Tbond Bund (VM69) 2014: 2014 il ritorno di Smaug (3 lettori)

f4f

翠鸟科
goooood morning bbbanda!

EU irremovibile, GR inarrestabile: un confronto classico
uno scontro degno di Omero, e per altro sarà uno dei momenti fondanti del futuro dell'europa
entrambi hanno carte da giocare e stanno bluffando pesantemente: ammetto di non essere in grado di dare una valutazione sull'esito
 

f4f

翠鸟科
goooood uikkkèn bbbbanda

e al solito l'intervento di merkel è per un compromesso
al ribasso: nessuno ottiene nulla e si perde tempo
forse la speranza è che il tempo risolva, in positivo con una crescita economica o con una presa d'atto delle circostanza
o in negativo ampliando le difficoltà e quindi facendo collassare il problema
in entrambi i casi, non è leadership
 

f4f

翠鸟科
goooood morning bbbanda!!

mercati lateral rialzisti sulla onda della liquidità
però in questa ora il dollaro di è un pò rialzato ... hummm
 

f4f

翠鸟科
Goooood morning bbbbbanda !!!!

Sulla grecia ci vuole la merkel a gradire il compromesso ad ogni costo ...
... già draghi è molto più realista
Il problema è rimandato e non risolto : sarà una calda estate
 

f4f

翠鸟科
Goooood morning bbbbanda !!!!@

Laterali il dollaro e il daxi sempre però sui valori maxim
accumulazione o disyribuzione ??
La risposta sta nel motore che tutto spinge sui mercati ... la liquidità sintetica del QE
un paio di settimane e saranno svelati i dubbi sui dettagli della mossa BCE
e lì saranno qazxii per i greci
 

f4f

翠鸟科
Ora è tempo di fusioni petrolifere


Uno spettro s’aggira sui mercati dell’oro nero: la scarsità di riserve

C’è un problema che assilla la grande industria petrolifera e apre la strada a un’ondata di fusioni e acquisizioni nei prossimi mesi. È il problema delle riserve di oro nero. Quelle delle major calano di anno in anno, nonostante le società abbiano fatto di tutto per tamponare il problema fino a lanciarsi in progetti rischiosi sul piano economico e geografico, contando su prezzi in crescita.
Uno sforzo reso in parte necessario dall’impossibilità di accedere alle maggiori riserve di greggio di molti paesi produttori, che anche quando consentono a società straniere di sviluppare i loro giacimenti non permettono a queste ultime di mettere a libro – cioè di considerare come loro patrimonio – parte di quegli stessi giacimenti.
Ancor prima della caduta dei prezzi, lo sforzo profuso non aveva dato i risultati sperati. In realtà, la grande industria aveva speso molto per scoprire soprattutto gas, invece che petrolio. Sommando un problema a un altro. Il metano ha un valore assai inferiore al greggio, in particolare quando i giacimenti si trovano in aree remote dai mercati finali di consumo, com’è stato per le scoperte in Australia, Africa e Canada. In casi del genere, le società devono costruire tutto dal niente (spesso anche le case per i propri dipendenti o le infrastrutture) e infine esportare il gas in forma liquefatta, con costi che spesso non giustificano gli investimenti, sovente producono perdite. Per le compagnie petrolifere, quindi, lo spostamento dal petrolio al gas rappresenta una minaccia strutturale alla redditività di lungo periodo.
In ogni caso, nemmeno le scoperte di gas hanno risolto il problema del calo delle riserve. Se non vi fossero state due acquisizioni importanti - l’acquisizione da 41 miliardi di dollari della compagnia americana indipendente XTO Energy da parte di Exxon e l’acquisto di una quota nella russa Rosneft da parte di BP – le cinque maggiori compagnie occidentali (le altre tre sono Shell, Chevron e Total) avrebbero avuto a libro, nel 2013, una quantità complessiva di riserve inferiore a quella del 2009. E tutto sembra indicare che nel 2014 non si sia registrato alcun miglioramento.
I dati emersi sul rimpiazzo delle riserve totali di idrocarburi nell’ultimo anno (cioè, delle riserve aggiunte a fronte di quelle “consumate”) non sono confortanti: 26 per cento e 47 per cento, rispettivamente per il valoretotaleequelloorganico(cioè,persola crescita interna, senza acquisizioni) nel caso di Shell, 62 per cento per il valore organico di BP e 89 per cento per quello totale di Chevron. Inutile ricordare che un valore inferiore al 100 per cento significa che le riserve di una società si sono impoverite.

A peggiorare le cose, le riserve entrate in portafoglio negli ultimi anni sono costose, in molti casi producibili con prezzi del greggio superiori a 80-90 dollari a barile.
Ora che i bassi prezzi del petrolio non garantiscono più redditività, l’industria taglia nuovi progetti di esplorazione. Allo stesso tempo, però, tutte le compagnie continuano a investire in progetti di sviluppo di giacimenti già avviati, in molti casi dopo aver sforato i budget originari anche del 100%. Così facendo, mettono ulteriormente a rischio la propria redditività e contribuiscono ad aumentare in futuro l’offerta disponibile di greggio - che a sua volta peserà sui prezzi, indebolendoli. Un circolo vizioso soffocante, ma anche il terreno più propizio per un’ondata di fusioni e acquisizioni.
Dal2009aoggi, mentreicostidiesplorazione e sviluppo organici sono più che raddoppiati, i valori delle riserve provate implicitinelleoperazionidifusioneeacquisizione nel settore upstream (produzione di petrolio e gas) e nelle quotazioni azionarie delle compagnie sono rimasti pressoché stabili. In altri termini, nel 2014 per le compagnie provvedere al rimpiazzo organico dei barili è costato il doppio rispetto al loro acquisto attraverso un’operazione di fusione o acquisizione. Adesso che il valore di Borsa di molte società petrolifere sta cadendo, la carta delle acquisizioni diventa ancora più conveniente. D’altra parte, nella storia dell’industria petrolifera non c’è stato periodo prolungato di prezzi bassi che non abbia comportato processi massicci di consolidamento.
Per questo nei corridoi delle grandi major petrolifere americane – ma non solo – seneiniziaaparlareconunacertaintensità. Perché se anche le riserve sono calate, per molte grandi major, soprattutto statunitensi, rimane una carta pesante da giocare: un bassissimo indebitamento e una generazione di cassa ancora imponente, grazie alle attività storiche. Per esempio, la regina delle società petrolifere, la Exxon, ha una potenza di fuoco superiore ai cento miliardi di dollari, senza considerare che le sole azioni proprie riacquistate nel tempo dalla società rappresentano circa 350 miliardi di dollari di valuta disponibile per acquisizioni. Rispetto al passato, però, questa volta compaiono sullo sfondo anche altri attori pronti a sfruttare le opportunità del momento, soprattutto fondi sovrani e società petrolifere cinesi.
Un processo di acquisizioni spinto potrebbe investire l’intero settore dello petrolio shale negli Stati Uniti, caratterizzato da centinaia di piccole e medie società sconosciute al grande pubblico, ma anche grandi e medie società europee e società di servizi petroliferi. Se un simile processo partisse, nessunosarebbealriparo. Eanche il nostro Paese potrebbe rischiare di perdere pezzi importanti della sua industria.
 

f4f

翠鸟科
Il taglio del rating incombe anche su Transocean Tra le società petrolifere cresce l’allarme debiti Ora Petrobras è «junk»


In crisi di liquidità Gulf Keystone si mette in vendita

RISCHIO DIFFUSO Nel settore energia Barclays prevede che scenderanno a livello spazzatura bond per 20 miliardi di dollari nei prossimi 18 mesi
sui debiti delle compagnie petrolifere sta crescendo e comincia a scuotere i listini azionari. A Londra Gulf Keystone Petroleum, società attiva nel Kurdistan iracheno che ormai ha un indebitamento superiore alla capitalizzazione, ha guadagnato oltre il 70% dopo aver rivelato che sta cercando un acquirente. Ma le sue difficoltà impallidiscono di fronte a quelle di Petrobras, che ormai rappresentano una minaccia per l’intera economia brasiliana: il colosso di Stato - travolto non solo dal crollo del petrolio, ma anche da una maxi-inchiesta per corruzione - ha subito il taglio del rating di ben due “notch” da parte di Moody’s, a Ba2, un livello che classifica il suo debito come “spazzatura”, per l’alta possibilità di insolvelza. Un eventuale declassamento anche da parte di S&P e Fitch la espellerebbe dai portafogli degli investitori istituzionali, condannandola molto probabilmente a un’ulteriore crollo in Borsa.
Sul listino di San Paolo ieri Petrobras ha perso oltre il 6%, riducendo il suo valore a circa 43 miliardi di dollari, contro un picco di 310 miliardi raggiunto nel 2009, quando era la quinta compagnia al mondo, con prospettive più che brillanti dopo la scoperta di ricchissimi giacimenti sottomarini. Il suo indebitamento netto intanto ha superato 91 miliardi.

Anche un altro colosso dell’industria petrolifera sta tremando per un probabile imminente downgrading a spazzatura: si tratta di Transocean, numero uno mondiale delle piattaforme offshore, con sede in Svizzera e quotatazione a New York. Il suo destino è ormai segnato secondo gli analisti di Barclays, che prevedono una lunga serie di analoghe cadute: nei prossimi 18 mesi potrebbero entrare nella categoria “junk” 20 miliardi di dollari di obbligazioni del settore energetico, stima la banca, ingrossando ulteriormente quello che è già il segmento più rilevante (e travagliato) del settore high yield.
Le difficoltà di Transocean - già segnata dal coinvolgimento nel disastro della Deepwater Horizon, nel Golfo del Messico - sono cresciute al punto che la settimana scorsa il ceo Steven Newman ha improvvisamente rassegnato le dimissioni e il gruppo ha tagliato dell’80% il dividendo: un passo che ben pochi nel settore si sono sentiti di fare. Ieri il titolo scambiava nervosamente a Wall Street, nell’attesa dei risultati trimestrali che sarebbero stati diffusi dopo la chiusura delle contrattazioni.
Le società di servizi petroliferi sono tra le prime ad accusare l’impatto di una caduta del prezzo del petrolio, a causa del taglio dei costi e degli investimenti da parte delle società estrattive. Di diverso genere sono i problemi di Gulf Keystone, che è attiva proprio nell’esplorazione e produzione, ma in un’area particolarmente difficile. Nel Kurdistan iracheno non è esposta solo alla minaccia del terrorismo islamico, ma è vittima delle dispute tra il governo federale di Baghdad e l’autorità regionale di Erbil. Con quest’ultima ha un credito di oltre 200 milioni di dollari, ma i pagamenti non arrivano e Gulf Keystone, che ha solo 69,3 milioni in cassa, non ce la fa più a onorare i debiti. La prima scadenza cruciale è ad aprile, quando dovrà ripagare un’obbligazione da 26 milioni. Tra junk bond e obbligazioni convertibili la società è esposta per 575 milioni e in borsa martedì ne valeva 492. La ricerca di un acquirente - per tutta la società o per alcuni asset - è sembrata l’unica soluzione possibile. Ma non è detto che si faccia avanti qualqualcuno.
 

Users who are viewing this thread

Alto