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Si può vendere un Iphone a 900 euro e non pagare gli stipendi ai lavoratori?

Evidentemente si, ma non porta bene.


Nella fbbrica Wistron, che produce per Apple, a Kolar, presso Bangalore,
gli operai infuriati hanno iniziato a devastare l’impianto, dando anche fuoco ad attrezzature e mobilio,
e perfino rovesciando le autovetture nei pressi degli impianti.

Perchè è successa questa rivolta?

Perchè. semplicemente, non sono state pagati gli stipendi, per alcuni mesi, i dipendenti.









La rivolta, che ha coinvolto circa 2000 lavoratori,
è scoppiata dopo l’ennesimo infruttuoso incontro fra le Risorse Umane dell’azienda ed una rappresentanza dei lavoratori.

Comunque è curioso come il più costoso fra gli smartphone è costruito con forza lavoro dei paesi in via di sviluppo,
pure spesso non pagate adeguatamente o non pagate.


Un’enorme stortura della globalizzazione imperante.

Non stipendi ma briciole di miseria.

Apple avvia un'indagine su Wistron per sospetta violazione delle linee guida dei fornitori (ispazio.net)
 

La nostra privacy
ha un prezzo: 150 euro



La privacy è una questione importante.

La privacy è una questione dirimente.

La privacy è un valore assoluto al quale un popolo moderno, responsabile, autonomo e indipendente

non è disposto a rinunciare per nessuna cosa al mondo: è un fatto di dignità, oltre che di libertà.
 
La mia idea l'ho espressa diverse volte, nel corso di almeno un ventennio,
in diversi ambiti :

quando si cambia la reggenza di un governo, di una regione, di una provincia, di un comune
bisogna cambiare i dirigenti. Ruotarli. Destinarli ad altro incarico.
Solo così qualcosa potrà essere cambiato.




Qualcosa si muove nel ministero della Salute, soprattutto se in diretta tv
è lo stesso viceministro Pierpaolo Sileri a parlare di pressapochismo dei vertici amministrativi
e a chiedere le dimissioni del segretario generale Giuseppe Ruocco.



Sileri ha attaccato i vertici amministrativi durante il suo intervento di domenica sera alla trasmissione di Massimo Giletti, “Non è l’arena” in onda su La7

. Il bersaglio però sembra essere il ministro della Salute Roberto Speranza.


Non è la prima volta che il viceministro mostra il proprio disappunto.
Ai primi di novembre aveva battuto i pugni sul tavolo urlando:

“Chi ha sbagliato verrà cacciato a calci nel culo”.


E ci mancava solo il suo intervento di domenica scorsa, spalleggiato da altri due pentastellati Morra e Pirro.

Anche perché a Sileri, medico, non viene dato molto rilievo, come riportato da La Stampa,
non fa parte del Cts e non viene neanche invitato alle riunioni importanti in cui si prendono decisioni.

Tutto sembra essere saldamente in mano a Speranza ed ai suoi collaboratori, Zaccarda, Rezza e Ruocco.

A Sileri non resta che partecipare a diverse trasmissioni televisive dove poter dire la sua, spesso contraria alle scelte prese dagli altri tre.


Giletti ha improntato la puntata sulla mancanza di un piano pandemico,
denunciata da un documento dell’Organizzazione mondiale della sanità pubblicato a maggio e poi subito fatto sparire.


Durante la trasmissione Report di Rai3 erano state rese note le mail di Ranieri Guerra,
che tra il 2014 e il 2017 ricoprì il ruolo di direttore generale della prevenzione al ministero e
che adesso è assistente direttore generale dell'Oms, inviate ai ricercatori chiedendo loro di rendere meno grave il dossier,
in quanto inopportuno politicamente criticare il governo.



La Procura di Bergamo ha aperto una indagine dopo che i familiari delle vittime da coronavirus hanno trovato il dossier
e richiesto una perizia, secondo la quale il piano avrebbe risparmiato 10mila morti.

Per cinque ore i pm hanno sentito Guerra, mentre non sono stati ascoltati gli autori del famoso dossier,
perché l’Oms ne ha impedito le testimonianze
, opponendo l'immunità diplomatica
che il ministro Di Maio ha chiesto di rimuovere con una lettera, resa nota da Giletti in televisione.


E qui Sileri non è stato zitto, pur essendo il viceministro della Salute nel governo.

Ha spiegato di aver chiesto, senza ottenere risposta, informazioni sul piano pandemico
e ha parlato anche delle soventi assenze di Ruocco alle riunioni del Comitato tecnico scientifico,
chiedendone le dimissioni senza tanti giri di parole:

“Avendo visto i verbali in cui lui è sempre assente credo che la cosa migliore è che lui si dimetta.
Io ho fatto diverse domande sui piani pandemici. Esigo una risposta su questo maledetto piano pandemico,
c'era, non c'era, è vecchio, è nuovo? È stato o non è stato aggiornato e soprattutto chi lo ha fatto?
È facile: lì c'è una direzione generale, tre direttori generali che si sono avvicendati, ci sono dei dirigenti”.


Giuseppe Ruocco, napoletano classe ’57, è un medico che entrò nel ministero nel 1984

e che praticamente non ha mai abbandonato, restando ben saldo nonostante l’avvicendarsi di 11 governi

e reinventandosi in 15 incarichi diversi.


Nel 2017 è diventato segretario generale sotto la Lorenzin, riconfermato poi anche da Grillo e Speranza.


Fu Ruocco, tra il 2014 e il 2017 a elaborare un piano nazionale di prevenzione sanitaria,

nel quale un capitolo era dedicato proprio alle malattie infettive sottolineando i punti fondamentali del piano pandemico,

richiesto dall'Europa nel 2013 sia per vecchie che per nuove infezioni.


Dopo di lui arrivarono Guerra e D’Amario.


E del piano pandemico non si seppe più nulla.
 
Più sfigata di così l’Italia non poteva essere, perché la coincidenza di un Governo pernicioso
e di un’opposizione insicura e immatura
, è una situazione astrale da iattura universale,
insomma roba da esorcista o rito da sciamano.

Del resto, chiunque con un briciolo di onestà intellettuale non potrebbe negare che a parti invertite

mai sarebbe stato possibile ciò che è stato consentito al Conte bis,

roba che se al Governo ci fosse stato il centrodestra, la sinistra avrebbe assediato il Colle,

occupato manu militari il Parlamento, sguinzagliato l’armata rossa dei giornali e degli intellettuali,

scatenato sindacati e magistratura “falce e martello”.



Insomma, parliamoci chiaro: un Conte bis al contrario, di centrodestra, non sarebbe durato più di qualche mese,
giusto il tempo di creare le condizioni per un ribaltone e una reazione tale per cui il capo dello stato
si sarebbe ritrovato a dover sciogliere le camere, oppure disarcionare il governo per metterne uno funzionale al centrosinistra e alla Unione europea,
basterebbe pensare al ribaltone Lamberto Dini con Oscar Luigi Scalfaro e a quello di Mario Monti con Giorgio Napolitano.


Ecco perché viene il sorriso quando con ingenuità oppure con ipocrisia, si sente dire
“ma che potrebbe fare il centrodestra?” o “ma che potrebbe fare Sergio Mattarella?”.

Insomma, amici cari, non scherziamo, sia l’opposizione e soprattutto il Capo dello Stato potrebbero fare eccome.


Dell’opposizione abbiamo scritto, nel senso che a parti invertite nulla sarebbe stato di quel che è stato,
ma anche sul Colle c’è da dire che un diverso presidente, con una diversa interpretazione della Carta,
avrebbe disposto altro, a partire dal consenso alla nascita della maggioranza giallorossa.

Insomma, la Costituzione e lo sappiamo, va anche interpretata e sappiamo pure che questa interpretazione scatta sempre guarda caso
quando è utile al centrosinistra e molto meno al centrodestra, quando garantisce meglio la sinistra, volete degli esempi?


Ebbene di esempi ce ne sono a iosa.

Basterebbe pensare al comportamento della magistratura durante tangentopoli
quando ha trasformato le garanzie costituzionali, la certezza del diritto, la separazione dei poteri,
il primato del Parlamento e dell’habeas corpus in carta straccia o quasi, col silenzio assordante di tutti a partire dal capo dello stato,
interpretazione della Carta?

Fate voi?

Oppure basterebbe pensare all’espulsione di Silvio Berlusconi dal Senato con l’interpretazione anticostituzionale e retroattiva di una legge,

oppure agli interventi politici pesanti di Napolitano, una roba al limite della Carta che assegna al presidente il ruolo di arbitro e tutore e non di giocatore,
insomma la detronizzazione del Cavaliere del 2011 mica fu normale, non vi pare?

E ancora, anche l’Enrico (Letta) stai sereno di Matteo Renzi che convinse “Re Giorgio” a cacciare Enrico Letta
per insediare il Napoleone di Rignano sull’Arno, fu un caso di interpretazione costituzionale,

come lo fu la guerra nel Kossovo decisa motu proprio da Massimo D’Alema senza l’avallo preventivo delle camere
perché secondo Scalfaro non serviva, anche se poi si rese necessario un passaggio parlamentare per evitare guai.

E potremmo continuare sul tema, toccò perfino Carlo Azeglio Ciampi sull’interpretazione dei poteri di grazia
e ci volle la consulta per chiarire.

Insomma nessuno più ci venga a dire che dopo la crisi demenziale voluta da Matteo Salvini nel 2019,
Mattarella non avrebbe potuto sciogliere le Camere per mandare gli italiani al voto.


Noi siamo sicuri che a parti invertite sarebbe successo e che il centrosinistra, avrebbe saputo convincere il Capo dello stato
a sciogliere le Camere per consentire agli italiani di esercitare quella sovranità che la Carta assegna.

Così come siamo sicuri che a parti invertite ad un governo di centrodestra
non sarebbe stato consentito di emanare i Dpcm indecorosi che ha emanato,

di nominare i commissari che ha nominato,
di gestire passerelle nelle ville,
di cambiare idea ogni secondo,
di procedere nel caos,
di bruciare centinaia di miliardi,
di rovinare il Paese e
di fare le dichiarazioni incredibili che il premier ha fatto.

Volete qualche esempio?

Ebbene dopo il famoso anno bellissimo, Giuseppe Conte all’inizio del 2020 se ne è uscito in conferenza stampa con la frase
“se arriva il virus siamo attrezzatissimi non ci saranno problemi”.

Un mese dopo il Governo ha dichiarato “nessun problema di mascherine ne abbiamo così tante da inondare il Paese”,

e poi gli annunci sulla potenza di fuoco mai vista,
la manovra che passerà alla storia,
l’Italia modello mondiale,
i soldi a tutti sul comodino,
l’Inps pronta in un attimo col click day,
fino ad arrivare a questi giorni con la promessa che non ci sarebbero state altre chiusure e invece sarà esattamente il contrario,
perché a natale sarà lockdown e nel Paese la confusione più totale e rabbia generale.

Insomma se Conte fosse stato un premier sostenuto anziché dagli eredi di Palmiro Togliatti, dei figliocci di un giullare di teatro, dei cattocomunisti,
ma da una coalizione di centrodestra sarebbe andato a casa con foglio di via immediato assieme al Governo
e saremmo tornati al voto, oppure ci sarebbe stato un esecutivo d’emergenza,
questa sarebbe stata la soluzione e l’interpretazione costituzionale della situazione.


Ecco perché diciamo una maggioranza da sciagura e una opposizione debole e immatura,
perché Conte fa come una sorta di dittatore, per via di un centrodestra incapace, complice,
che non vuole farsi sentire o perché non ne è in grado o perché ha paura, sia come sia si tratta di una pessima figura.

Del resto, scusate, quale opposizione potrebbe fare Salvini?

Quello del Papeete, della Nutella, delle foto sotto le lenzuola, del citofono, siamo seri.

E quale opposizione potrebbe fare Berlusconi che quando ha avuto il Paese in mano ha fallito
perché si è affidato ai consiglieri che lo hanno spinto ad inciuciare anziché liberare l’Italia dai cattocomunisti.

E quale opposizione può fare la Meloni che, per quanto brava e tosta,
intorno ha solo il vuoto di pensiero di una destra storica che di moderno, laico, liberale, antistatalista e garantista non ha niente o quasi?


Siamo sfigati: da una parte un Governo politicamente ipocrita, incapace, ignorante,

dall’altra una opposizione, immatura e compiacente che in attesa del 2023 dovrebbe studiare

e preparare innanzitutto un leader uomo o donna, ma con gli attributi e la cultura e la statura istituzionale
.


E poi un manifesto della destra liberale, per un Paese che in Europa

anziché sottomesso all’asse franco-tedesco sia libero, sovrano e rispettato.
 
Santità, ma perché se la prende con i regali di Natale?


È vero: il giorno in cui si celebra la venuta al mondo del Salvatore è stato contaminato da una mania consumistica spesso insensata.

Ma è pur vero che il regalo, quando è fatto con il cuore alle persone che si amano, non è solo una nevrosi.

Rifletta sulle parole: regalo-regale.

Recare un omaggio a chi si ama significa testimoniare con un simbolo l’enorme valore che egli ha per noi.

Non è il regalo in sé, ma quello che il regalo significa.

È un gesto che serve a fermarsi un attimo, e a ricordare a chi diamo per scontato un dettaglio fondamentale: io ti voglio bene.

Perché a parole non sempre ci viene bene.


Il regalo è anche un pretesto di condivisione:
è la gioia e la curiosità dei bambini,
è la soddisfazione di genitori, nonni e zii.
È un po’ come la tavola: al cenone e al pranzo.


Santità, noi ci teniamo non perché abbiamo un irrefrenabile impulso d’abbuffarci,
bensì perché cerchiamo un mezzo per rinvigorire la fiamma degli affetti.

Non a caso, Gesù, a tavola, si sedeva spesso: arrivarono persino a dargli del “mangione e beone”.

Non a caso, Gesù, a tavola fece la cosa più importante della sua “carriera”: istituì l’Eucaristia.

Non a caso, la messa altro non è se non la rievocazione in forma simbolica di un banchetto.


Lei, Santità, ricorda che Gesù, Giuseppe e Maria, in quel primo Natale, vissero tante difficoltà. È vero.

È vero pure, però, che secondo la tradizione, mentre Gesù era in fasce, gli fecero visita i Magi.

E gli portarono – in regalo! – oro, incenso e mirra: tutti segni che confermavano la vera natura del Cristo.

L’oro testimoniava, appunto, la regalità di Gesù;

l’incenso ne sottolineava la divinità;

la mirra, al tempo impiegata per la mummificazione, ne anticipava la morte in croce.

E anche per questi saggi non furono tutte rose e fiori: per consegnare quegli omaggi al Bambinello, affrontarono un viaggio lunghissimo.

Dovettero pure ingannare Erode, che tentava di sapere da loro dove si trovasse Gesù, per farlo fuori.


Lei, Santità, sostiene che i divieti ci aiuteranno a “purificare” il modo di vivere il Natale.

Lo ha detto anche Giuseppe Conte, che è un opportunista.



Però noi fedeli siamo preoccupati dalla mitezza – per usare un eufemismo – con cui la Chiesa ha ingurgitato ogni restrizione,
nonostante nelle parrocchie si rispettino scrupolosamente le norme anti Covid.

C’era persino una suora che proponeva di sostituire il Natale con la “festa dell’incontro”.

Obbedendo, avete dato un esempio di rispetto e sacrificio.

Purché l’obbedienza non diventi resa.

Non sarà che, presto, saremo costretti a rimpiangere il “clero refrattario”,
cioè quei sacerdoti che, rischiando la vita, si ribellarono alla persecuzione antireligiosa dei rivoluzionari francesi?



Da ultimo, Santità, da semplicissimo cattolico, la inviterei a riflettere su una circostanza cui Lei, di solito, è molto attento: il lavoro.

Dietro i regali, persino dietro il vituperato consumismo, ci sono i sacrifici e i bisogni di tante famiglie.

Ci sono gli imprenditori, i dipendenti, gli esercenti, i commessi.

Ci sono mamme e papà che quest’anno avranno difficoltà a comprare un giocattolino ai loro figli:
dovranno inventarsi, forse, che Babbo Natale è finito in quarantena.

Quei piccoli potranno fare a meno di una bambola o di un videogame.

Ma pensi a quanta sofferenza, a quale orribile sensazione di fallimento, assaliranno i genitori.


Pensi che persino Cristo, una volta, fece il consumista: quando Maria, la sorella di Marta,

“prese una libbra di olio profumato di vero nardo, assai prezioso” e ne “cosparse i piedi di Gesù”.


Si ricorda cosa successe?

Che Giuda, quello che poi l’avrebbe tradito, s’indignò:

“Perché quest’olio profumato non si è venduto per 300 denari per poi darli ai poveri?”.

Gesù ribatté:

“Lasciala fare […]. I poveri infatti li avete sempre con voi, ma non sempre avete me”.


Così, il Cristo ci spiega il senso del regalo: per chi non ama, ma adotta la logica utilitarista del maggior bene per il maggior numero, è uno spreco.
Per chi ama, è un modo di comunicarlo, prima che sia troppo tardi.


Quanti nonni, che il governo vuole tenere confinati per evitare che rischino di morire, prima del prossimo Natale saranno già morti?


Certo, la povertà, ce lo dice il Vangelo, aiuta a santificarsi.

Ma in quanto esercizio di distacco dalle cose che possediamo e che, a un certo punto, finiscono per possedere noi:
è una maturazione spirituale che si può sperimentare financo nell’abbondanza.

La povertà, invece, non aiuta in quanto miseria, in quanto mestizia, in quanto sofferenza fine a sé stessa.


Insomma, Santità, un conto è la povertà e un conto è il pauperismo.


Tornando all’episodio evangelico di cui sopra, Lei certamente avrà presente l’annotazione di Giovanni:

“Questo egli disse”, commenta l’autore riferendosi allo sdegno di Giuda,
“non perché gli importasse dei poveri, ma perché era ladro e, siccome teneva la cassa, prendeva quello che vi mettevano dentro”.
 
ma che pena e tristezza

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Guardate il presepe esposto in Vaticano

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Nei cosiddetti “secoli bui”, si erigevano monumenti come la cattedrale gotica di Notre Dame a Parigi,

o le innumerevoli chiese romaniche di cui è disseminata l’Italia.


Ora siamo nell’era del trionfo della scienza, della tecnologia e della razionalità,

eppure i disegnini che fa un bambino delle elementari spesso sono più belli di certe presunte opere d’arte sacra.


Diciamo che il presepe di papa Francesco è horribilis come l’anno 2020.


Uno dei personaggi – qualcuno mi ha fatto notare – somiglia all’astronauta di Alien
attaccato dallo xenomorfo… O sono io che non ci capisco niente?
 
Leggete e memorizzate bene. In che mani siamo caduti.


Diecimila italiani potevano guarire subito, come tanti Donald Trump.

Invece, aspettando un vaccino, l’Italia va incontro alla terza ondata Covid senza terapie a base di anticorpi monoclonali,

quelli che in tre giorni neutralizzano il virus evitando il ricovero.



Da uno stabilimento di Latina in realtà escono furgoni carichi di questi farmaci, ma sono destinati a salvare pazienti americani, non gli italiani.


Ai quali, per altro, erano stati offerti a titolo gratuito già due mesi fa.



È il paradosso di una storia che ha pesanti risvolti sanitari, politici ed etici.

“Abbiamo ‘pallottole’ specifiche contro il virus. Possono salvare migliaia di pazienti, evitare ricoveri e contagi,
ma decidiamo di non spararle. Non si spiega”, ripete da giorni Massimo Clementi, virologo del San Raffaele di Milano.


Racconta che i colleghi negli Stati Uniti da alcune settimane somministrano gli anticorpi neutralizzanti come terapia e profilassi per malati Covid.

La stessa cura che ha salvato la vita a Donald Trump in pochi giorni, nonostante l’età e il sovrappeso:

“Dopo 2-3 giorni guariscono senza effetti collaterali apparenti”.

Il tutto a 1000 euro circa per un trattamento completo, contro gli 850 euro di un ricovero giornaliero.


Gli Stati Uniti ne hanno acquistato 950mila dosi, seguiti da Canada e – notizia di ieri – Germania
.

Non l’Italia, dove si producono.


Il nostro Paese ha investito su un monoclonale made in Italy promettente ma disponibile solo fra 4-6 mesi.

Scienziati molto pragmatici si chiedono perché, nel frattempo, non si usino i farmaci che già si dimostrano efficaci altrove:
fin da ottobre – si scopre ora – era stata data all’Italia la possibilità di usare questi anticorpi attraverso un cosiddetto “trial clinico”,
nel quale 10mila dosi del farmaco sarebbero state proposte a titolo a gratuito.


Una mano dal cielo misteriosamente respinta mentre il Paese precipitava nella seconda ondata.


Il farmaco – bamlanivimab o Cov555 – è stato sviluppato dalla multinazionale americana Eli Lilly.

La sua efficacia nel ridurre carica virale, sintomi e rischio di ricovero è dimostrata da uno studio di Fase2 randomizzato (la fase 3 è in corso) condotto negli USA.

I risultati sono stati illustrati sul prestigioso New England Journal of Medicine.

Dall’headquarter di Sesto Fiorentino spiegano che l’anticorpo è stato messo in produzione
prima ancora che finisse la sperimentazione perché fosse disponibile su scala globale il prima possibile.


Dal 9 novembre, quando l’FDA ne ha autorizzato l’uso di emergenza, gli Stati Uniti hanno acquistato quasi un milione di dosi.

In Europa si aspetta il via libera dell’Ema che non autorizza medicinali in fase di sviluppo.


Una direttiva europea del 2001 consente, però, ai singoli Paesi EU di procedere all’acquisto
e la Germania ieri ha completato la procedura per autorizzarlo.

A breve toccherà all’Ungheria.

E l’Italia?

Aspetta.


Avendo il suo cuore europeo alle porte di Firenze, finito lo studio la società di Indianapolis
ha preso contatto con le autorità sanitarie e politiche nazionali, anche italiane.


Il 29 ottobre riunione con l’Aifa: collegati, tra gli altri,

Gianni Rezza per il Ministero della Salute;

Giuseppe Ippolito del Cts e direttore dello Spallanzani di Roma;

il professor Guido Silvestri, virologo alla Emory University di Atlanta che aveva favorito il contatto con Eli Lilly.

Sul tavolo, la possibilità di avviare in Italia la sperimentazione con almeno 10mila dosi gratis del farmaco

che negli USA ha dimostrato di ridurre i rischi di ospedalizzazione dal 72 al 90%.


In quel contesto viene anche chiarito che non sarebbe stato un favore alla multinazionale, al contrario:

una volta che l’FDA l’avesse autorizzato, sarebbero partite richieste da altri Paesi.



L’occasione, da cogliere al volo, cade nel vuoto,
per una rigida adesione alle regole di AIFA ed EMA che non hanno però fermato la rigorosa Germania.


Altra ipotesi: l’offerta è stata lasciata cadere per una scelta già fatta a monte.

Sui monoclonali da marzo il Governo ha investito 380 milioni per un progetto tutto italiano
che fa capo alla fondazione Toscana Life Sciences (TLS), ente non profit di Siena,
in collaborazione con lo Spallanzani e diretto dal luminare Rino Rappuoli.


La sperimentazione clinica deve ancora partire e la produzione, salvo intoppi, inizierà solo a primavera 2021.

A quanto risulta al Fatto, l’operazione con Eli Lilly, che già due mesi fa avrebbe permesso di salvare migliaia di persone,
non sarebbe andata in porto per l’atteggiamento critico verso questi anticorpi del direttore dello Spallanzani che lavorerà al progetto senese.


“Non so perché sia andata così, dovete chiedere ad AIFA”,
taglia corto il direttore Giuseppe Ippolito, negando un conflitto di interessi:
“Non prescrivo farmaci, mi occupo solo di scienza”.



Quando l’FDA autorizza il farmaco, la multinazionale non può più proporre il trial gratuito ma deve attenersi al prezzo della casa madre.

Per assurdo, sfumata l’opzione a costo zero, l’Italia esprime una manifestazione ufficiale di interesse all’acquisto.

Il negoziato va in scena il 16 novembre alla presenza di Arcuri, del DG dell’Aifa Magrini e del ministro della Salute Speranza.

Si parla di prezzo e di dosi ma il negoziato si ferma lì e non va avanti.


Neppure quando il sindaco di Firenze torna alla carica.

Dario Nardella annuncia ai giornali di aver parlato coi vertici di Eli Lilly e che
“se c’è l’ok della Commissione Ue, la distribuzione del farmaco a base di anticorpi monoclonali potrebbe cominciare dopo Natale
non solo in Francia, Spagna e Regno Unito ma anche in Italia”.

Natale è alle porte e in Italia non c’è traccia di farmaci anticorpali n
é si ha notizia di una pressione dell’Aifa per sollecitare l’omologa agenzia europea.


Come se l’opzione terapeutica per pazienti in lotta col virus, già disponibile altrove, non interessasse.


L’AIFA e la struttura di Arcuri – sentite dal Fatto – ribadiscono:
finché non c’è l’autorizzazione EMA non si va avanti.


Di troppa prudenza si può anche morire, rispondono gli scienziati.

“Io avrei accelerato”, dice chiaro e tondo il consulente del ministro Walter Ricciardi, presente alla riunione un mese fa:

“Con tanti morti e ospedalizzati valutare presto tutte le terapie disponibili è un imperativo etico e morale”.


Il virologo Silvestri, che tanto aveva spinto:

“Non capisco cosa stia bloccando l’introduzione degli anticorpi di Lilly e/o Regeneron,
che qui negli States usiamo con risultati molto incoraggianti”.


Ieri sera si è aggiunta anche la voce critica dell’immunologa dell’università di Padova Antonella Viola:
“E’ sorprendente questo ritardo, cosa aspettiamo?”.


Per il professor Clementi, siamo al paradosso.

“È importante trovare il miglior farmaco possibile, ma non possiamo scartare a priori una possibilità terapeutica che altrove salva le persone.
Una fiala costa poco più di un giorno di ricovero e ogni risorsa che risparmi la puoi usare per altro.
Tenere nel fodero un’arma che si dimostra decisiva è incomprensibile. Da qui, la mia sollecitazione all’AIFA”.


Da Sesto Fiorentino rispondono che il loro farmaco, oltre ai benefici in termini di salute e risparmio,
avrebbe avuto anche ricadute economiche per l’Italia: nella produzione è coinvolto un fornitore italiano, la Latina BSP Pharmaceutical.


“Se andrà bene potremmo distribuirlo non solo negli Usa ma anche in Italia”,
esultava a marzo il titolare dell’impresa pontina, Aldo Braca.


Nove mesi dopo dallo stabilimento di Latina esce il farmaco più promettente contro il Covid.

Ma va soltanto all’estero.
 
Leggete e memorizzate bene. In che mani siamo caduti.


Diecimila italiani potevano guarire subito, come tanti Donald Trump.

Invece, aspettando un vaccino, l’Italia va incontro alla terza ondata Covid senza terapie a base di anticorpi monoclonali,

quelli che in tre giorni neutralizzano il virus evitando il ricovero.


Da uno stabilimento di Latina in realtà escono furgoni carichi di questi farmaci, ma sono destinati a salvare pazienti americani, non gli italiani.


Ai quali, per altro, erano stati offerti a titolo gratuito già due mesi fa.



È il paradosso di una storia che ha pesanti risvolti sanitari, politici ed etici.

“Abbiamo ‘pallottole’ specifiche contro il virus. Possono salvare migliaia di pazienti, evitare ricoveri e contagi,
ma decidiamo di non spararle. Non si spiega”, ripete da giorni Massimo Clementi, virologo del San Raffaele di Milano.


Racconta che i colleghi negli Stati Uniti da alcune settimane somministrano gli anticorpi neutralizzanti come terapia e profilassi per malati Covid.

La stessa cura che ha salvato la vita a Donald Trump in pochi giorni, nonostante l’età e il sovrappeso:

“Dopo 2-3 giorni guariscono senza effetti collaterali apparenti”.

Il tutto a 1000 euro circa per un trattamento completo, contro gli 850 euro di un ricovero giornaliero.


Gli Stati Uniti ne hanno acquistato 950mila dosi, seguiti da Canada e – notizia di ieri – Germania
.

Non l’Italia, dove si producono.


Il nostro Paese ha investito su un monoclonale made in Italy promettente ma disponibile solo fra 4-6 mesi.

Scienziati molto pragmatici si chiedono perché, nel frattempo, non si usino i farmaci che già si dimostrano efficaci altrove:
fin da ottobre – si scopre ora – era stata data all’Italia la possibilità di usare questi anticorpi attraverso un cosiddetto “trial clinico”,
nel quale 10mila dosi del farmaco sarebbero state proposte a titolo a gratuito.


Una mano dal cielo misteriosamente respinta mentre il Paese precipitava nella seconda ondata.


Il farmaco – bamlanivimab o Cov555 – è stato sviluppato dalla multinazionale americana Eli Lilly.

La sua efficacia nel ridurre carica virale, sintomi e rischio di ricovero è dimostrata da uno studio di Fase2 randomizzato (la fase 3 è in corso) condotto negli USA.

I risultati sono stati illustrati sul prestigioso New England Journal of Medicine.

Dall’headquarter di Sesto Fiorentino spiegano che l’anticorpo è stato messo in produzione
prima ancora che finisse la sperimentazione perché fosse disponibile su scala globale il prima possibile.


Dal 9 novembre, quando l’FDA ne ha autorizzato l’uso di emergenza, gli Stati Uniti hanno acquistato quasi un milione di dosi.

In Europa si aspetta il via libera dell’Ema che non autorizza medicinali in fase di sviluppo.



Una direttiva europea del 2001 consente, però, ai singoli Paesi EU di procedere all’acquisto
e la Germania ieri ha completato la procedura per autorizzarlo.

A breve toccherà all’Ungheria.

E l’Italia?

Aspetta.


Avendo il suo cuore europeo alle porte di Firenze, finito lo studio la società di Indianapolis
ha preso contatto con le autorità sanitarie e politiche nazionali, anche italiane.


Il 29 ottobre riunione con l’Aifa: collegati, tra gli altri,

Gianni Rezza per il Ministero della Salute;

Giuseppe Ippolito del Cts e direttore dello Spallanzani di Roma;

il professor Guido Silvestri, virologo alla Emory University di Atlanta che aveva favorito il contatto con Eli Lilly.

Sul tavolo, la possibilità di avviare in Italia la sperimentazione con almeno 10mila dosi gratis del farmaco

che negli USA ha dimostrato di ridurre i rischi di ospedalizzazione dal 72 al 90%.


In quel contesto viene anche chiarito che non sarebbe stato un favore alla multinazionale, al contrario:

una volta che l’FDA l’avesse autorizzato, sarebbero partite richieste da altri Paesi.



L’occasione, da cogliere al volo, cade nel vuoto,
per una rigida adesione alle regole di AIFA ed EMA che non hanno però fermato la rigorosa Germania.


Altra ipotesi: l’offerta è stata lasciata cadere per una scelta già fatta a monte.

Sui monoclonali da marzo il Governo ha investito 380 milioni per un progetto tutto italiano
che fa capo alla fondazione Toscana Life Sciences (TLS), ente non profit di Siena,
in collaborazione con lo Spallanzani e diretto dal luminare Rino Rappuoli.


La sperimentazione clinica deve ancora partire e la produzione, salvo intoppi, inizierà solo a primavera 2021.

A quanto risulta al Fatto, l’operazione con Eli Lilly, che già due mesi fa avrebbe permesso di salvare migliaia di persone,
non sarebbe andata in porto per l’atteggiamento critico verso questi anticorpi del direttore dello Spallanzani che lavorerà al progetto senese.


“Non so perché sia andata così, dovete chiedere ad AIFA”,
taglia corto il direttore Giuseppe Ippolito, negando un conflitto di interessi:
“Non prescrivo farmaci, mi occupo solo di scienza”.



Quando l’FDA autorizza il farmaco, la multinazionale non può più proporre il trial gratuito ma deve attenersi al prezzo della casa madre.

Per assurdo, sfumata l’opzione a costo zero, l’Italia esprime una manifestazione ufficiale di interesse all’acquisto.

Il negoziato va in scena il 16 novembre alla presenza di Arcuri, del DG dell’Aifa Magrini e del ministro della Salute Speranza.

Si parla di prezzo e di dosi ma il negoziato si ferma lì e non va avanti.


Neppure quando il sindaco di Firenze torna alla carica.

Dario Nardella annuncia ai giornali di aver parlato coi vertici di Eli Lilly e che
“se c’è l’ok della Commissione Ue, la distribuzione del farmaco a base di anticorpi monoclonali potrebbe cominciare dopo Natale
non solo in Francia, Spagna e Regno Unito ma anche in Italia”.

Natale è alle porte e in Italia non c’è traccia di farmaci anticorpali n
é si ha notizia di una pressione dell’Aifa per sollecitare l’omologa agenzia europea.


Come se l’opzione terapeutica per pazienti in lotta col virus, già disponibile altrove, non interessasse.


L’AIFA e la struttura di Arcuri – sentite dal Fatto – ribadiscono:
finché non c’è l’autorizzazione EMA non si va avanti.


Di troppa prudenza si può anche morire, rispondono gli scienziati.

“Io avrei accelerato”, dice chiaro e tondo il consulente del ministro Walter Ricciardi, presente alla riunione un mese fa:

“Con tanti morti e ospedalizzati valutare presto tutte le terapie disponibili è un imperativo etico e morale”.


Il virologo Silvestri, che tanto aveva spinto:

“Non capisco cosa stia bloccando l’introduzione degli anticorpi di Lilly e/o Regeneron,
che qui negli States usiamo con risultati molto incoraggianti”.


Ieri sera si è aggiunta anche la voce critica dell’immunologa dell’università di Padova Antonella Viola:
“E’ sorprendente questo ritardo, cosa aspettiamo?”.


Per il professor Clementi, siamo al paradosso.

“È importante trovare il miglior farmaco possibile, ma non possiamo scartare a priori una possibilità terapeutica che altrove salva le persone.
Una fiala costa poco più di un giorno di ricovero e ogni risorsa che risparmi la puoi usare per altro.
Tenere nel fodero un’arma che si dimostra decisiva è incomprensibile. Da qui, la mia sollecitazione all’AIFA”.


Da Sesto Fiorentino rispondono che il loro farmaco, oltre ai benefici in termini di salute e risparmio,
avrebbe avuto anche ricadute economiche per l’Italia: nella produzione è coinvolto un fornitore italiano, la Latina BSP Pharmaceutical.


“Se andrà bene potremmo distribuirlo non solo negli Usa ma anche in Italia”,
esultava a marzo il titolare dell’impresa pontina, Aldo Braca.


Nove mesi dopo dallo stabilimento di Latina esce il farmaco più promettente contro il Covid.

Ma va soltanto all’estero.
robe de matt
 

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