di nuove bolle, come quella che già esiste nel mercato obbligazionario e quella che rischia di gonfiarsi in quello azionario. D’altro canto, il basso livello dei tassi a medio e a lungo termine penalizza i piccoli risparmiatori e le casse pensioni che stanno pagando un’altra volta i guasti della finanza, mentre non aiuta una ripresa degli investimenti, poiché essi non dipendono solo dal livello del costo del denaro, ma soprattutto dalla fiducia nelle prospettive economiche. Infine, questa politica favorisce le svalutazioni competitive (è quanto sta già succedendo con lo yen giapponese) e quindi il rischio del ritorno al protezionismo. Mentre la politica monetaria diventa sempre più ardita, quella fiscale si fa sempre più restrittiva, colpendo in primo luogo il potere d’acquisto di quelle fasce di reddito medio e basse che potrebbero contribuire a rilanciare l’economia con i loro consumi. Bisognerebbe invece cominciare ad interrogarsi se è possibile sostenere questa montagna di debiti (in gran parte del settore finanziario) che schiaccia l’economia oppure se non sarebbe meglio ristrutturarli per far ripartire l’economia reale su basi nuove. In merito la discussione non è ancora iniziata, ma la forza della crisi imporrà di arrivare al nocciolo della questione. Nel frattempo, con un cerotto dopo l’altro la disoccupazione aumenta e le disparità sociali si allargano, ma si fa finta di tirare avanti.