I segnali da non trascurare
Il Messaggero - Speriamo che gli analisti finanziari, i baldi giovinotti delle società di rating e soprattutto i manovratori dei capitali dei grandi fondi d’investimento siano in vacanza in terre lontane, dove delle cronache politiche italiane non arrivi neppure l’eco. Perché se i protagonisti dei mercati internazionali e della grande finanza soltanto si accorgessero di quello che sta accadendo nella sempre più indecente politica italica, allora il “rischio Grecia” che per fortuna ci ha soltanto sfiorato qualche mese fa, si riaffaccerebbe incombente e pericoloso come non mai. E non perché a quei signori freghi minimamente se ha più torto - qui di ragioni non se ne trovano neanche con il lanternino - Berlusconi o Fini, Bersani o Vendola, Caliendo o Di Pietro. No, a loro interessa sapere se il Paese con il terzo debito pubblico più grande del mondo, equamente diviso tra i cittadini italiani e le istituzioni finanziarie internazionali, il cui Tesoro deve ancora emettere e piazzare - tra ora e Natale, cominciando dopodomani con un’asta di Btp a 5 e 15 anni - ben 165 miliardi di euro di titoli di Stato (il 35% dei 480 previsti per l’intero 2010) sia stabile sul piano politico e istituzionale, pena la possibilità che venga colpito da un abbassamento del suo rating o comunque da un downgrading di fatto del valore del debito stesso, con tutto quel che Grecia insegna.
D’accordo, facciamo pure tutti i debiti (è il caso di dirlo) scongiuri, ma qui non si tratta di menar gramo, ma di essere consapevoli di cosa significhi assumersi la responsabilità di portare il Paese a quella sorta di guerra civile cui stiamo assistendo da troppo tempo e che nelle ultime settimane ha assunto toni apocalittici. Si dirà: ma gli italiani, siano essi imprenditori o dipendenti, continuano a lavorare, assicurando così una continuità laddove la classe politica produce instabilità. Vero, e posso assicurare che se il loro umore non è dissimile da quello - più disgustato che partigiano per tizio o caio - che ogni giorno registro personalmente tra il foltissimo pubblico di “Cortina InConTra”, che è uno spaccato rappresentativo della “borghesia del fare”, allora il distacco tra elettori e politici è totale. Ma mai come dopo la Grande Crisi, finanziaria e recessiva, degli ultimi tre anni, sappiamo che la buona volontà di chi opera non è sufficiente se manca la capacità della politica di governare i complicati processi di trasformazione dell’economia. Tanto più in un paese come l’Italia che deve ancora portare a termine, attraverso le riforme strutturali, quell’opera di modernizzazione che altrove la globalizzazione ha reso più stringente.
Insomma, l’Italia produttiva può anche alzare le spalle di fronte all’irresponsabilità di chi ci porta dritti alle elezioni anticipate, ma ciò non toglie che la cosa resti grave. Non fosse altro perché questa crisi politica - che pare ormai irreversibile dopo la richiesta di dimissioni del presidente della Camera da parte del Pdl - giunge in una fase delicatissima della congiuntura economica. Da un lato, infatti, c’è qualche segno di risveglio - specie sul fronte dell’export, che è sì determinato dal calo del cambio dell’euro sul dollaro, ma anche da una strategica ristrutturazione produttiva, di processo e di prodotto, portata a compimento da un nucleo di medie imprese vincenti - che andrebbe assecondato da scelte di politica industriale oggi inesistenti, ma dall’altro ci sono non meno spie rosse di pericolo accese. E non solo per quei dati forniti qualche giorno fa dall’Istat sulla produttività del lavoro italiano, scesa del 2,7% negli ultimi anni della recessione ma anche dello 0,5% l’anno nell’ultimo decennio, gravi perché i nostri competitor sono invece andati avanti. No, ciò che inquieta sono i dati apparentemente più positivi, e per questi assunti senza alcun filtro valutativo, relativi alla produzione industriale (a giugno +8,1% rispetto a un anno prima) e all’andamento del pil nel secondo trimestre (+1,1% su base annua, +0,4% sul trimestre precedente). La produzione della nostra industria era aumentata nei tre anni tra il 2005 e il 2007 solo del 5,4%, mentre nel biennio infernale 2008-2009 è crollata del 21,9%, con punte del 30,9% per la produzione di beni durevoli e del 26,8% per quella di beni strumentali. Ora, il recupero tra febbraio e giugno 2010 è stato del 12,2%, e quindi poco più della metà rispetto al 2007, ma anche nei confronti del 2005 siamo ancora sotto di 7 punti e mezzo percentuali. Dunque, abbiamo invertito il senso di marcia, ma francamente parlare di ripresa è forzato, anche perché facciamo riferimento a quei livelli di produzione ante-recessione che comunque erano insoddisfacenti se confrontati con quelli dei nostri maggiori competitor, europei e non. E questa stitichezza la si trova riflessa anche nel pil: il +1,1% del secondo trimestre, che segue il +0,5% del primo, è ben lontano da farci riassorbire i 6 punti e mezzo persi nel biennio 2008-2009 ed è significativamente lontano dal risultato americano (+3,7% e +2,4% i primi due trimestri) e probabilmente inferiore a quello medio europeo (i dati non ci sono ancora, ma la Bce ha fatto intendere che Eurolandia va meglio del previsto), per non parlare dell’Asia che continua a galoppare.
Insomma, non è vero che siamo partiti per le ferie con la certezza che la crisi è finita e la nostra economia ha ripreso a correre. Così come non è vero che non c’è da temere le elezioni anticipate in autunno, perché tanto la ripresa marcia per conto proprio. Certo, per l’economia non si sa cosa sia peggio tra una campagna elettorale che, viste le premesse, si annuncia drammaticamente sanguinosa, e un andazzo come quello cui stiamo assistendo che si dovesse trascinare per mesi e mesi. Anche perché non possiamo contare sulla distrazione dei mercati finanziari all’infinito. L’ideale sarebbe andare alle urne per chiudere la fallimentare stagione del bipolarismo armato che abbiamo inaugurato nel 1994, in una fase della vita nazionale, apertasi due anni prima, che somiglia maledettamente a quella attuale. Ma questo presupporrebbe una legge elettorale diversa - ragionevolmente di tipo tedesco - e un diffuso desiderio, dopo il voto, di comporre un quadro e un clima politico di convergenza nazionale sulle grandi riforme. Impossibile? Facciamo voti, e speriamo nell’equilibrio e nella saggezza del presidente della Repubblica.