Ora è tempo di fusioni petrolifere
Uno spettro s’aggira sui mercati dell’oro nero: la scarsità di riserve
C’è un problema che assilla la grande industria petrolifera e apre la strada a un’ondata di fusioni e acquisizioni nei prossimi mesi. È il problema delle riserve di oro nero. Quelle delle major calano di anno in anno, nonostante le società abbiano fatto di tutto per tamponare il problema fino a lanciarsi in progetti rischiosi sul piano economico e geografico, contando su prezzi in crescita.
Uno sforzo reso in parte necessario dall’impossibilità di accedere alle maggiori riserve di greggio di molti paesi produttori, che anche quando consentono a società straniere di sviluppare i loro giacimenti non permettono a queste ultime di mettere a libro – cioè di considerare come loro patrimonio – parte di quegli stessi giacimenti.
Ancor prima della caduta dei prezzi, lo sforzo profuso non aveva dato i risultati sperati. In realtà, la grande industria aveva speso molto per scoprire soprattutto gas, invece che petrolio. Sommando un problema a un altro. Il metano ha un valore assai inferiore al greggio, in particolare quando i giacimenti si trovano in aree remote dai mercati finali di consumo, com’è stato per le scoperte in Australia, Africa e Canada. In casi del genere, le società devono costruire tutto dal niente (spesso anche le case per i propri dipendenti o le infrastrutture) e infine esportare il gas in forma liquefatta, con costi che spesso non giustificano gli investimenti, sovente producono perdite. Per le compagnie petrolifere, quindi, lo spostamento dal petrolio al gas rappresenta una minaccia strutturale alla redditività di lungo periodo.
In ogni caso, nemmeno le scoperte di gas hanno risolto il problema del calo delle riserve. Se non vi fossero state due acquisizioni importanti - l’acquisizione da 41 miliardi di dollari della compagnia americana indipendente XTO Energy da parte di Exxon e l’acquisto di una quota nella russa Rosneft da parte di BP – le cinque maggiori compagnie occidentali (le altre tre sono Shell, Chevron e Total) avrebbero avuto a libro, nel 2013, una quantità complessiva di riserve inferiore a quella del 2009. E tutto sembra indicare che nel 2014 non si sia registrato alcun miglioramento.
I dati emersi sul rimpiazzo delle riserve totali di idrocarburi nell’ultimo anno (cioè, delle riserve aggiunte a fronte di quelle “consumate”) non sono confortanti: 26 per cento e 47 per cento, rispettivamente per il valoretotaleequelloorganico(cioè,persola crescita interna, senza acquisizioni) nel caso di Shell, 62 per cento per il valore organico di BP e 89 per cento per quello totale di Chevron. Inutile ricordare che un valore inferiore al 100 per cento significa che le riserve di una società si sono impoverite.
A peggiorare le cose, le riserve entrate in portafoglio negli ultimi anni sono costose, in molti casi producibili con prezzi del greggio superiori a 80-90 dollari a barile.
Ora che i bassi prezzi del petrolio non garantiscono più redditività, l’industria taglia nuovi progetti di esplorazione. Allo stesso tempo, però, tutte le compagnie continuano a investire in progetti di sviluppo di giacimenti già avviati, in molti casi dopo aver sforato i budget originari anche del 100%. Così facendo, mettono ulteriormente a rischio la propria redditività e contribuiscono ad aumentare in futuro l’offerta disponibile di greggio - che a sua volta peserà sui prezzi, indebolendoli. Un circolo vizioso soffocante, ma anche il terreno più propizio per un’ondata di fusioni e acquisizioni.
Dal2009aoggi, mentreicostidiesplorazione e sviluppo organici sono più che raddoppiati, i valori delle riserve provate implicitinelleoperazionidifusioneeacquisizione nel settore upstream (produzione di petrolio e gas) e nelle quotazioni azionarie delle compagnie sono rimasti pressoché stabili. In altri termini, nel 2014 per le compagnie provvedere al rimpiazzo organico dei barili è costato il doppio rispetto al loro acquisto attraverso un’operazione di fusione o acquisizione. Adesso che il valore di Borsa di molte società petrolifere sta cadendo, la carta delle acquisizioni diventa ancora più conveniente. D’altra parte, nella storia dell’industria petrolifera non c’è stato periodo prolungato di prezzi bassi che non abbia comportato processi massicci di consolidamento.
Per questo nei corridoi delle grandi major petrolifere americane – ma non solo – seneiniziaaparlareconunacertaintensità. Perché se anche le riserve sono calate, per molte grandi major, soprattutto statunitensi, rimane una carta pesante da giocare: un bassissimo indebitamento e una generazione di cassa ancora imponente, grazie alle attività storiche. Per esempio, la regina delle società petrolifere, la Exxon, ha una potenza di fuoco superiore ai cento miliardi di dollari, senza considerare che le sole azioni proprie riacquistate nel tempo dalla società rappresentano circa 350 miliardi di dollari di valuta disponibile per acquisizioni. Rispetto al passato, però, questa volta compaiono sullo sfondo anche altri attori pronti a sfruttare le opportunità del momento, soprattutto fondi sovrani e società petrolifere cinesi.
Un processo di acquisizioni spinto potrebbe investire l’intero settore dello petrolio shale negli Stati Uniti, caratterizzato da centinaia di piccole e medie società sconosciute al grande pubblico, ma anche grandi e medie società europee e società di servizi petroliferi. Se un simile processo partisse, nessunosarebbealriparo. Eanche il nostro Paese potrebbe rischiare di perdere pezzi importanti della sua industria.