Shale oil, rischi crescenti dai debiti «spazzatura» 
 				 				 				
  			 				 	 					Il petrolio sotto 70 $ frena i nuovi progetti estrattivi
«PRESTO  CATTIVE NOTIZIE» Lazard fa previsioni fosche per le società di  fracking: molte sono superindebitate e un numero crescente è vicino  all’insolvenza
 					 Non succederà domani. Ma la macchina dello shale oil americano rischia  davvero di incepparsi nel corso del 2015, a giudicare dalla sabbia che  si è già accumulata nei suoi ingranaggi. 					
  					 La caduta del prezzo del petrolio è il granello più visibile. E ormai  non si tratta di poca cosa: da giugno le quotazioni sono scese di circa  il 40% e ancora non si intravvede la fine dei ribassi. Ieri il Brent ha  chiuso a 69,07 dollari al barile e il Wti a 65,84 $, entrambi in ribasso  di circa l’1% e vicinissimi ai minimi da 5 anni, ma in alcunearee di  fracking degli Stati Uniti – tra cui Bakken, in North Dakota – già si  registrano prezzi intornoa50dollari. I pozzi già in produzione hanno  costi operativi molto bassi – in molti casi addirittura 10-20 $/barile –  e dunque non verrannocerto fermati (il tasso di declino per lo shale è  comunque molto rapido: del 65-90% dopo il primo anno secondo l’Oxford  Institute of Energy Studies). 					
  					 I costi sono molto più alti se si parte da zero: Wood Mackenzie stima  che il brekeven medio dello shale oil sia 65-70 $. Ovviamente,  comeinsegna il pollo di Trilussa, dietro il dato medio si cela una  grande varietà di situazioni, legate alla geologia, alle tecniche  estrattive adoperate, alle capacità di ciascuna impresa e quant’altro.  Sta di fatto che il petrolio è già sceso a quei livelli di prezzo. Se ci  resta, secondola società di consulenza, gli investimenti nello shale  verranno tagliati del 20%, con un conseguente rallentamento della  crescita della produzione Usa al 10% l’anno, ritmo ancora molto elevato,  ma inferiore rispetto agli anni passati. Se invece il petrolio dovesse  attestarsi a 60 $ – il prezzo al quale si dice i sauditi vogliano  portarlo – gli investimenti potrebbero essere dimezzati secondo Wood  Mackenzie e la produzione smettere di crescere. 					
  				
  				  					 						Le società Usa attive nel fracking continuano quasi tutte a  prevedere che estrarranno più greggio nel 2015 (cosa che del resto fa  anche il governo americano, secondo cui l’anno prossimo la produzione  salirà a 9,4 milioni di barili al giorno l’anno prossimo, un record dal  1972). Molte tuttavia hanno già ridotto il target di investimento e  altri tagli saranno probabilmente comunicati tra gennaio e febbraio, con  la presentazione dei prossimi bilanci. 					
  					 						Negli ingranaggi dello shale oil c’è però anche almeno un altro  granello di sabbia, tutt’altro che trascurabile: quello dei  finanziamenti. È un granello che rischia di essere perso di vista dagli  esperti di petrolio, ma che è ben visibile – addirittura vistoso ormai –  per chi opera sul mercato delle obbligazioni high yield, più  volgarmente noto come «debito spazzatura», per l’alto rischio di  insolvenza degli emittenti. 					
  					 						Il settore dell’energia, pur avendo raddoppiato il suo peso dal  2008, rappresenta tuttora solo il 16% del mercato dei junk bond Usa, che  a sua volta vale circa 1.300 miliardi di dollari. Ma è ormai  nell’occhio del ciclone, tanto da sollevare timori per l’intera asset  class. I rendimenti hanno già raggiunto l’8-9%, dal già allarmante 6,9%  registrato meno di un mese fa (si veda Il Sole 24 Ore del 13 novembre).  Da inizio anno il total return, che include le cedole, è negativo:  -5,3%, contro il +3,1% dell’indice Us High Yield di BofA Merrill Lynch.  Un terzo di queste obbligazioni – emessein molti casi da società attive  nello shale oil – è già considerato "distressed", vale a dire che c’è  un’alta probabilità di ristrutturazione del debito. 					
  					 						Ad avere in mano la maggior parte dei junk bond energetici sono i  fondi di investimento americani e dai prospetti, osserva Reuters, emerge  che molti sono tra i più rischiosi sul mercato, con uno spread di oltre  1.000 basis point rispetto ai titoli di Stato Usa. Adesso stanno  cercando di ridimensionarne la presenza in portafoglio, anche per non  sfigurare con i clienti nei rendiconti di fine anno. «Penso che siamo  già nella fase in cui la gente sta vendendo tutto quello che può»,  commenta Ashish Shah, Head of global credit di AllianceBernstein,  osservando come la liquidità sul mercato secondario stia calando. A  tirare le conclusioni è David Kurtz, Global head of restructuring di  Lazard: «Ho la sensazione che siamo sul punto di avere cattive notizie e  che vedremo le cose andare ancora peggio prima di migliorare».