Tbond Bund (VM69) 2014: 2014 il ritorno di Smaug

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Inizia un lungo e grande ribasso delle borse

È cominciato un bear market che metterà a nudo la crisi dell’attuale sistema economico

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Lo scandalo della Volkswagen non è che l’ultima nocciolina che rafforza il ribasso delle borse già cominciato da qualche settimana. Ci sono infatti tutti gli ingredienti di un grande Bear Market, simile a quello dello scoppio della bolla delle dot.com nel 2000. A poco o nulla è destinata a servire la decisione della Federal Reserve di non aumentare i tassi. Anzi le motivazioni addotte dalla banca centrale forniscono un’ulteriore ragione per il ribasso delle borse. Come tutti sanno, la Fed ha infatti dichiarato di aver deciso di lasciare inalterati i tassi di interesse perché nutre forti timori sulla solidità dell’economia internazionale. Ma cerchiamo di indicare le ragioni che spingono a ritenere che non si sia in presenza di una semplice correzione degli indici azionari (secondo alcuni, addirittura salutare dopo la continua corsa al rialzo degli ultimi anni), ma di una questione ben più seria destinata a protrarsi nel tempo e a provocare molto probabilmente una nuova grande recessione mondiale.
Innanzitutto, l’economia non sta bene non solo nei Paesi emergenti, ma anche in quelli industrializzati. Il Brasile e la Russia sono in recessione, l’economia cinese sta frenando e le economie dei Paesi esportatori di materie prime sono in grandi difficoltà per il forte calo del prezzo del petrolio e delle altre commodities. Insomma, questi Paesi, che rappresentano circa la metà del PIL mondiale non tirano più. Anzi, sono diventati un fattore di freno dell’economia mondiale. La conferma di questa tendenza è il forte rallentamento del commercio internazionale. Tra i Paesi di vecchia industrializzazione il Giappone è caduto in recessione, nonostante le continue iniezioni di liquidità della sua banca centrale. Insomma è fallita la cosiddetta Abenomics. L’Europa si sviluppa in maniera modesta, nonostante il Quantitative Easing della Bce e il calo del prezzo del petrolio che dovrebbe funzionare come un taglio delle tasse e quindi accrescere il potere d’acquisto dei consumatori del Vecchio Continente. Ora lo scandalo Volkswagen, che probabilmente toccherà altre case automobilistiche, è destinato ad intaccare uno dei suoi settori industriali più importanti. Infine la crescita degli Stati Uniti è molto meno solida delle apparenze di una disoccupazione in forte calo. Infatti, i salari non crescono e il tasso di partecipazione al mercato del lavoro rimane bassissimo. Inoltre l’unico settore che tirava veramente, quello dello shale oil, oggi è in piena crisi a causa del crollo del prezzo del petrolio. Dunque i dati economici non giustificano le attuali valutazioni di borsa.
Ma vi è di più. Ora sta arrivando il conto della politica seguita dalle maggiori banche centrali dei Paesi occidentali. La liquidità dispensata a piene mani ha alimentato enormi bolle che ora stanno scoppiando. La prima è quella delle materie prime. Il denaro facile e i prezzi elevati hanno spinto ad attuare enormi investimenti, a creare enormi sovracapacità produttive e un grande indebitamento di Paesi e società produttrici. Il conseguente crollo dei prezzi sta solo provocando un drastico taglio degli investimenti in questo settore e sta mettendo a nudo un’esposizione debitoria insostenibile. Il caso più evidente è quello delle società americane impegnate nello shale oil, che ora si tradurrà in molti casi di insolvenza. Altrettanto vale per il grande ammontare di prestiti accordati alle imprese dei Paesi emergenti, che sono servizi a finanziare la loro espansione mondiale, come il caso di molte società indiane. Infine il denaro facile e a basso costo ha alimentato la stessa bolla borsistica. Infatti le società americane si sono indebitate per riacquistare le azioni proprie e per far quindi salire i loro corsi facendo figurare utili per azione sempre migliori dovuto non a un aumento di redditività, ma alla diminuzione della base azionaria. Pure il margin lending (ossia l’indebitarsi per acquistare azioni) è ai massimi storici (oggi supera i 500 miliardi di dollari) e costituisce un’altra bolla che presto scoppierà.
Dunque, il bear market è cominciato ed è destinato a continuare a lungo. Il ribasso delle azioni e l’esplodere delle insolvenze peggiorerà ulteriormente le prospettive dell’economia mondiale e ora gli strumenti in mano alle banche centrali sono molto limitati, poiché il costo del denaro è già di poco superiore allo zero. Con una battuta si può dire che non bisogna interrogarsi su quando la Fed comincerà ad alzare i tassi, ma quando varerà un altro programma di Quantitative Easing.
I nodi stanno venendo al pettine. Le ristrette élites che governano il mondo occidentale non hanno capito che lo scoppio della bolla delle dot.com nel 2000 e la crisi finanziaria del 2008 richiedevano un cambiamento radicale della politica economica. Non l’hanno voluto fare e hanno fatto rafforzare le forze deflazionistiche presenti nell’economia, hanno permesso un’ulteriore forte crescita delle diseguaglianze e un ulteriore arricchimento di una “crema” che rappresenta non più dell’1% della popolazione. Nessuno è stato processato per le truffe del settore finanziario. Il risultato è che il comportamento truffaldini delle élites si sta diffondendo a macchia d’olio, come conferma lo scandalo Volkswagen e i continui scandali del settore finanziario.
Vi è però una speranza: questa crisi che si staglia all’orizzonte potrebbe produrre una crisi politica permettendo l’allontanamento dal potere dei partiti tradizionali di destra e sinistra che non hanno saputo usare le crisi del passato per attuare quei cambiamenti di politica economica sempre più urgenti. E’ dunque probabile che la crisi economica si trasformi in una salutare crisi politica.
Alfonso Tuor | 23 set 2015​
 
Perché Volkswagen è la Lehman d’Europa

La crisi tedesca ricorda quella americana dei subprime. Nel 2008 il governo decise che le banche andavano salvate, le conseguenze sull’economia sarebbero state devastanti. Sembrano «cigni neri» imprevedibili, ma c’è una catena di colpe












Ogni dieci anni di operazioni irresponsabili di Wall Street, una crisi finanziaria esploderà. E ogni undici milioni di Volkswagen vendute sulla base di una frode sulle emissioni inquinanti, presto o tardi qualcuno scoprirà l’inganno che ora minaccia il secondo costruttore mondiale di auto.

Le somiglianze tra la crisi dei subprime del 2007-2008 e Lehman Brothers e lo scandalo Volkswagen sono impressionanti. In entrambi i casi, i controlli sulla qualità del prodotto sono affidati a società pagate dal produttore stesso: nel caso dei subprime americani, le agenzie di rating arruolate dalle banche perché rassicurassero sull’affidabilità di quei titoli; nel caso Volkswagen, le aziende finanziate dal costruttore stesso perché certificassero che quei motori sono puliti.

In entrambi i casi colpisce anche lo squilibrio fra i regolatori pubblici e le aziende regolate. Nelle banche come nell’auto, i guadagni dei manager sono un multiplo di quelli dei funzionari che dovrebbero controllarli ma spesso sperano solo di essere assunti da loro. E per Wall Street come per Volkswagen, la conoscenza di tecnologie molto complesse gioca a favore delle imprese su chi dovrebbe controllarle: le aziende sanno tutto perché hanno creato loro quei prodotti, titoli strutturati o motori diesel, i controllori invece devono decostruirli e interpretarli da zero.

Poi c’è la politica. In entrambi i casi, Volkswagen come Wall Street, il potere economico e finanziario dell’industria è tale che il confine con il governo diventa permeabile. Prima del 2007 le porte girevoli fra New York e Washington hanno continuato a portare i manager di punta di Citigroup o di Goldman Sachs ai vertici del Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti. Anche Volkswagen, ricorda Eurointelligence, ha un rapporto consolidato con la politica nel suo Paese: un manager del gruppo, Peter Hartz, è autore delle riforme del lavoro e del welfare del governo di Gerhard Schroeder; il Land della Bassa Sassonia, da cui viene il leader della Spd e ministro dell’Economia Sigmar Gabriel, è azionista del gruppo e dipende da esso per i suoi ricchi dividendi e per i posti di lavoro che assicura; e lo stesso governo tedesco ha potere di veto contro operazioni sgradite sul gruppo di Wolfsburg.

Non è un caso se l’atteggiamento dell’esecutivo di Angela Merkel di fronte al caso Volkswagen ricordi quello di Tim Geithner alla Federal Reserve di New York prima del crash del 2007: entrambi sapevano di avere un problema, ma speravano di disinnescarlo in silenzio prima che esplodesse.

Ora è tardi: il cigno nero è di nuovo fra noi. E le somiglianze fra la crisi americana e quella tedesca rischiano di riconfermarsi. Nel 2008 il governo americano giunse alla conclusione che le banche di Wall Street erano «too big to fail», troppo grandi perché potessero essere lasciate fallire: l’impatto sull’economia degli Stati Uniti sarebbe stato devastante. Nascono così le operazioni che porteranno in pochi mesi al salvataggio pubblico di un gran numero di gruppi finanziari negli Stati Uniti.

La vicenda tedesca potrebbe rivelarsi simile. Volkswagen realizza vendite per oltre 200 miliardi di euro l’anno, è il più grande investitore al mondo in ricerca e sviluppo, assicura in Germania 600 mila posti di lavoro diretti (più milioni di posti indiretti). Il settore auto pesa per 300 miliardi di euro di esportazioni, la prima voce del made in Germany. Anche Volkswagen è «too big to fail», dunque il governo tedesco interverrà per salvarla: ma lo farà violando e forse demolendo le regole europee sugli aiuti di Stato, quelle che avevano rimesso un minimo d’ordine nel rapporto fra politica e imprese in Italia.

Ogni cigno nero è il punto d’arrivo di una serie di azioni a monte. Ma a volte può creare anche conseguenze a valle.
 
Gooood uikkèn bbbanda !!

Provvidenziale staffetta tra il pmi china e il pil usa
Yellen ritrova il coraggio di far pagare agli altri le manovre monetarie amerigane
Tutto va bèn in qyesto inizio d'autunno
 
Gooooooood morning baaaaaaanda !!

Reazione in atto imho con prima resistenza tra 1930.1950 di spoore e target 1980
Oltre invertirebbe la tendenza e non credo ci sia la forza per farlo
 
Goooooood uikkkèn bbbbbbanda !!!!

sui payrolls adesso si dice persino che il rialzo tassi è spostato a marzo ....
 

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