Val
Torniamo alla LIRA
Il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), presentato in bozza dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte
il 7 dicembre è deludente sotto moltissimi punti di vista.
L’unico aspetto positivo è l’evidenza dell’assoluta incapacità gestionale e organizzativa,
l’assenza di una visione chiara di come l’Italia possa davvero uscire dalla crisi.
Dico aspetto positivo perché una tale evidenza dovrebbe naturalmente portare a escludere Conte e la sua accolita da ogni possibilità di governare il Paese.
La struttura 1-3-6-300 è semplicemente ridicola da un punto di vista gestionale,
probabilmente anticostituzionale e denota una profonda ignoranza di elementari principi di gestione di organizzazioni complesse.
Ma ciò che è peggio è la toppa dopo il buco.
Conte reagisce alle critiche dettagliate e veementi di Matteo Renzi in Senato
dicendo che c’è un fraintendimento colossale e che basta, nella sostanza,
togliere qualche potere ai sei manager et voilà tutto è a posto
con qualche limatura Consiglio dei ministri alla volemose bene.
Non è così.
Mancano completamente tutti gli aspetti chiave della gestione,
a partire dai meccanismi operativi cioè la scelta delle modalità con le quali effettivamente controllare l’effettivo svolgersi del programma,
e poi le responsabilità, la struttura di chi effettivamente progetta gli interventi, i parametri obiettivo, i tempi, le risorse coinvolte.
Nel merito il piano è a mio avviso profondamente sbagliato, con errori marchiani e incongruenze notevoli.
Manca tutto.
L’unica cosa che c’è è il numero dei nominati, e la libertà assoluta di scegliere i nominati che è avocata a Conte stesso.
Ed è evidente perché ci sia solo questo.
In primo luogo, perché non c’è capacità di gestione e leadership, né la voglia di entrare nel merito delle scelte.
Il piano è una raccolta di desideri di ministri per lo più incompetenti.
Poi perché scegliendo chi decide e dispone le uscite di cassa, in un concetto ottocentesco dell’organizzazione, si crede di potere comandare in modo assoluto.
Nell’ipotesi (ormai non realistica) in cui siffatto piano fosse approvato,
qualsiasi buon manager si rifiuterebbe categoricamente di accettare l’incarico,
mentre disoccupati in cerca di autore, bibitari, laureati in improbabili facoltà con nessuna prospettiva,
o persone con nessuna esperienza gestionale sarebbero ben felici di avere ruolo e potere,
sempre però ossequiando in modo assoluto chi li ha portati a tale responsabilità.
L’ipotesi di coinvolgere manager di rilevo di aziende pubbliche è talmente sballata
per gli evidenti colossali conflitti di interesse da non meritare nemmeno discussione, ma era ahimè la tesi iniziale del governo.
La Commissione europea ha messo paletti abbastanza stringenti.
Il 37% delle risorse va nella transizione verde
e il 20% nella digitalizzazione.
Questi sono titoli però.
Lo svolgimento può essere drammaticamente diverso e il confronto con la Francia che è anni luce più avanti
(ricordiamo che la partenza è stata data 6 mesi fa lo stesso giorno, noi con Conte abbiamo fatto nulla,
in Francia, Portogallo e Grecia sono avanzatissimi e tra breve vedremo il piano Germania dettagliatissimo
e teutonicamente organizzato in modo perfetto) è impietoso.
Ciò che differenzia la bozza italiana e France Relance è lo spirito sottostante.
In Francia il governo si propone di agevolare, con una serie di iniziative estremamente dettagliate,
a vario titolo i privati e le imprese a migliorare la loro competitività e la loro produttività.
Il governo facilita, aiuta, riduce tasse o dà contributi ma il cuore del rilancio sono i privati siano essi singoli cittadini o le imprese.
In Italia l’80% della spesa è per… lo Stato stesso.
Non a caso circa 88 miliardi sostituiscono capitoli di spesa già in essere,
di fatto dimezzando la potenza di fuoco del piano stesso tanto sbandierato come una vittoria.
È una differenza basilare, fondamentale nella visione dello Stato e del suo ruolo,
che sta alla base della mancata crescita italiana negli ultimi 30 anni.
È la solita drammatica endemica presunzione che lo Stato sia in grado di disintermediare i privati
(cittadini, imprese anche terzo settore) facendo meglio, convinzione assolutamente negata dalla storia, dall’evidenza anche italiana, da tutto.
Ma ideologicamente presente nella cultura dei partiti che sono al governo.
Lo Stato imprenditore è un fallimento su tutta la linea.
Senza se e senza ma.
Ma il piano Conte ripropone questa ideologia in tutto e per tutto negando ai privati tutti la fiducia e la capacità di essere i veri attori della ripresa.
Il modello è lo stesso sperimentato con la fallimentare gestione Covid e la sua comunicazione.
Il merito delle decisioni di chiusura è dello Stato, il demerito dei contagi è dei privati indisciplinati.
Quindi si spende :
per rifare edifici scolastici e ospedali (sacrosanto, ma quanto serve davvero?),
per la banda larga (giusto, ma quanto fa lo Stato e quanto i privati e come?),
per una serie di infrastrutture (giusto ma quanto c’è di già finanziato solo da cantierare, prima di fare nuove iniziative?)
e, perfino nell’unico grosso capitolo di spesa “delegato” ai privati (industria 4.0), si introducono una serie di iniziative di intermediazione dello Stato.
Un esempio specifico serve a chiarire il concetto.
È chiaro a tutti che l’esportazione di beni industriali è una delle necessità di crescita del tessuto produttivo italiano.
Siamo la seconda nazione esportatrice dopo la potente Germania in Europa.
Bene, per favorire l’export si finanzia nel Pnrr la Simest,
con cui la grandissima parte delle imprese non ha alcun rapporto,
che ha dato soldi a qualcuno (in molti casi perdendoli perché ha finanziato imprese poi decotte e fallite)
pur con costi di agenzia molto elevati.
Il capitolo di supporto all’export in Italia prende esattamente 5 righe (!!) a pagina 49 che dicono
«rifinanziamento della Simest, digitalizzazione e internalizzazione ente fiere» e «rafforzamento patto per l’export».
France Relance ha sullo stesso tema 6 progetti specifici ciascuno con obiettivi, risorse e ammontare dei finanziamenti.
In Francia vengono identificate misure precise
(tra cui finanziamento crediti, 5mila euro l’anno per missioni commerciali all’estero a disposizione di ogni impresa, 50% del costo per fiere).
La differenza è chiara e netta.
Da una parte si finanzia un intermediario statale che poi deciderà cosa e come fare in un numero ristretto di casi fortunati.
Dall’altra si mettono soldi direttamente nelle tasche delle imprese, in modo capillare, profondo e diffuso.
Saranno le imprese a decidere loro stesse dove e come spenderli nell’assunzione che gli imprenditori più capaci sapranno fare fruttare questi contributi.
Non a caso qualche commentatore in Italia ha detto che il piano francese
è troppo spostato sulla competitività delle imprese e quindi la discussione ideologica è evidente.
Da una parte si pensa che lo Stato sia più capace dei privati di spendere e di allocare la spesa in modo più corretto (Italia).
Dall’altra l’opposto (Francia).
Le due visioni sono legittime entrambe e la scelta è assolutamente politica,
ma va fatta esplicitamente, preferibilmente guardando in passato quale dei due sistemi abbia prodotto risultati migliori.
Resta da chiarire perché da una parte si invoca la task force e si giudicano i ministeri incapaci,
e dall’altra si pensa che la task force o altri enti statali siano enormemente più efficienti nell’allocare risorse dei privati.
Alcune rapide osservazioni di merito sull’allocazione delle risorse.
La lista sarebbe lunghissima ma solo alcuni punti esemplificativi della qualità generale.
Come bene ha detto Renzi, 3 miliardi al turismo è semplicemente ridicolo.
Manca uno zero alla fine della cifra e non esiste una visione concreta sul tema.
Sempre la pagina 49 del piano, Conte dedica al turismo una menzione speciale di circa 5 righe
(su 129 pagine) in cui si dice che le presenze sono crollate del 20% nel 2020.
Non si capisce a quali alberghi si riferisca perché a Roma, Venezia, Milano, Firenze
se va bene gli alberghi hanno avuto un calo dell’80% non del 20%.
Ma a parte questa menzione, la famigerata pagina 49 non dice nulla di nulla.
Seguono 2 pagine sul patrimonio culturale italiano, e 3,1 miliardi allocati per realizzare, tra le altre cose,
la «digitalizzazione del patrimonio culturale italiano» e «una scuola di formazione turistico professionale».
Il turismo rappresenta il 12% circa del Pil italiano e le misure sono queste. Raccapricciante.
Nove miliardi alla Sanità è molto probabilmente insufficiente
L’accenno al piano di miglioramento della digitalizzazione della pubblica amministrazione è velleitario e senza alcun contenuto concreto.
Manca la scelta politica fondamentale (prevista dall’attuale ordinamento ma mai attuata per inettitudine politica)
di misurare effettivamente la performance della pubblica amministrazione.
Non viene fatto e continuerà a non essere fatto per le resistenze sindacali, politiche e sociali.
Mancano risorse quasi in toto, ad eccezione di un accenno a industria 4.0, per il miglioramento della produttività.
Gli effetti di aumento produttività sono indiretti (infrastrutture) e quindi dilazionati molto in là nel tempo.
Manca totalmente il tema della crisi demografica, che è conclamata e fortissima.
Sulla parità di genere si prevede tra le altre cose di rafforzare l’Anpal
(si presume sotto l’illuminata guida di Parisi in missione dal Mississippi),
e di creare un sistema di “certificazione” nazionale della parità di genere
(così avremo un altro gruppo di persone che genera burocrazia sul tema),
nonché interventi sull’imprenditoria femminile, e diffusione della cultura di pari opportunità.
Ma sono misure per nulla fondamentali per promuovere la parità di genere
e per offrire opportunità di impiego vero al Sud, dove la partecipazione femminile al lavoro è 30 punti sotto la media europea.
Lo skill mismatch – cioè la totale mancanza di formazione sulle competenze critiche nei prossimi anni
e l’eccesso di enfasi su competenze che non hanno vero mercato – è accennato in modo burocratico.
Ci sono però 3,8 miliardi dedicati alla raccolta digitale con “sensoristica e analisi georeferenziata” di prodotti agricoli specie al Sud.
Ora vorrei un minuto di silenzio per confrontare 3,8 miliardi su questo tema
e 3.1 miliardi per il turismo (senza peraltro citare alcuna misura specifica) più le attività culturali nel loro insieme.
Hanno evidentemente lo stesso impatto in termini di crescita e sviluppo sostenibile del Paese.
In sintesi, l’allocazione delle risorse è molto criticabile e riflette una logica più populista-demagogica-
a parole (tanto “verde”, tanto “digitale”, tante “agenzie”, tante “certificazioni”, ulteriore burocrazia statale)
priva di riflessi concreti sulla crescita del paese nei fatti.
il 7 dicembre è deludente sotto moltissimi punti di vista.
L’unico aspetto positivo è l’evidenza dell’assoluta incapacità gestionale e organizzativa,
l’assenza di una visione chiara di come l’Italia possa davvero uscire dalla crisi.
Dico aspetto positivo perché una tale evidenza dovrebbe naturalmente portare a escludere Conte e la sua accolita da ogni possibilità di governare il Paese.
La struttura 1-3-6-300 è semplicemente ridicola da un punto di vista gestionale,
probabilmente anticostituzionale e denota una profonda ignoranza di elementari principi di gestione di organizzazioni complesse.
Ma ciò che è peggio è la toppa dopo il buco.
Conte reagisce alle critiche dettagliate e veementi di Matteo Renzi in Senato
dicendo che c’è un fraintendimento colossale e che basta, nella sostanza,
togliere qualche potere ai sei manager et voilà tutto è a posto
con qualche limatura Consiglio dei ministri alla volemose bene.
Non è così.
Mancano completamente tutti gli aspetti chiave della gestione,
a partire dai meccanismi operativi cioè la scelta delle modalità con le quali effettivamente controllare l’effettivo svolgersi del programma,
e poi le responsabilità, la struttura di chi effettivamente progetta gli interventi, i parametri obiettivo, i tempi, le risorse coinvolte.
Nel merito il piano è a mio avviso profondamente sbagliato, con errori marchiani e incongruenze notevoli.
Manca tutto.
L’unica cosa che c’è è il numero dei nominati, e la libertà assoluta di scegliere i nominati che è avocata a Conte stesso.
Ed è evidente perché ci sia solo questo.
In primo luogo, perché non c’è capacità di gestione e leadership, né la voglia di entrare nel merito delle scelte.
Il piano è una raccolta di desideri di ministri per lo più incompetenti.
Poi perché scegliendo chi decide e dispone le uscite di cassa, in un concetto ottocentesco dell’organizzazione, si crede di potere comandare in modo assoluto.
Nell’ipotesi (ormai non realistica) in cui siffatto piano fosse approvato,
qualsiasi buon manager si rifiuterebbe categoricamente di accettare l’incarico,
mentre disoccupati in cerca di autore, bibitari, laureati in improbabili facoltà con nessuna prospettiva,
o persone con nessuna esperienza gestionale sarebbero ben felici di avere ruolo e potere,
sempre però ossequiando in modo assoluto chi li ha portati a tale responsabilità.
L’ipotesi di coinvolgere manager di rilevo di aziende pubbliche è talmente sballata
per gli evidenti colossali conflitti di interesse da non meritare nemmeno discussione, ma era ahimè la tesi iniziale del governo.
La Commissione europea ha messo paletti abbastanza stringenti.
Il 37% delle risorse va nella transizione verde
e il 20% nella digitalizzazione.
Questi sono titoli però.
Lo svolgimento può essere drammaticamente diverso e il confronto con la Francia che è anni luce più avanti
(ricordiamo che la partenza è stata data 6 mesi fa lo stesso giorno, noi con Conte abbiamo fatto nulla,
in Francia, Portogallo e Grecia sono avanzatissimi e tra breve vedremo il piano Germania dettagliatissimo
e teutonicamente organizzato in modo perfetto) è impietoso.
Ciò che differenzia la bozza italiana e France Relance è lo spirito sottostante.
In Francia il governo si propone di agevolare, con una serie di iniziative estremamente dettagliate,
a vario titolo i privati e le imprese a migliorare la loro competitività e la loro produttività.
Il governo facilita, aiuta, riduce tasse o dà contributi ma il cuore del rilancio sono i privati siano essi singoli cittadini o le imprese.
In Italia l’80% della spesa è per… lo Stato stesso.
Non a caso circa 88 miliardi sostituiscono capitoli di spesa già in essere,
di fatto dimezzando la potenza di fuoco del piano stesso tanto sbandierato come una vittoria.
È una differenza basilare, fondamentale nella visione dello Stato e del suo ruolo,
che sta alla base della mancata crescita italiana negli ultimi 30 anni.
È la solita drammatica endemica presunzione che lo Stato sia in grado di disintermediare i privati
(cittadini, imprese anche terzo settore) facendo meglio, convinzione assolutamente negata dalla storia, dall’evidenza anche italiana, da tutto.
Ma ideologicamente presente nella cultura dei partiti che sono al governo.
Lo Stato imprenditore è un fallimento su tutta la linea.
Senza se e senza ma.
Ma il piano Conte ripropone questa ideologia in tutto e per tutto negando ai privati tutti la fiducia e la capacità di essere i veri attori della ripresa.
Il modello è lo stesso sperimentato con la fallimentare gestione Covid e la sua comunicazione.
Il merito delle decisioni di chiusura è dello Stato, il demerito dei contagi è dei privati indisciplinati.
Quindi si spende :
per rifare edifici scolastici e ospedali (sacrosanto, ma quanto serve davvero?),
per la banda larga (giusto, ma quanto fa lo Stato e quanto i privati e come?),
per una serie di infrastrutture (giusto ma quanto c’è di già finanziato solo da cantierare, prima di fare nuove iniziative?)
e, perfino nell’unico grosso capitolo di spesa “delegato” ai privati (industria 4.0), si introducono una serie di iniziative di intermediazione dello Stato.
Un esempio specifico serve a chiarire il concetto.
È chiaro a tutti che l’esportazione di beni industriali è una delle necessità di crescita del tessuto produttivo italiano.
Siamo la seconda nazione esportatrice dopo la potente Germania in Europa.
Bene, per favorire l’export si finanzia nel Pnrr la Simest,
con cui la grandissima parte delle imprese non ha alcun rapporto,
che ha dato soldi a qualcuno (in molti casi perdendoli perché ha finanziato imprese poi decotte e fallite)
pur con costi di agenzia molto elevati.
Il capitolo di supporto all’export in Italia prende esattamente 5 righe (!!) a pagina 49 che dicono
«rifinanziamento della Simest, digitalizzazione e internalizzazione ente fiere» e «rafforzamento patto per l’export».
France Relance ha sullo stesso tema 6 progetti specifici ciascuno con obiettivi, risorse e ammontare dei finanziamenti.
In Francia vengono identificate misure precise
(tra cui finanziamento crediti, 5mila euro l’anno per missioni commerciali all’estero a disposizione di ogni impresa, 50% del costo per fiere).
La differenza è chiara e netta.
Da una parte si finanzia un intermediario statale che poi deciderà cosa e come fare in un numero ristretto di casi fortunati.
Dall’altra si mettono soldi direttamente nelle tasche delle imprese, in modo capillare, profondo e diffuso.
Saranno le imprese a decidere loro stesse dove e come spenderli nell’assunzione che gli imprenditori più capaci sapranno fare fruttare questi contributi.
Non a caso qualche commentatore in Italia ha detto che il piano francese
è troppo spostato sulla competitività delle imprese e quindi la discussione ideologica è evidente.
Da una parte si pensa che lo Stato sia più capace dei privati di spendere e di allocare la spesa in modo più corretto (Italia).
Dall’altra l’opposto (Francia).
Le due visioni sono legittime entrambe e la scelta è assolutamente politica,
ma va fatta esplicitamente, preferibilmente guardando in passato quale dei due sistemi abbia prodotto risultati migliori.
Resta da chiarire perché da una parte si invoca la task force e si giudicano i ministeri incapaci,
e dall’altra si pensa che la task force o altri enti statali siano enormemente più efficienti nell’allocare risorse dei privati.
Alcune rapide osservazioni di merito sull’allocazione delle risorse.
La lista sarebbe lunghissima ma solo alcuni punti esemplificativi della qualità generale.
Come bene ha detto Renzi, 3 miliardi al turismo è semplicemente ridicolo.
Manca uno zero alla fine della cifra e non esiste una visione concreta sul tema.
Sempre la pagina 49 del piano, Conte dedica al turismo una menzione speciale di circa 5 righe
(su 129 pagine) in cui si dice che le presenze sono crollate del 20% nel 2020.
Non si capisce a quali alberghi si riferisca perché a Roma, Venezia, Milano, Firenze
se va bene gli alberghi hanno avuto un calo dell’80% non del 20%.
Ma a parte questa menzione, la famigerata pagina 49 non dice nulla di nulla.
Seguono 2 pagine sul patrimonio culturale italiano, e 3,1 miliardi allocati per realizzare, tra le altre cose,
la «digitalizzazione del patrimonio culturale italiano» e «una scuola di formazione turistico professionale».
Il turismo rappresenta il 12% circa del Pil italiano e le misure sono queste. Raccapricciante.
Nove miliardi alla Sanità è molto probabilmente insufficiente
L’accenno al piano di miglioramento della digitalizzazione della pubblica amministrazione è velleitario e senza alcun contenuto concreto.
Manca la scelta politica fondamentale (prevista dall’attuale ordinamento ma mai attuata per inettitudine politica)
di misurare effettivamente la performance della pubblica amministrazione.
Non viene fatto e continuerà a non essere fatto per le resistenze sindacali, politiche e sociali.
Mancano risorse quasi in toto, ad eccezione di un accenno a industria 4.0, per il miglioramento della produttività.
Gli effetti di aumento produttività sono indiretti (infrastrutture) e quindi dilazionati molto in là nel tempo.
Manca totalmente il tema della crisi demografica, che è conclamata e fortissima.
Sulla parità di genere si prevede tra le altre cose di rafforzare l’Anpal
(si presume sotto l’illuminata guida di Parisi in missione dal Mississippi),
e di creare un sistema di “certificazione” nazionale della parità di genere
(così avremo un altro gruppo di persone che genera burocrazia sul tema),
nonché interventi sull’imprenditoria femminile, e diffusione della cultura di pari opportunità.
Ma sono misure per nulla fondamentali per promuovere la parità di genere
e per offrire opportunità di impiego vero al Sud, dove la partecipazione femminile al lavoro è 30 punti sotto la media europea.
Lo skill mismatch – cioè la totale mancanza di formazione sulle competenze critiche nei prossimi anni
e l’eccesso di enfasi su competenze che non hanno vero mercato – è accennato in modo burocratico.
Ci sono però 3,8 miliardi dedicati alla raccolta digitale con “sensoristica e analisi georeferenziata” di prodotti agricoli specie al Sud.
Ora vorrei un minuto di silenzio per confrontare 3,8 miliardi su questo tema
e 3.1 miliardi per il turismo (senza peraltro citare alcuna misura specifica) più le attività culturali nel loro insieme.
Hanno evidentemente lo stesso impatto in termini di crescita e sviluppo sostenibile del Paese.
In sintesi, l’allocazione delle risorse è molto criticabile e riflette una logica più populista-demagogica-
a parole (tanto “verde”, tanto “digitale”, tante “agenzie”, tante “certificazioni”, ulteriore burocrazia statale)
priva di riflessi concreti sulla crescita del paese nei fatti.